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La crisi del 1929 e la Grande Depressione (1928-1932)

Nelle serie storiche delle maggiori economie del Novecento, il periodo 1929-32 si distingue per gli aumenti della disoccupazione, la riduzione del reddito, la contrazione del commercio internazionale, con variazioni vicine al 25 per cento dei valori pregressi. Questa depressione, la maggiore del Novecento, è associata nella memoria collettiva alla crisi finanziaria del 1929.

Il crollo degli indici di borsa a Wall Street, sebbene riferibile più propriamente al momento finale di una bolla speculativa che alle condizioni della produzione, è divenuto, nella memoria storica, il nome con il quale si indica il periodo di depressione economica in quanto era in grado di indicare l’accentuata vulnerabilità che il sistema produttivo ha avuto verso la mobilità nel mercato dei capitali e la contrazione dei consumi, condizioni verificatesi in modo congiunto a partire dal 1929.

Nel corso degli anni Venti le economie occidentali conobbero una radicale trasformazione nei comportamenti di consumo delle famiglie. Questa condizione ebbe una ripercussione sull’insieme del sistema economico, rendendolo più sensibile alle variazioni dei prezzi nominali dei beni di consumo. Ne seguì una vulnerabilità dell’intero sistema: l’attività produttiva, distribuita nel medio periodo, divenne più sensibile alle scelte compiute dai consumatori nel breve periodo.

La letteratura argomenta come errata l’associazione tra crisi finanziaria e depressione dell’economia reale, poiché la depressione precede nel tempo l’evento del crollo dei valori finanziari registrato a New York e risulta maggiormente fondata sugli squilibri nel mercato delle materie prime, dei prodotti agricoli e nelle scelte di politica commerciale, più che nelle scelte di politica finanziaria.

Sebbene l’esistenza di questi due diversi eventi sia inconfutabile, occorre guardarsi da due letture del processo storico entrambe fallaci: se da una parte risulta, infatti, impossibile porre in termini di necessaria causalità la crisi finanziaria con la grande depressione; dall’altra, però, è necessario riconoscere l’incidenza che la crisi finanziaria ebbe sulla Grande Depressione degli anni Trenta.

Infatti, in seguito alle crisi dei sistemi finanziari nazionali del periodo 1929-1931, aumentò la percezione della vulnerabilità dei principi stessi con cui governare il sistema economico, in particolar modo riguardo le scelte normative nei due campi della politica monetaria e del mercato dei capitali. La raggiunta consapevolezza di questa vulnerabilità nelle due sfere appena menzionate portò, negli anni successivi alla crisi finanziaria, ad un radicale riordino del sistema economica internazionale nel suo insieme, ispirato a un’idea di tutela dei rapporti tra disponibilità di capitali e attività

produttiva al fine di evitare crisi della bilancia dei pagamenti e fuga dei capitali. Ne seguì la scelta di vincolare la disponibilità del risparmio all’attività produttiva e, nello specifico, di impedire la libera circolazione dei capitali, impedendo contestualmente commistioni tra l’offerta di credito e l’attività produttiva. Gli anni Trenta vennero così ad essere caratterizzati dal vincolo alla mobilità dei capitali e dalla separazione tra banca e industria.

Si ritiene opportuno, quindi, considerare le crisi del 1929-1931 su entrambi i piani, ovvero come esiti di bolle speculative dei mercati azionari e valutari americani ed europei; e come momento fondante del processo di ridefinizione delle regole del mercato dei capitali, del bene e del lavoro, che continuò per tutti gli anni Trenta, estendendosi in parte fino a costituire uno dei fattori della riorganizzazione del modello del sistema finanziario del secondo dopo-guerra, da conflittuale a egemone.

L’analisi delle crisi del 1929 e del 1931 come bolle speculative si fonda sull’osservazione empirica, da una parte, della variazione dei prezzi delle azioni quotate a Wall Street nel periodo 1921-29, e dall’altra sull’impatto che il rischio di cambio ha avuto in termini patrimoniali in seguito alle modalità con cui era regolato il sistema dei pagamenti internazionali. La svalutazione della sterlina del 1931 impose, infatti, attraverso il vincolo del gold exchange

standard, una svalutazione della corona austriaca causando, in

conseguenza, un danno patrimoniale ai detentori di quella valuta, trascinando nel fallimento la Credit-Ansalt e, di conseguenza, molte altre banche europee.

Riguardo la crisi finanziaria americana del 1929, la maggiore evidenza del processo speculativo su Wall Street è ricavabile dal confronto tra i prezzi delle azioni nel periodo tra il 1921 e il 1929. Confrontando il rapporto del dividendo pagato dalle società con il prezzo delle azioni relative, si osserva come questo sia diminuito dal 6,5% del 1921 al 3,5% nel 1929. La bolla dei prezzi si arrestò il 28 ottobre 1929: l’indice crollò da 298 a 260, il giorno scese ancora fino a 230. La contrazione rispetto alla fine del mese precedente fu del 40%. Il massimo e il minimo del percorso speculativo registrato dall’indice dei prezzi di Standard & Poor è espresso nei valori dell’indice di 347 del settembre 1929 sceso a 47 nel giugno 1932.

Alla fine degli anni Venti, tra il 1928 e il 1929, il mercato finanziario statunitense registrò altri due importanti processi di cambiamento nel mercato dei capitali: l’aumento del tasso di sconto dei titoli scambiati a pronti contro termine e la conseguente attrazione di un flusso speculativo di capitali. Osservando la serie storica dei prestiti contro termine della borsa di Wall Street, è evidente come i tassi passano da un ordine di grandezza del 5-6% nella seconda metà degli anni Venti, ad un valore del 12% nel 1928

e del 20% nel 1929. Questa variazione così alta dei premi comportò una straordinaria attrazione di capitali verso attività borsistiche con finalità speculative.

Alla base del processo vi fu un’espansione del mercato delle obbligazioni di società di public utilities, come ad esempio quelle della General Electric, che venivano vendute ai risparmiatori dell’ovest degli Stati Uniti, i quali le accettavano basandosi sull’idea, largamente condivisa dalla cultura dell’epoca, di una rapida e ineluttabile modernizzazione del paese, che avrebbe quindi permesso, nel giro di un breve lasso di tempo, di ricavare utili dagli investimenti fatti.

La conseguente estensione del mercato azionario rese evidente la possibilità di svolgere attività speculative, portate avanti da diversi soggetti finanziari grazie alla pratica di vendita di titoli pronti contro termine, legalmente possibile nella borsa di Wall Street durante tutti gli anni Venti. Grazie a questa tecnica, nota come margin buiyng, gli investitori potevano acquistare titoli a credito indebitandosi per una parte del loro valore con un broker o una banca. In tal modo si acquisivano grandi quantità di azioni, stimolando trend rialzisti del valore nominale dei titoli e ricavando, così, grandi profitti.

Il contratto di margin buying aveva due condizioni: la richiesta del saldo dell’intero debito, raramente utilizzata, oppure, più frequente in funzione degli andamenti del mercato, dell’aumento delle garanzie sul debito stesso. All’inizio dell’ottobre del 1929, quando gli investitori cominciarono a percepire la fragilità dell’intero sistema, le vendite aumentarono e i prezzi delle obbligazioni cominciarono a crollare. A questo punto i broker vennero sommersi da richieste di aumento dei depositi di garanzia da parte delle banche: per far fronte a queste richieste essi si riversarono sul mercato secondario tentando di ottenere pronti contro termine presso altre banche. Su questa situazione si inserì la politica monetaria della Fed che, al fine di ridurre il volume del mercato dei titoli pubblici per sostenerne prezzi e al fine di non alimentare la speculazione, ridusse le quote settimanali assegnate al risconto dei titoli, inducendo una catena di fallimenti delle piccole banche, che si vedevano private di una risorsa di liquidità.

L’esito congiunto di questi ultimi due processi portò tra il 1929 e il 1933 al fallimento di circa quattromila delle ventimila banche operanti nel paese. In moltissimi casi si trattò di banche a sportello singolo: la crisi comportò, così, in modo indiretto, una riorganizzazione strutturale del mercato dei capitali degli Stati Uniti, che si manifestò nel breve e medio periodo come una contrazione dell’offerta di moneta, mentre nel lungo periodo come aumento dimensionale delle società bancarie.

La Fed non giudicava in modo negativo questa situazione in quanto permetteva un processo di aggregazione e di crescita di dimensione degli intermediari bancari statunitensi. Tale crescita degli intermediari commerciali alleggeriva le autorità monetarie dalla necessità di operare direttamente sul mercato secondario e, di riflesso, le consentiva di utilizzare le proprie riserve a sostegno del valore internazionale del dollaro, coerentemente con un progetto strategico che puntava a fare del dollaro la moneta di riferimento del sistema finanziario internazionale.

Questa catena di eventi generò, dunque, la consapevolezza del consumarsi di una profonda variazione nel mercato finanziario. Gli agenti economici modificarono la loro idea di tutela da un concetto di stabilità dei prezzi ad un’idea di credibilità della moneta in cui quei prezzi erano espressi. Questa condizione è indicata dalla scelta dei privati di ritirare i depositi presso le banche e dalla contemporanea scelta della Fed di non aumentare in modo espansivo la quantità di moneta in circolazione. L’esito fu il ridursi del rapporto depositi-circolante e più generalmente del livello della base monetaria, cioè dell’indicatore composto dalla somma tra circolante e riserve bancarie, che passò dal 1929 al 1933 da 3,7 a 2,4.

Sostenute dalla Fed di New York, le grandi banche newyorkesi aumentarono la propria concessione creditizia evitando il fallimento di molti istituti. Wall Street recuperò già nei primi mesi del 1930, stabilizzando la produzione industriale e il tasso di occupazione. Nell’estate del 1932 fu nominata una commissione d’inchiesta sul funzionamento del mercato dei titoli, per ordine del presidente Hoover, che fece maturare un clima di riforme radicali del mercato finanziario statunitense. La modifica della normativa venne approvata nel 1933, intervenendo, con il Securities Act, sul mercato dei capitali, e con lo Glass-Steagall Act, sugli istituti di credito. La prima legge aveva l’obiettivo di migliorare la qualità e la circolazione delle informazioni sui titoli quotati, mentre la seconda separava completamente le attività di banca commerciale, che si doveva limitare alla raccolta dei depositi e alla concessione dei prestiti, e di banca di investimento, attive sul settore dell’emissione, collocamento e compravendita dei titoli.

La crisi finanziaria arrivò in Europa sotto forma di un ritiro dei depositi esteri dalle banche di Gran Bretagna, Germania, Austria e Ungheria. Questi depositi erano eccezionalmente liquidi e reattivi alle variazioni della fiducia. I risparmiatori che percepivano una non adeguata liquidità dei titoli li abbandonavano, spostandosi su altri titoli. Conseguentemente, le banche si trovavano ad essere in una condizione di mancata raccolta di risparmio e il loro attivo, già critico, continuava a peggiore. Queste condizioni potevano essere sanate solamente da interventi della banca centrale, che avrebbe dovuto i titoli immobilizzati in cambio di valuta nazionale. Quindi, il

ritiro dei depositi a fronte della paura della svalutazione finiva per alimentare un circuito finanziario che aumentava le probabilità che la stessa svalutazione divenisse realtà, in ragione del fatto che le riserve internazionali su cui la banca centrale poteva fare affidamento erano quelle che essa poteva raccogliere sui mercati esteri.

Siccome i flussi di capitali internazionali si muovono in conseguenza dei tassi d’interesse, la concatenazione dei valori del tasso di sconto delle banche centrali aveva la sua origine dalla banca che possedeva la maggior parte di oro disponibile, ovvero la Fed. Fintanto che quest’ultima avesse tenuto alto il suo tasso di sconto, gli altri erano impossibilitati a fare diversamente, determinando una rigidità generale del sistema. Finché i sistemi nazionali avessero accettato di rimanere nel sistema del gold

standard, ogni variazione del rapporto tra valute nazionali e oro

poteva essere contrattata solo internazionalmente.

- Fuga di capitali, offerta di moneta e tassi di interesse, (fonte:

Krugman, Economia internazionale 2, 270)

I punti 1 e 1’ della figura mostrano rispettivamente l’equilibrio sul mercato monetario e sul mercato dei cambi, in un contesto di cambi fissi, in cui il livello E0 indica la condizione di stabilità del cambio e M1 il livello di offerta di moneta compatibile.

E’ inteso che la stabilità venga meno solo in seguito a cambiamenti significativi nella bilancia dei pagamenti, cioè dopo variazioni nel volume o nel valore del saldo tra importazioni ed

esportazioni, del flusso di capitali e delle riserve. Immaginando che una di questa condizioni si verifichi, il sistema sarà interessato da una alta mobilità dei capitali. Gli agenti, stimando una caduta del cambio, calcolano il possibile danno patrimoniale e se ne tutelano cambiando i propri capitali in valute più stabili. Il processo però, essendo attuato ad un livello di cambio nominale non ancora modificato, finisce per anticipare il succedersi dell’evento di svalutazione che si teme accada.

La parte superiore della figura illustra questo cambiamento. La previsione di un peggioramento sposta verso destra la curva che indica il rendimento atteso in valuta nazionale. Poiché il tasso di cambio corrente è ancora E0, l’equilibrio sul mercato dei cambi (punto 2’) richiede una crescita fino a R* +(E1- E0) E0 del tasso di interesse interno, che eguaglia il tasso di interesse atteso, misurato in valuta nazionale, sulle attività denominate in valuta estera.

Questo processo è quanto fu evitato nel caso delle aspettative di svalutazione della sterlina nel 1927 e del dollaro nel 1929, aumentando le riserve in valuta nazionale per mezzo di prestiti internazionali. La svalutazione fu però impossibile da evitare, come vedremo a breve, nel 1931 nel caso della valuta austriaca e, in seguito, di quella inglese, proprio a causa della mancata collaborazione tra le banche centrali e in specie per via dell’indisponibilità della Fed e della Banca di Francia, determinando forti mobilità, ovvero fughe, di capitali tra i diversi mercati. Il rapido ripetersi di condizioni simili convinse, inoltre, gli operatori privati e i governi che la organizzazione del sistema finanziario internazionale nella forma del gold-exchange standard, definito nella conferenza di Genova nel 1922, non fosse più credibile. La Conferenza di Londra tenuta a un decennio dalla precedente ne decretò così, come si vedrà, formalmente la fine.

La crisi europea scoppiò appunto in Austria, dove le connessioni tra banca e industria, storicamente forti, erano aumentate esponenzialmente durante la Prima guerra mondiale. Nel maggio del 1931 la maggiore banca austriaca, la Credit-Anstalt, che aveva un bilancio, nel 1930, pari all’intera spesa del governo centrale e che era stata malamente gestita per tutti gli anni Venti. Alla pubblicizzazione, l’11 maggio 1931, delle difficoltà finanziarie del colosso bancario austriaco seguì un rapido ritiro dei depositi bancari e un immediato intervento del governo che, d’accordo con la banca centrale, tentò di andare in soccorso della banca in difficoltà, Le ripercussioni si estesero, quindi, alla valuta nazionale, provocando un aumento del 25% del circolante nel solo mese di maggio, che si tradusse in un conseguente e massiccio ritiro dei depositanti austriaci ma soprattutto francesi, che avevano perso fiducia nel sistema industriale e finanziario austriaco. In una classica situazione di collaborazione bancaria internazionale, l’Austria avrebbe potuto ottenere i prestiti di cui necessitava per

ripristinare la fiducia. La scarsa convinzione americana e l’opposizione del governo nazionalista francese di Pierre Laval, che non vedeva di buon occhio la possibile unione doganale tra Germania e Austria, fecero però naufragare questa possibilità, portando all’introduzione di una moratoria sul ritiro dei depositi esteri e del controllo sui cambi e quindi alla sospensione de facto del gold standard in Austria.

Gli investitori inglesi e francesi che si erano visti congelare i depositi austriaci vennero indotti ad ottenere liquidità dai depositi in Germania. Soprattutto, il caso austriaco aveva messo i risparmiatori in allarme in quanto aveva determinato un preoccupante precedente. Inoltre, gli eventi politici tedeschi del 1931, con la caduta del governo Müller in marzo, lo scioglimento del Reichstag e l’avanzata dei nazisti alle elezioni di settembre, contribuirono ad accelerare il processo di deflusso di denaro dalla Germania. Si calcola che la Reichsbank perse, nelle sole prime due settimane di giugno del 1931, 630 milioni di oro, più del 25% del totale di inizio mese. Il processo di fuga di capitali aumentò nuovamente in luglio, con il fallimento dell’industria tessile Nordwolle che produsse una corsa agli sportelli della Danat Bank, la sua principale banca creditrice. Nuovamente, motivazioni politiche furono alla base della mancata cooperazione internazionale nella messa a punto di un prestito tedesco: in particolar modo la Francia, che vedeva nelle difficoltà tedesche solo un pretesto per ottenere una moratoria sulle riparazioni di guerra, fu inamovibile.

In conseguenza dei ritiri esteri dei depositi, la Germania impose delle restrizioni sulla circolazione del marco, aumentando le pressioni sulla sterlina: non a caso il ritiro di oro dalla Banca d’Inghilterra iniziò il 13 luglio, giorno in cui la Danat Bank tedesca venne dichiarata fallita. Al 18 luglio, le riserve perdute dalla Banca d’Inghilterra ammontavano già a 10 milioni di sterline, destinati a diventare 56 milioni alla fine del mese, nonostante il 22 luglio le autorità aumentarono il tasso di sconto.

Il funzionamento del gold standard internazionale si fondava sulla cooperazione tra banche centrali nei momenti di difficoltà, pratica che venne lentamente a consumarsi. Tuttavia, il progetto di rendere il dollaro la moneta egemone per gli scambi internazionali era antitetico al mantenimento della regola della cooperazione inter-bancaria. Nel luglio del 1931, quando la Fed partecipò al prestito alla Banca d’Inghilterra insieme alla Banca di Francia per un totale di 25 milioni di sterline, il governatore Harrison precisò in una letterache quella sarebbe stata l’ultima volta in cui gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in soccorso della sterlina e che le richieste di liquidità inglesi avrebbero dovuto essere soddisfatte mediante il ricorso ad altre istituzioni.

Nonostante questa straordinaria iniezione di liquidità, la sterlina non riusciva a rimanere in parità di cambio col dollaro. Sarebbe stata necessaria un’ulteriore riduzione della spesa pubblica o un aumento delle imposte: tuttavia, l’esecutivo laburista, in carica dal giugno del 1929, guidava un governo di minoranza, che aveva bisogno dell’essenziale aiuto dei liberali per mantenere la maggioranza nella Camera dei Comuni. Se, quindi, da una parte i laburisti si opponevano al progetto di ridurre la spesa pubblica, i liberali si rifiutavano di votare nuove tasse, portando alla caduta del governo il 23 agosto 1931.

Il governo di unità nazionale – formato da quattro ministri laburisti, quattro conservatori e due liberali – tagliò la spesa pubblica di 70 milioni di sterline, aumentò le tasse per 75 milioni, colpendo sia i redditi che le imposte indirette – e tagliò del 10% i sussidi di disoccupazione. Questo permise di ottenere un prestito dalla J.P. Morgan per un totale di 200 milioni di dollari con il fine di sostenere il valore della sterlina, a cui si affiancò un altro prestito del medesimo importo da parte della Banca di Francia.

La fiducia nella cooperazione internazionale, e quindi nelle manovre necessarie a sostenere la valuta inglese, era ormai scossa e i capitali continuarono ad abbandonare il paese, minacciando ulteriormente le riserve della Banca. Dato che ulteriori tagli alla spesa pubblica non erano praticabili, grazie anche ai segnali di scontento che giungevano, ad esempio, dalla rivolta dei marinai della flotta inglese a Invergordon, il 19 settembre la Gran Bretagna sospese la convertibilità della sterlina. Dopo le elezioni dell’ottobre del 1931, che videro trionfare il Partito conservatore, vi furono ulteriori tagli alla spesa pubblica, nonché l’adozione di un dazio doganale, che era stato uno dei punti del programma economico dei conservatori sin da prima del 1914, rendendo necessaria un’altra grande riorganizzazione dei trattati commerciali vigenti nel sistema economico internazionale.

Molti paesi seguirono, con tempi diversi, l’esempio inglese, per motivi essenzialmente legati alla bilancia dei pagamenti e ai rapporti commerciali. A fine settembre erano già nove i paesi che avevano sospeso la convertibilità aurea, tra cui Svezia, Danimarca e Norvegia, a cui si aggiunsero, in ottobre, Portogallo, Finlandia, Bolivia e Salvador, il Giappone in Dicembre, e altri otto paesi nel corso del 1932. Se nel 1931 i paesi legati all’oro erano 47, alla fine del 1932 solamente poche nazioni importanti, come gli Stati Uniti,

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