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Cap. 3 Il sistema finanziario nazionale: il conflitto (1914-1939)

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Cap. 3 Il sistema finanziario nazionale: il conflitto (1914-1939)

Sommario

Le spese imposte dalla Guerra mondiale del 1914-18, rispondendo non a priorità di mercato ma a preferenze ideologiche, distrussero il sistema finanziario preesistente. I cambiamenti intervenuti in ambito di finanza interna ed estera, negli scambi commerciali e nella politica economica interna, determinarono condizioni nuove. L’esito fu la formazione di un sistema orientato secondo le scelte compiute dalle unità economiche aggregate non in base alla loro attività produttiva, ma secondo la loro residenza e condizione sociale. Il sovrapporsi dei cambiamenti indicati definì, in ragione della sua efficacia, le condizioni che divennero degli incentivi selettivi per le scelte di gruppi sociali e produttivi che furono avvantaggiati o svantaggiati da nuove modalità di tassazione, mobilità dei capitali, organizzazione commerciale e situazione politica. Conseguentemente, essi agirono consolidando o demolendo la situazione esistente fino a definire una diversa concezione di rischio e di credibilità finanziaria.

Il centro e la periferia del sistema economico ne risultarono modificati. La posizione di centro fu assunta dalle economie statunitense, inglese e francese, in quanto in grado di vincolare gli scambi mondiali nei mercati dei beni, del capitale e delle riserve monetarie internazionali. la posizione di periferia fu invece assunta sia dalle altre economie industriali, chiamate a coordinarsi o concorrere in quei mercati, in particolare quella tedesca, giapponese e italiana;

sia, in modo complementare, dalle economia dai paesi produttori di materie prime. Osservato nella linea del tempo il sistema finanziario nazionale si definì nei periodi di guerra, tra il 1914 e il 1918; di ricostruzione dell’economia internazionale, tra il 1919 e il 1924; di attività e poi crisi dell’economia liberale, tra il 1925 e il 1933; in ultimo, tra il 1934 e il 1939, nella frammentazione autarchica, che portò alla divisone del mondo in aree di sviluppo e alla egemonia, dopo la Seconda guerra mondiale, di un’unica nazione: gli Stati Uniti.

1. Patrimoni, risparmi e investimenti

1.1 I caratteri generali: condivisione delle regole, vincoli costrittivi e vantaggi selettivi

Ogni sistema finanziario determina una modalità di allocazione di risorse e rischi nel tempo tra gli operatori economici.

Specificamente, questa allocazione riguarda, principalmente, l’offerta di moneta, le modalità di disponibilità di capitale e il rendimento delle obbligazioni cedute sul mercato estero. Tutto ciò comporta l’applicazione di modi e procedure dello scambio di beni e servizi in grado, da una parte, di gestire l’intermediazione delle disponibilità finanziarie, patrimoni e/o risparmi, tra unità economiche, cioè tra famiglie, imprese e stati sovrani; e, dall’altra, di gestire il trasferimento dei rischi tra le unità economiche e gli agenti che le compongono per mezzo dei prezzi di beni e servizi, così come dei vincoli e degli incentivi operativi allo scambio dei beni e servizi.

Queste scelte comportano inoltre trasferire potere di acquisto

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da una parte tra diversi stati di natura, cioè attraverso titoli assicurativi, della rendita e simili; dall’altra di un bene e servizio tra i diversi soggetti economici, attraverso le cambiali, le obbligazioni, le azioni e simili.

Se le condizioni descritte vengono declinate secondo i principi di costo-opportunità tra i mercati interno ed estero, senza che questo determini una sotto-utilizzazione delle risorse in uno dei due contesti, si verifica una situazione che possiamo rappresentare graficamente come in Fig. 3.1.

- Equilibrio interno (II) ed esterno (XX) – Le quattro zone di disagio economico. (Krugman, Economia internazionale 2, p.

338)

La figura mostra la condizione virtuosa nella relazione tra i mercati interno ed internazionale; in cui la divisione del lavoro consente un pieno impiego delle risorse in tutti i contesti: in questo modo si ottiene, infatti, un contemporaneo esistere di condizioni di equilibrio interno ed estero. Con equilibrio interno si intende quello che consente il pieno impego delle risorse e la stabilità dei prezzi;

con equilibrio estero quello che consente il livello ottimo del saldo del conto corrente.

Storicamente queste condizioni non sono mai esistite. La storia ha invece presentato esclusivamente condizioni di divisione del

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lavoro in cui si attuano vantaggi di scambio assoluti o relativi, come sono stati i sistemi finanziari mercantile e industriale già visti nei capitoli precedenti. Dagli anni Novanta dell’Ottocento questa condizione venne a consumarsi rapidamente. Le innovazioni tecnologiche – a partire dall’uso della industria elettrica e chimica che consentirono di superare i vincoli di localizzazione della energia, la crescita delle reti nella navigazione commerciale e nella rete delle comunicazioni intercontinentali – portarono infatti ad un aumento degli scambi intra-settoriali, fondati sulla fornitura di materie prime e beni intermedi in ragione della diversa produttività dei fattori. Tra gli esiti di questa prima globalizzazione vi fu, quindi, quello di creare una un’area di disagio, ovvero una sottoutilizzazione delle risorse in diversi contesti, nella relazione tra i mercati domestico e internazionale.

Queste tensioni, ben visibili nei mercati di cambio delle valute, furono, nei due decenni a cavallo del Novecento, risolte per mezzo di un aumento del volume delle triangolazioni commerciali e finanziarie svolte per la maggior parte per tramite della City di Londra. Molti paesi industrializzati infatti avevano un deficit verso i paesi produttori di materie prime e un credito verso l’Inghilterra, che a sua volta aveva un credito, per interessi, verso i paesi produttori di materie prime, di cui per esempio aveva finanziato le reti dei trasporti. Ne seguì che molte società trovarono conveniente detenere fondi di deposito in sterline presso le banche della City in modo da attuare saldi commerciali con il duplice vantaggio di non richiedere movimenti di oro e di ricevere interessi sui depositi, e/o possibilità di svolgere transazioni di pronti contro termine.

La Guerra modificò questi contesti, ponendo fine al sistema finanziario industriale e aprendo al consolidamento di quello nazionale, che si articolò poi in diverse forme organizzative e di gestione per tutto il Novecento. Durante il conflitto, molti altri paesi importatori si orientarono ad un maggiore uso delle risorse nazionale, molti operarono con saldi commerciali in disavanzo – specie con gli Stati Uniti – , molti operarono in deficit, liquidando attività sull’estero e offrendo titoli a garanzia e modificando i calendari delle scorte, in ultimo indebitandosi. I blocchi commerciali attuati in funzione bellica, e soprattutto gli attacchi tedeschi ai convogli merci, portarono all’interruzione delle forniture da parte dei paesi europei verso l’America latina e l’Asia.

Ne seguì che questi mercati furono forniti da Stati Uniti e dal Giappone, che ne divennero poi nel dopoguerra i principali interlocutori commerciali e finanziari.

Condizioni di sotto o sovra occupazione portano a richieste e aspettative di cambiamento. Esse rendono il valore reale della valuta nazionale meno certo e frenano gli investimenti sul mercato interno portando all’esportazioni di capitali fino al limite di generare una modifica della variazione nel livello dei prezzi. Questi

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fattori comportano, da un lato, una ridefinizione del valore di cambio, che modifica il valore dei prestiti definiti al valore nominale precedente alla caduta dei prezzi; dall’altro, essendo denominati in valuta corrente, provocano una redistribuzione del reddito tra creditori e debitori e a seguire una modifica della bilancia dei pagamenti che registra la variazione sull’effetto reddito degli agenti, così come su quelli di sostituzione nelle componenti di domanda e offerta.

Dunque, una condizione di disagio – ovvero di allontanamento dall’equilibrio – sul mercato interno come quella descritta genera conseguenze sul mercato estero. Similmente, una condizione di disagio sui mercati internazionali ha ripercussioni sul mercato nazionale interno. Si perverrà, quindi, ad uno squilibrio della bilancia dei pagamenti anche ogni qual volta che gli operatori riterranno non efficaci le scelte di impiego dei loro capitali sull’estero. Qualora la differenza tra nei rendimenti si mostri particolarmente elevata si verificheranno infatti azioni di rapido movimento di capitali da un paese all’altro con conseguenti instabilità nella occupazione, nella distribuzione del reddito, nella raccolta fiscale, fino ad alterare le condizioni del sistema economico nel suo insieme.

La consapevolezza della necessità di affrontare le condizioni di disagio descritte determina la nascita del sistema finanziario nazionale, che si manifesta attraverso la creazione di una costrizione economica a livello nazionale. Questa permette, distribuendo un costo minimo sul totale della popolazione, di generare dei vantaggi selettivi per alcuni gruppi di governo, accumunati da posizioni specifiche, come ad esempio tipologia di produzione, luogo di residenza e appartenenza politica. La costrizione si manifesta attraverso strumenti quali il corso forzoso della moneta, il livello di stabilizzazione del cambio tra valuta domestica e quella interazionale, la politica fiscale, la tassazione dei redditi, le scelte di politica industriale e di spesa sociale, ad esempio per l’istruzione e per la assistenza.

Le diverse realtà nazionali generano costrizioni economiche e sistemi di regole che valgono solamente per i residenti. Il problema dell’assenza di un contesto istituzionale capace di avere forza costrittiva a livello internazionale fu superato promuovendo strumenti di condivisione, a cominciare dai trattati internazionali, come quelli di Versailles del 1919 o di Genova del 1922, fino alla partecipazione ad organizzazioni internazionali, come ad esempio la Società delle Nazioni. I cambiamenti indicati portarono a ridefinire le componenti del mercato internazionale, riordinandole non in relazione al prezzo, ma in relazione al loro reciproco, cioè i sistemi di pagamento. Nel corso degli anni Venti, al centro di questa ridefinizione si pose la Banca d’Inghilterra come perno di un sistema di banche centrali nazionali, cui veniva chiesto di

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riconoscere, sottoscrivendo un trattato, alla sterlina il ruolo di valuta di riserva internazionale. La centralità dei trattati commerciali ottocenteschi veniva così sostituita, nel periodo tra le due guerre mondiali, dai trattati monetari.

Il sistema finanziario nazionale possiede delle caratteristiche specifiche che portano ad una tendenziale ed endemica instabilità.

Questa è generata, dal lato della domanda, nella variazione delle preferenze dei consumatori, e dal lato dell’offerta, dalla ricerca dell’innovazione tecnologica che porta ad una variazione dei prezzi relativi. Entrambe determinano un cambiamento politico negli accordi tra i diversi gruppi di interessi presenti a livello nazionale e nella disponibilità dell’insieme della popolazione ad accettare il minimo dei costi. L’incertezza generata dalle preferenze dei consumatori e della ricerca tecnologica si sviluppa sul breve e sul lungo periodo. Questi due mondi diversi, per essere armonizzati tra loro, richiedono un processo di creazione di fiducia, che viene delegato a degli organi con funzioni di arbitro, ovvero le banche centrali.

I caratteri di costrizione economica, incentivi selettivi e instabilità tendenziale, sono rappresentati nell’equazione di economia internazionale secondo le seguenti modalità.

Consideriamo prima l’equilibrio interno. Esso richiede che la domanda aggregata eguagli il livello del prodotto di pieno impiego delle risorse. Per convenzione si ritiene che la domanda aggregata sia pari alla somma del Consumo (C), dell’Investimento (I), della spesa pubblica in beni e servizi attuata dal Governo (G), a fronte dei Trasferimenti (T) – ovvero le imposte, che riducono la diponibilità di spesa effettiva delle unità economiche – e del saldo del conto corrente (CA), quale risulta della differenza delle importazioni ed esportazioni tra mercato nazionale ed internazionale. Si noti che parte di questa somma indicata come assorbimento interno – pari ad A = C+I+G – è utilizzata per acquisire beni di importazione per cui non contribuisce, per il suo intero, alla domanda aggregata di produzione interna, mentre vi contribuisce interamente la domanda estera delle esportazioni di beni nazionali.

Considerando inoltre come il saldo valore positivo del conto corrente sia una funzione decrescente della spesa e una funzione crescente del tasso do cambio reale – CA(EP*/P, A) – la condizione di equilibrio interno risulta essere espressa dall’equazione seguente.

Yf = C+I+G+CA(EP*/P, A) = A+ CA( EP*/P, A)

L’equazione indica il ruolo del governo nell’influenzare la spesa totale. Un aumento di G (o una diminuzione di T) porta ad un

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aumento della domanda aggregata e della produzione;

analogamente una svalutazione di della moneta (cioè un aumento dei prezzi al valore reale (P*) o un aumento di E) rendono i beni e i servizi nazionali meno cari di quelli, analoghi, venduti sui mercati esteri e quindi – se non vi sono barriere tariffarie dei paesi esteri sui prodotti nazionali – aumentano la produzione domestica.

Il sistema finanziario nazionale opera con la finalità di un aumento della produzione e della occupazione in modo diretto modificando la politica fiscale, in modo indiretto associando una politica inflativa ad un sistema di cambi variabili, cioè consentendo una svalutazione in termini reali che induce i residenti a tornare a consumare i prodotti nazionali. Diversamente in regime di cambi fissi un aumento inflativo può solo essere compensato da una riduzione dell’offerta di moneta e una riduzione della produzione interna.

In sintesi dunque, nonostante vi sia svalutazione e aumento della spesa nazionale, l’equilibrio interno ed esterno non può mai essere raggiunto stabilmente, quindi l’instabilità del sistema finanziario nazionale risulta inevitabile.

- Politiche che conducono all’equilibrio interno ed esterno (Krugman, Economia internazionale 2, p. 341)

L’analisi economica mostra dunque come l’uso della sola politica fiscale o della sola politica monetaria può raggiungere l’obiettivo prefisso di variazione della spesa solo a condizione di allontanare il sistema dal punto in cui ottiene l’equilibrio sia interno che estero.

Ne segue che una soluzione possa essere ottenuta solo o

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fondandosi sul mercato interno con una azione coordinata delle due leve di politica monetari a e politica fiscale; oppure basandola a partire dal mercato estero, attivando un progetto di coordinamento tra i governi e le istituzioni in grado di esercitare, pur da una condizione esterna al dominio nazionale, una azione di indirizzo economico sui mercati interni, tipicamente per mezzo di trattati commerciali, fiscali, e/o vincoli di cambio. Queste modalità, però, generano una tensione sistemica e continua tra gruppi di produttori e residenti per acquisire un’egemonia sociale per ricercare soluzioni a loro più vantaggiose.

1.2. Le modalità operative: politiche fiscali e monetarie, tassi di cambio e mercati valutari

Negli anni post-bellici emerge un nuovo spazio centrale del sistema finanziario, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Il tratto essenziale era rappresentato dal fatto che, essendo i paesi si poggiavano su presupposti finanziari, monetari ed economici in conflitto tra loro, furono necessariamente indotti a trovare dei compromessi.

Gli Stati Uniti erano un paese con una bilancia commerciale strutturalmente in surplus, sia per i prodotti agricoli, dove non avevano veri concorrenti, sia per i manufatti industriali, per i quali alcuni paesi europei potevano invece costituire temibili rivali. Per questo le autorità americane desideravano addivenire ad una stabilizzazione monetaria europea che, da una parte, avrebbe depotenziato i possibili vantaggi insiti in cambi instabili, e dall’altra avrebbe favorito le esportazioni, e quindi le industrie, statunitensi.

Queste scelte si combinavano con la necessità di un efficiente mercato internazionale dei capitali e dei titoli finanziari scambiati sul mercato secondario. Tale condizione portò il governo statunitense ad impegnarsi ad ancorare la propria politica monetaria con la stabilità del cambio della sterlina come valuta di riserva internazionale, intervenendo quindi, sia con prestiti verso la Banca di Inghilterra, per salvaguardarne le parità di cambio, sia sostenendo in modo debole la cornice istituzionale internazionale.

La ragione di questo comportamento è da ricercare nella consapevolezza che, una non adeguata struttura del mercato del risconto nel sistema finanziario americano, avrebbe comportato che le tensioni generate sul cambio avrebbero avuto diretti contraccolpi sulla produzione, con la perdita di riserve e con conseguenti tensioni sul tasso di interesse e sull’offerta monetaria nel mercato interno. Dietro la “calamita” aurea che fece si che la Fed attirasse nella casse delle riserve federali la maggiore parte dell’oro del mondo vi era la convinzione che il prezzo relativo della moneta

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dollaro fosse nel lungo periodo completamente determinato dalla offerta e domande reale moneta americana ed europea, cioè dal volume delle transazioni, e non dalla variazione dei prezzi in sé.

Dal canto loro le élite inglesi che desideravano mantenere la propria posizione di leadership della finanza internazionale, si trovarono a dover arginare lo sviluppo della finanza americana.

Questa condizione portò il governo inglese ad impegnarsi in modo diretto nella promozione di una cornice istituzionale internazionale capace di orientare le politiche economiche nazionali. Si affinò quindi un progetto di cooperazione tra banche centrali che avrebbe posto la Banca d’Inghilterra e la sterlina al centro del sistema finanziario, ripristinando quei meccanismi che avevano permesso che i flussi di capitali mondiali venissero trattati, con enormi profitti, dalla City di Londra.

- Tassi di crescita del Pil britannico e investimenti esteri

- Prestiti americani e britannici negli anni Venti

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Montagu Norman, governatore della banca centrale inglese per tutto il periodo interbellico, immaginava ancora un ordine internazionale della classe dei creditori, sottovalutando, o non comprendendo pienamente, i nuovi bisogni delle economie nazionali, in primo luogo degli Stati Uniti. La differenza della visione inglese e americana rendeva necessario il raggiungimento di un compromesso. È importante però sottolineare la diversa percezione della finalità a cui il compromesso era rivolto: nel caso inglese doveva essere un ripristino strutturale delle regole della finanza internazionale, auspicandone quindi la sua concretizzazione in forma di trattati; nel caso americano, invece, l’accordo aveva funzioni transitorie, quindi si ammettevano solo soluzioni di tipo di straordinario.

Entrambi non potevano, però, prescindere da un equilibrio sul mercato internazionale, condizione per cui era necessaria la collaborazione con l’altra grande potenza finanziaria mondiale: la Francia. Questa, uscendo vincitrice dal conflitto, desiderava ritornare in una posizione primaria sullo scenario internazionale, attraverso la centralità data ad una politica monetaria che consentisse la tutela della produzione nazionale. Essa si articolò in manovre espansive, nel permanere dell’inconvertibilità del franco, che sarà ripristinata nel 1928, e la conseguente inflazione sul mercato interno. La possibilità di operare queste scelte di politica monetaria derivò dal fatto che il governo francese accettò, come compromesso in campo internazionale, di utilizzare la sterlina come valuta di riserva. In questo modo esso ottenne un viatico per ripristinare le proprie condizioni patrimoniali attraverso l’accumulo di riserve auree presso la Banca di Francia e l’intervento della medesima in azioni di sterilizzazione del cambio e di stabilizzazione del corso dei titoli del debito pubblico.

In estrema sintesi, possiamo rimandare questi modi di guardare al ripristino del sistema finanziario internazionale a due modelli. Il primo modello prendeva a riferimento il pieno utilizzo delle risorse

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interne e quindi la capacità produttiva delle industrie nazionali, la piena occupazione, la tutela dei diritti acquisiti con lo sviluppo economico o a seguito di indennizzi di guerra. Questa visione comportava un’attitudine a ritardare il ritorno alla stabilità dei prezzi e alla stabilizzazione dei cambi, fino a che non si fosse certi che questi non avrebbero generato tensioni sulla finanza pubblica e sulle potenziali esportazioni. Il secondo, invece, prendeva a riferimento la stabilità dei prezzi e auspicava il ripristino della convertibilità della moneta con l’oro ad un valore identico o quanto meno vicino a quello del 1913, così da limitare o annullare il danno patrimoniale che l’inflazione bellica aveva generato. Questa visione aveva come contesto di riferimento l’equilibrio del mercato internazionale, cioè la legge del prezzo unico, anche a costo di determinare, nel quadro economico del primo dopoguerra, politiche deflattive sul mercato interno.

Va sottolineato che queste due modalità operative che semplificando indichiamo, la prima, come orientata alla tutela e valorizzazione della produzione; la seconda, come orientate alla tutela e valorizzazione del patrimonio, furono tenute a trovare necessari compromessi per poter ottenere consensi sociali e maggioranze di governo, ma restarono fortemente incardinate nelle propri linee portanti. La prima fu principalmente sostenuta dai governi e dai rappresentanti delle élite finanziaria americana, mentre la seconda fu sorretta dall’élite e dal governo inglese, cui si affiancò quella francese, sia per affinità, sia per desiderio di recupero di un proprio spazio sullo scenario internazionale.

Testimonianza diretta di queste due visioni – che resteranno intatte per tutti gli anni Venti e che segneranno i fallimenti delle conferenze mondiali, le scelte delle politiche protezioniste e della corsa al basso dei prezzi, così come poi la guerra delle svalutazioni competitive dei primi anni Trenta e in ultimo il compromesso dell’accordo tripartito –, vi è il carteggio di straordinaria qualità e interesse che di due dei protagonisti assoluti del periodo: il governatore della Banca di Inghilterra, Montagu Norman, e il governatore della Fed, Benjamin Strong.

Al primo, che nel redigere il decalogo di comportamento di una banca centrale di fatto disegnava i contorni dell’intero sistema finanziario fondato sulla triangolazione degli scambi e sulla gestione dei flussi delle partite correnti, facendo della Banca d’Inghilterra, come disse Keynes, il direttore d’orchestra dell’intero sistema, Strong replicava: «tutto ciò ha un suono sinistro per me:

sarebbe come consegnare un assegno in bianco ai paesi poveri»; e in un documento successivo, «la cosa più importante è l’autonomia.

L’autodecisione e la politica interna in base a solidi principi monetari». All’obiettivo di contrastare indebite fluttuazioni del potere di acquisto dell’oro, egli ribadiva con la centralità di mantenere la stabilità monetaria all’interno del proprio mercato:

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«dobbiamo ignorare completamente qualsiasi percentuale di riserva obbligatoria o tradizionale e dare maggior peso a quanto sta succedendo in […], occupazione, volume del credito e del fatturato».

Queste due visioni arrivarono, come detto, ad un compromesso operativo che comportò comunque una condizione di primato dell’una sull’altra. Negli anni tra il 1919 e il 1929 predomina un’idea patrimoniale, legata a necessità di ricostruzione post- bellica; negli anni successivi alla crisi del 1929-1931, invece, predomina un’idea produttiva, legata al ripristino dell’attività industriale.

La modalità patrimoniale, riproposizione più complessa del gold standard pre-bellico discussa e parzialmente messa in opera dopo la conferenza di Genova, consistette nel ricostruire una rete di scambi di beni e servizi, un sistema finanziario industriale regolato dallo standard internazionale di un prezzo unico per ogni bene identico indipendentemente da dove e da chi lo avesse prodotto.

Questa condizione comportava, per ogni paese, due distinti livelli di equilibrio: quello sul mercato interno e quello sul mercato estero, i quali sarebbero stati raccordati da scorte dei beni e da depositi sull’estero misurati in valuta nazionale. Questa scelta avrebbe portato, in un tempo breve, al ripristino delle transazioni dei saldi tra le partite correnti in un un'unica grande stanza di compensazione, il mercato delle accettazioni della City di Londra che, proprio per la sua posizione di monopolio, poteva offrire un prezzo efficiente. La crescita economica americana, però, mise con il tempo in evidenza il limite di queste modalità, che comportavano una progressiva riduzione dei prezzi sul mercato interno di tutti i paesi con conseguenze patrimoniali sui produttori. Queste condizioni di tensione finanziaria si sovrapposero allo shock della bolla finanziaria del 1929 e determinarono la depressione del 1929- 1931 e la necessità di recupero da parte dei governi di incentivi alla produzione attraverso svalutazioni e crescita dei prezzi.

L’esito della crisi fu, così, un aumento dei prezzi negli Stati Uniti e l’uscita della Gran Bretagna dal libero scambio. Tali eventi inaugurarono così il prevalere della modalità produttiva. Ne seguiva la convinzione che le variazioni dei tassi di interesse e dei livelli di produzione incidessero sul tasso di cambio solo attraverso la loro influenza sulla domanda di moneta. Conseguentemente si attuò un processo di svalutazione competitiva tra il 1931 e il 1934, che si concluse quando fu evidente il danno reciproco provocato un’instabilità prolungata nella scelta degli investimenti industriali.

Questa consapevolezza portò, sul piano internazionale, all’accordo governativo del 1936, noto come accordo tripartito tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, e, sul piano nazionale, alla riorganizzazione dei sistemi bancari privilegiando la tutela delle banche commerciali, rispetto a quelle internazionali, e la loro

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riorganizzazione comi istituti di raccolta del risparmio.

2. Guerra di valute

2.1 L’economia di guerra e la definizione del centro (1914-1919) a. Il mercato dei beni

L’entrata in guerra delle principali economie industriali modificò radicalmente il mercato dei beni e del lavoro così come era stato organizzato nelle ultime decadi dell’Ottocento da quella che è stata definita come prima globalizzazione. Gli Alleati intensificarono il controllo amministrativo sull’intero commercio europeo per mezzo di accordi stipulati con i paesi neutrali per l’acquisto di beni alimentari e materie prime, prevenendo così che il flusso delle esportazioni finisse verso l’Europa centrale. Inoltre, venne inaugurato un boicottaggio nei confronti di tutte quelle società d’importazione che operavano nell’orbita della Germania e dell’Impero austro-ungarico. I tedeschi risposero a tutto ciò con la guerra sottomarina: tutto il naviglio mercantile intorno alle isole britanniche, definite zona militare, cominciò a venire attaccato e affondato senza preavviso.

La guerra sottomarina tedesca e il blocco navale alleato

rispondevano entrambi all’esigenza di limitare

l’approvvigionamento necessario alla guerra. Si calcola che, nel 1914, la Germania avesse raggiunto il 90% dell’autosufficienza alimentare, se si considera l’assunzione calorica. Tale dato, tuttavia, nasconde il fatto che il suo settore agricolo era dipendente per un terzo dall’importazione di mangimi animali e impiegava circa un milione di lavoratori stagionali stranieri. La guerra privò l’agricoltura tedesca di queste fonti, sottrasse la manodopera necessaria ai lavori nelle campagne, nelle quali vi fu anche penuria di capitali e mancanza di macchinari, carburante, cavalli, foraggio e fertilizzanti azotati, necessari per aumentare la produttività dei terreni ma utilizzati anche per fabbricare esplosivi. Tutto ciò portò al declino della produzione agricola tedesca. Alla situazione fu trovato un parziale rimedio prima con l’introduzione di controlli sui prezzi dei generi alimentari nell’ottobre del 1914, poi con il razionamento, iniziato nel gennaio dell’anno successivo, ed infine con la creazione, nel maggio del 1916, di un Ministero per le risorse alimentari. Inevitabile fu, tuttavia, una crisi alimentare che fece attestare l’assunzione calorica media al di sotto dei livelli di sussistenza, raggiungendo il culmine nell’inverno 1917-1918 in seguito ad un cattivo raccolto che ridusse le popolazioni delle potenze centrale alla fame per diversi mesi.

A differenza di quella tedesca, l’economia britannica aveva maggiori risorse da investire in agricoltura, il che rese possibile

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aumentare la superficie totale della terra coltivabile, che crebbe di tre milioni di ettari tra il 1914 e il 1918. Il risultato fu una crescita della produzione nazionale del 40%, con una ricaduta positiva sul prodotto nazionale del 24%. La politica commerciale liberista britannica aveva fatto si che il paese dipendesse largamente dalle importazioni per quanto riguardava i beni alimentari: il 65% del fabbisogno nazionale era infatti, al 1914, di provenienza straniera e, almeno fino al 1916, il volume delle importazioni di questi beni primari rimase intorno al 90%, traducendosi in un aumento dei prezzi al consumo, che fu del 61%. Tuttavia, come anche in Germania, l’inverno del 1917-1918 fu particolarmente duro, con un cattivo raccolto e una conseguente penuria di generi alimentari: un efficiente razionamento gestito dal governo centrale assicurò comunque alla popolazione un’adeguata alimentazione.

Come in Germania, anche in Gran Bretagna divenne chiaro che l’industria privata non poteva far fronte da sola ad una guerra la cui fine sembrava più lontana di quanto immaginato. L’enorme mole di commesse provenienti dal War Office eccedeva, infatti, le capacità produttive delle industrie nazionali. Il governo britannico si mosse quindi, con sempre maggior efficacia, verso la regolamentazione e il coordinamento dell’impresa privata. La nuova organizzazione prevedeva lo sviluppo di una produzione standardizzata di armamenti impiegando manodopera non specializzata, e quindi a basso costo, con una conseguente riduzione delle paghe concordata con i sindacati attraverso una serie di accordi specifici, che furono poi ricompresi nel Munition of War Act del luglio del 1915. Contemporaneamente venne istituito il Ministero per le munizioni, assegnato a Lloyd George, che dal giugno del 1915 prese il controllo dell’intero settore della produzione del materiale di guerra.

Le problematiche connesse all’approvvigionamento alimentare e alla produzione del materiale bellico sono legate a doppio filo con gli sconvolgimenti commerciali innescati dalla guerra, che finirono per determinare fortemente anche i nuovi orientamenti degli scambi internazionali nei decenni post-bellici. A causa del maggiore fabbisogno interno legato alle necessità di guerra, le esportazioni europee verso le altre parti del globo declinarono rapidamente, portando ad un generale riassestamento e re-indirizzamento dei flussi commerciali internazionali: si assistette complessivamente ad una ridistribuzione delle quote di esportazioni che i paesi europei, che fino ad allora avevano giocato la parte del leone, non potevano più soddisfare. Il processo, una volta iniziato, si dimostrò difficilmente reversibile nei suoi elementi fondamentali.

Naturalmente le dinamiche degli scambi commerciali fecero aumentare il flusso di oro verso i paesi neutrali, che godevano di un rafforzamento delle bilance commerciali ed erano divenuti rifugio per i fondi esteri. Le esportazioni dai continenti extra-europei

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raddoppiarono nel periodo 1913-1928. Inoltre, le importazioni dei paesi europei in guerra modificarono le capacità produttive dei nuovi paesi, determinando la creazione di nuovi equilibri internazionali.

Fu soprattutto in seguito alla domanda di Gran Bretagna e Francia che la capacità produttiva delle industrie nordamericane crebbe in maniera esponenziale, stimolando anche la crescita della marina mercantile che, generando un abbassamento dei costi di trasporto, portò ad un ulteriore incremento delle esportazioni verso l’estero, inaugurando un processo che non si sarebbe concluso con il termine delle ostilità. L’America Latina, territorio tradizionalmente legato all’esportazione britannica, conobbe una crescita delle esportazioni nordamericane del 75%, che andarono a riempire il vuoto lasciato dal nuovo orientamento delle risorse britanniche destinate alla guerra. Il Giappone divenne invece il nuovo concorrente per l’area asiatica: alla diminuzione delle esportazioni europee fece infatti seguito la costruzione, in territorio giapponese, di nuove cartiere, fabbriche di medicinali, di vernici e di altri prodotti da distribuire sui mercati di tutta l’Asia. Il settore tessile, in particolar modo, conobbe un grande sviluppo e il cotone giapponese veniva venduto in India, nelle Indie orientali olandesi e, per la prima volta nella storia, in Australia. Anche la grande industria siderurgica e metalmeccanica giapponese proliferò negli anni tra il 1914 e il 1918, con particolari sviluppi nel settore delle acciaierie e della cantieristica. Sebbene gli Stati Uniti e il Giappone, in quanto paesi già sviluppati, furono quelli che maggiormente si avvantaggiarono del conflitto, anche i paesi in via di sviluppo ricevettero qualche beneficio dal punto di vista industriale: quando, ad esempio, i prodotti dessili del Lancashire non riuscirono più a raggiungere l’Asia a causa delle difficoltà nel trasporto del cotone americano, il loro posto venne preso da nuove manifatture indiane e cinesi.

Se i risultati nel settore industriale furono vari – in Argentina e Brasile, ad esempio, la scarsità di capitali europei conseguente alla scoppio della guerra soffocò sul nascere lo sviluppo di un’industria locale – , gli sconvolgimenti nel settore del commercio e della produzione agricola furono ancora maggiori. Molti produttori delle aree extra-europee furono indotti ad aumentare la loro produzione per far fronte alle richieste dei paesi alleati, i cui rifornimenti di grano dalla Russia e dai paesi dell’Europa orientali si interruppero bruscamente con lo scoppio della guerra. In Canada, ad esempio, i terreni coltivati a grano aumentarono dell’80% tra il 1914 e il 1918, mentre in Argentina la percentuale fu leggermente inferiore solamente a causa della più scarsa quantità di tonnellaggio disponibile per il trasporto di cereali verso l’Europa. L’esportazione di carne argentina, però, il cui rapporto tra valore e volume era maggiore rispetto a quello dei cereali e quindi poteva venir spedita

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con maggior profitto, aumentò del 75% nel periodo compreso tra il 1913 e il 1918.

- Distribuzione percentuale degli scambi commerciali per continenti, (fonte: B. Eichengreen, Gabbie d’oro, pp. 118-119)

b. La finanza interna

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Oltre che nel settore dei flussi commerciali e della produttività, la guerra ebbe enormi conseguenze anche sotto il profilo della politica fiscale, della politica monetaria e della finanza internazionale.

Le tradizionali politiche fiscali e monetarie erano infatti del tutto inadatte a finanziare uno sforzo bellico che si dimostrò ben più lungo, impegnativo e costoso di quanto i governi dei paesi in guerra avevano inizialmente predetto. Una stima francese del 1911, ad esempio, affermava che una guerra contro la Germania avrebbe avuto un costo di circa 20 miliardi di franchi: la reale spesa della Francia si attestò invece su 181 miliardi di franchi. Queste stime dimostrano inoltre come la guerra era una possibilità tutt’altro che remota per i governi europei dell’epoca: addirittura nel 1890 le autorità tedesche svilupparono un progetto secondo il quale, in caso di guerra, la Reichsbank avrebbe dovuto sospendere la convertibilità in oro del marco e stampare 2 miliardi di marchi in più, abolendo contestualmente la tassa di 550 milioni di marchi sull’eccesso di circolante.

Le spese statali aumentarono in maniera esponenziale durante il conflitto. Per finanziare la macchina bellica, i governi dei paesi belligeranti ricorsero all’aumento della tassazione e all’indebitamento, sia sul mercato interno che su quello estero.

Tuttavia, non tutti gli Stati ricorsero in egual maniera a questi due strumenti, riflettendo le peculiari caratteristiche del proprio apparato produttivo e finanziario, ma anche le alleanze militari e la posizione geografica. Complessivamente, l’opinione generale che il conflitto sarebbe stato di breve durata limitò, inizialmente, l’introduzione di nuove tasse o un incremento di quelle già esistenti: durante gli anni del conflitto, infatti, la spesa corrente fu finanziata per meno di un terzo mediante le entrate fiscali. La decisione di non incrementare la pressione fiscale rispondeva anche a finalità politiche e propagandistiche, nonché ad un calcolo basato su precedenti esperienze simili. Memori della guerra franco- prussiana del 1871, Francia e Germania tendevano a non aumentare la pressione fiscale preferendo indebitarsi e stampare nuova moneta, sicuri del fatto che, come appunto in passato, il peso economico del conflitto sarebbe stato fatto ricadere sul nemico sconfitto.

Dopo la dichiarazione di guerra tedesca del 3 agosto 1914, il governo francese non fece quasi alcuno sforzo sul versante delle entrate fiscali, preferendo anzi perseguire una linea politica diametralmente opposta. All’interno della moratoria sul debito, venne deciso che in caso di arruolamento gli affittuari, tanto nelle città quanto nelle aziende agricole, sarebbero stati esentati dal pagamento della locazione, facendo così ridurre il reddito imponibile dei proprietari. Informalmente, inoltre, erano state diramate istruzioni agli esattori di non perseguire le famiglie dei

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militari. Tutto ciò risultò in un calo complessivo del 60% delle normali entrati fiscali al termine del primo anno di guerra. Il Parlamento tentò di bilanciare questa riduzione delle entrate attraverso l’incremento delle imposte indirette, in particolar modo le dogane e le accise; tuttavia, dato che il conflitto aveva fatto diminuire le importazioni di beni di consumo, l’aumento complessivo del gettito per lo Stato fu decisamente limitato. Una tassa sul reddito venne effettivamente approvata nel 1914, ma essa entrò in vigore tre anni più tardi contribuendo alle entrate dello Stato per appena il 5%. Solamente nel luglio del 1916, il governo guidato da Aristide Briand impose una tassa sui profitti di guerra, anche se il contributo delle imposte dirette sulle entrate dello Stato francese rimase intorno al 20%. Complessivamente, se si escludono le dogane, il gettito fiscale francese tornò ai livelli precedenti il 1914 solo nel giugno del 1917.

Il peso della pressione fiscale sul totale del finanziamento bellico fu ancora più basso in Germania. Il Reich tedesco, inoltre, ereditava un sistema fiscale federale assai frammentato tra governo centrale e Lander regionali, poco adatto a sostenere uno sforzo economico nazionale di enorme portata, come fu quello della guerra. La struttura fiscale federale, derivante dall’unione doganale dello Zolleverein di primo Ottocento, era stata mantenuta dalla Costituzione del Reich del 1871, che attribuiva alle istituzioni locali il diritto di riscuotere e percepire le imposte dirette, svolgendo, in tempo di pace, funzioni di governo. Anche in tempo di guerra, le élite locali esitavano a delegare al governo centrale il diritto di riscuotere gli introiti della tassazione sulle imposte dirette e quindi, anche se esse raddoppiarono nel periodo 1914-1918, il loro impatto sul finanziamento del conflitto rimase basso. Una delle poche novità fiscali introdotte fu una Wehrbeitrag: un contributo nazionale eccezionale di 1 miliardo di marchi, che venne adottato una prima volta nel 1913, e ripetuto poi nel 1914 e nel 1915. Le imposte indirette furono quindi l’unico terreno sul quale il governo centrale del Reich poté avere libertà di manovra. Le dogane e le accise furono quindi aumentate, anche se le entrate doganali diminuirono gradualmente nel corso del conflitto soprattutto in connessione alla sospensione delle tariffe sulle importazioni dei beni essenziali, in particolar modo alimentari, necessaria per tentare di alleviare le pessime condizioni di vita della popolazione.

Le autorità decisero, in seguito, di introdurre nuove tasse sulla Reichsbank, sul carbone, sui biglietti ferroviari ed infine, nel 1918, nuove accise sulle bevande e sui prodotti di lusso.

Rispetto a Francia e Germania, la Gran Bretagna, per la sua lunga tradizione di accentramento amministrativo e per l’ampia condivisione che godeva il principio della tassazione diretta, si trovava certamente in una posizione di vantaggio per aumentare le entrate fiscali. L’imposta sul reddito venne raddoppiata già nel novembre del 1914, aumentando gradualmente negli anni

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successivi fino a determinare un incremento complessivo del 500%

per il periodo che va dal 1913-1914 al 1918-1919. In generale, se nel Reich il gettito derivante dalle imposte dirette raddoppiò durante la guerra, in Gran Bretagna esso quadruplicò, aumentando la quota delle imposte dirette sulle entrate complessive dello Stato da meno del 60% del 1913-1914 all’80% registrato durante la seconda metà della guerra. Per attenuare gli effetti di questi aumenti, il governo britannico elaborò anche un piano pensato come integrazione della maggiorazione delle tasse sul reddito. Tale piano prevedeva l’imposizione di un’ulteriore imposta sul munizionamento ed un’altra sui profitti eccedenti i livelli d’anteguerra, andando a colpire in particolar modo i guadagni di quelle imprese che avevano ricevuto un incremento eccezionale delle commesse in connessione al conflitto. La guerra segnò anche una netta discontinuità con il tradizionale libero scambio inglese.

Quando vennero introdotti i cosiddetti dazi McKenna, nel 1915, il dogma libero-scambista venne abiurato nella tacita accettazione generale, inaugurando tariffe su beni come la birra, il tè, i veicoli, i film, gli orologi e gli strumenti musicali. Complessivamente, la guerra britannica fu finanziata molto più attraverso l’aumento della tassazione rispetto a quanto riuscirono a fare Francia e Germania.

Quando il gettito fiscale, per motivi politici, tecnici o militari, non era in grado di far fronte alle accresciute necessità statali, il ricorso all’indebitamento diventava necessario. Teoricamente, i prestiti potevano essere emessi sul mercato interno e sul mercato estero, anche se non tutti i paesi in guerra ebbero la stessa disponibilità d’accesso ai fondi stranieri. Tra i paesi impegnati nel conflitto, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna furono gli unici a riuscire ad ottenere prestiti a lungo termine nel mercato interno. Il governo britannico, alla data del 1917, aveva emesso tre grandi prestiti a lungo termine garantiti con l’emissione di buoni del Tesoro o anticipazioni della Banca d’Inghilterra. Se il primo prestito fu collocato presso le grandi istituzioni finanziarie e pochi ricchi imprenditori, la seconda emissione fu invece sottoscritta da più di un milione di creditori, molti dei quali provvisti di modesti mezzi finanziari. Negli Stati Uniti, invece il segretario di Stato William G.

McAdoo, orchestrò una sapiente propaganda al fine di indurre alla sottoscrizione da parte di un vasto pubblico dei cosiddetti Loans for Liberty.

La situazione francese era invece nettamente peggiore. Pur aumentando più lentamente, il debito crebbe fino a raggiungere un livello decisamente maggiore rispetto al reddito nazionale. Sul passivo dello Stato pesava in particolar modo l’elevato livello di partenza del debito d’anteguerra, causato in gran parte dagli indennizzi che la Francia era obbligata a versare alla Germania in seguito alla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1871, per pagare i quali il governo aveva ripetutamente emesso obbligazioni i cui proventi venivano poi trasferiti al governo tedesco. Inoltre, il

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debito pubblico francese era aumentato nel 1914 del 50% in seguito ad un grande piano di lavori pubblici, concentrato in particolare sulla costruzione di un nuovo sistema di canali interni, e per le spese militari in previsione dell’espansione coloniale. Dato che in Francia non esisteva un mercato per i titoli a breve delle dimensioni di quello britannico, per ottenere il credito necessario il governo ricorse alla Banca di Francia, il cui statuto venne modificato ben nove volte tra il 1914 e il 1919 per permettere all’istituto di fornire allo Stato anticipazioni al tasso dell’1%.

Questa politica monetaria portò però ad una rapida crescita dell’offerta monetaria in circolazione, che determinò un aumento dell’inflazione: si calcola che la quantità di franchi in circolazione quadruplicò nel periodo compreso tra il febbraio del 1914 e il febbraio del 1918.

Anche la Germania tentò di emettere debito a lungo termine, ma sperimentò enormi difficoltà nel collocarlo ad un ritmo adatto a sostenere le esigenze finanziare del governo centrale. Nel settembre del 1914 venne emesso il primo prestito, sottoscritto da banche, imprese, società di assicurazione e un numero di piccoli imprenditori. Ad esso, seguirono ulteriori prestiti ad intervalli di sei mesi, che però non riuscirono a coprire interamente i buoni del Tesoro emessi dal governo per sostenere le necessità economiche del Reich. La esigenze di coprire l’indebitamento statale, inoltre, rischiavano di indebolire le capacità di accesso al credito delle piccole industrie e imprese, deviando verso le finanze pubbliche i normali flussi. Per proteggere il mondo industriale, quindi, la Reichsbank cominciò ad acquistare gran parte dei buoni emessi dal Tesoro: si calcola che, fino al 1917, il 75% di essi finì nel portafoglio della banca centrale tedesca. La conseguenza fu, però, un enorme aumento dell’offerta delle banconote della Reichsbank, il cui volume crebbe all’incirca di sette volte nel periodo compreso tra il luglio 1914 e il luglio 1918, generando una pesante inflazione che rimarrà una caratteristica dello scenario tedesco post-bellico fino alla metà degli anni venti.

c. La finanza estera

Nei giorni successivi alla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia del 28 luglio 1914, al fine di proteggere la solvibilità delle banche, le piazze di Berlino, Parigi e New York sospesero le attività. Ultima tra di esse, la Borsa di Londra pose fine alle negoziazioni il 31 luglio; esse sarebbero poi riprese solo il 4 gennaio seguente.

Le merchant bank inglesi furono le più colpite dalle nuove condizioni finanziare internazionali che si realizzarono durante la guerra. Le loro attività principali, infatti, quella di accettazione e quella di emissioni di prestiti esteri sulla piazza di Londra, si interruppero quasi del tutto nella seconda metà del 1914: i prestiti

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ai governi stranieri, furono proibiti o sottoposti al controllo del governo inglese. Le autorità di governo presero, al tempo stesso, alcune precauzioni: il 4 agosto venne concessa una moratoria sui pagamenti, che permetteva di ritardarli di un mese assicurandone il risconto presso la Banca d’Inghilterra. Provvedimenti simili furono presi a Parigi e Berlino. Wall Street chiuse i battenti il 31 luglio, poche ore dopo la chiusura della Borsa di Londra in conseguenza delle ingenti vendite che stavano riguardando i titoli statunitensi; così anche le borse svizzere, che rimasero poi chiuse fino al 1916, ad eccezione di quella di Ginevra che riaprì, invece, già il 20 agosto del 1914.

Le ventuno maggiori case bancarie londinesi si riunirono nell’Accepting Houses Committee per gestire collettivamente le trattative che si sarebbero aperte di lì a breve con la Banca d’Inghilterra. Il 13 agosto fu raggiunto un accordo tra le parti che prevedeva che la Banca, con l’appoggio del Tesoro e del governo, scontasse tutte le tratte accettate dalle banche prima del 4 agosto e concedesse prestiti a tutti quegli istituti accettanti che non sarebbero stati in grado di onorare gli effetti alla scadenza dei medesimi, stimati in un valore di circa 350 milioni di sterline.

Seppure tali provvedimenti rivitalizzarono il sistema creditizio inglese, evitando un collasso generalizzato, non tutte le case bancarie ne beneficiarono in modo eguale. Molto dipendeva dalla localizzazione geografica degli interessi e delle attività. Se, infatti, la Baring Brothers, che operava principalmente nelle Americhe e nell’Estremo Oriente, fu colpita in modo marginale dagli effetti finanziari della guerra, questi ebbero conseguenze drastiche su un istituto bancario come la Schroder, che intratteneva invece fortissimi legami con l’Europa centrale e con la Germania in particolare. Le sue accettazioni caddero dagli 11,7 milioni di sterline registrati nel 1913 a soli 1,3 milioni nel 1918, mentre gli utili lordi medi precipitarono a 9.000 sterline annue negli anni di guerra a fronte delle 315.000 del periodo 1905-1913.

La guerra non determinò affatto una diminuzione dei flussi internazionali dei capitali: i paesi Alleati, ad esempio, raggiunsero un totale di ben quattro miliardi di sterline di debiti tra il 1914 e il 1918. Tra tutti i paesi impegnati nel conflitto, solamente gli Stati Uniti riuscirono a far fronte alle necessità belliche senza bisogno di indebitarsi all’estero: da debitori netti essi si trasformarono, grazie alla guerra, nel paese creditore netto del mondo. Insieme alla Gran Bretagna, che prestò per un totale di 8,5 miliardi di dollari, gli Stati Uniti erano i creditori maggiori con 9,2 miliardi di dollari, mentre la Francia rimaneva molto distaccata con 1,7 miliardi di dollari prestati. La Gran Bretagna e la Francia erano state costrette a indebitarsi con gli Stati Uniti, mentre i francesi ricorsero anche a linee di credito aperte da Londra. Gli altri paesi della coalizione erano tutti debitori: la Russia per 4 miliardi di dollari,

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principalmente nei confronti della Francia e per una piccola parte verso la Gran Bretagna; l’Italia per 5,1 miliardi di dollari verso Stati Uniti e Gran Bretagna.

- Politica fiscale di quattro paesi, 1905 e 1913-20 (fonte: B.

Eichengreen, Gabbie d’oro, p. 146)

Va tuttavia sottolineato come il sistema dei prestiti internazionali ai governi era stato del tutto rivoluzionato dal conflitto. Le linee creditizie, infatti, erano gestite sempre più direttamente dai governi, che si svincolavano dai tradizionali meccanismi che avevano in passato regolato il settore, emarginando gli istituti privati che si erano specializzati in queste operazioni finanziarie. Il governo statunitense, ad esempio, prestò direttamente alla Francia

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2,9 miliardi di dollari, mentre solamente 336 milioni arrivarono dalle banche americane. La Prima guerra mondiale determinò, da questo punto di vista, la fine delle fortune dei Rothschild, la casa bancaria leader del settore dei prestiti agli Stati. Il loro declino era tuttavia dovuto anche alle poche connessioni che essi avevano con Wall Street e New York, che stava diventando il centro dei flussi di capitali a livello globale.

Poche furono le istituzioni bancarie e gli intermediari finanziari che riuscirono a mantenere una posizione prominente nella gestione degli enormi movimenti di capitali mobilitati dalla guerra.

Se, come detto, i Rothschild persero negli anni del conflitto molto terreno, la Baring Brothers fece enormi profitti soprattutto grazie alla sua presenza in Russia e al ruolo di agente ufficiale del governo russo nel Regno Unito, ricoperto fino alla Rivoluzione del 1917, grazie al quale gestì le trattative per la concessione dei prestiti inglesi al governo dello Zar. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la guerra segnò l’ascesa della casa bancaria privata J.P. Morgan. La banca newyorchese fece registrare enormi profitti durante gli anni del conflitto grazie a due tipi di attività finanziarie: essa divenne il principale istituto nella gestione delle emissioni dei prestiti ai governi stranieri e, contemporaneamente, essa ricoprì il ruolo, forse persino più remunerativo, di agente statunitense dei governi inglese e francese per l’acquisto di munizioni.

Nell’ottobre del 1915 la J.P. Morgan assunse, per la prima volta, il controllo del sindacato d’emissione per un prestito con destinatari i governi inglese e francese per un ammontare di 500 milioni di dollari. A questa operazione, che non riscosse un successo totale, seguirono altri quattro sindacati di emissione, sempre guidati dalla J.P. Morgan a favore del Regno Unito, che tra il 1916 e il 1917 raccolsero un totale di 950 milioni di dollari. Nello stesso periodo, più precisamente nel gennaio del 1915, il governo inglese decise di privare il War Office e l’Ammiragliato del diritto di trattare direttamente l’acquisto delle munizioni con i fornitori britannici o esteri, soprattutto a causa delle dimensioni raggiunte dalle richieste fatte alle industrie statunitensi. Il governo britannico, quindi, decise di trovare un agente sul posto dotato dei contatti e delle competenze necessarie ad acquistare le merci al miglior prezzo di mercato possibile. La J.P. Morgan, grazie anche alle connessioni che continuava ad avere con il mercato finanziario inglese, venne ufficialmente incaricata dal governo britannico di gestire gli acquisti alle migliori condizioni possibili, ricevendo in cambio una commissione del 2% sul prezzo delle merci fino a 10 milioni di sterline e dell’1% oltre quella cifra. Questa situazione rimase in essere fino all’aprile del 1917, ovvero fino all’entrata nel conflitto anche degli Stati Uniti, il cui governo assunse la gestione dei prestiti e delle vendite di materiale militare agli Alleati in maniera diretta, lasciando comunque alla J.P. Morgan il ruolo di consulente finanziario.

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L’accesso delle potenze centrali ai finanziamenti esteri era decisamente più limitato. A New York, ad esempio, tra il 1914 e il 1917 solamente 35 milioni di dollari finirono nelle casse degli Imperi centrali. Il sentimento anti-tedesco presso il pubblico americano si era infatti rafforzato con il progredire della guerra, raggiungendo il suo apice in concomitanza con l’intensificarsi della guerra sottomarina e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti. La Germania tentò, quindi, di ottenere finanziamenti liquidando le proprie attività all’estero. Tuttavia esse erano, da una parte, posizionate principalmente in territori vicini o controllati dalle potenze nemiche, le quali sequestravano tutti i beni e le imprese di cittadini tedeschi; dall’altra si trovavano in luoghi resi inaccessibili dal blocco navale britannico. Tra le poche fonti di finanziamento rimaste alla Germania vi erano, quindi, le risorse che essa poteva estorcere ai paesi conquistati, come fece nei casi di Belgio, Olanda e Lussemburgo. Inoltre, il trattato di Brest-Litovsk, firmato con la Russia sovietica nel marzo del 1917, anche se non portò alcuna riparazione di guerra al governo tedesco, accrebbe i domini territoriali della Germania verso est e portò nelle casse del Reich sei milioni di rubli, pagati per compensare le proprietà tedesche espropriate in Russia.

d. La politica

Oltre ai mutamenti sul piano strettamente economico appena ricordati, la Prima guerra mondiale portò un cambiamento radicale anche sul piano politico-decisionale, che ebbe poi notevoli conseguenze sull’organizzazione e sui rapporti economici e monetari mondiali degli anni tra le due guerre. Era impensabile, infatti, mobilitare milioni di uomini e donne per un conflitto così lungo e sanguinoso senza dar loro nulla in cambio. In tutta Europa si susseguirono, prima, durante e dopo la guerra, una serie di riforme elettorali che ampliarono largamente il diritto di voto, attenuando o abolendo del tutto il legame ottocentesco tra voto e proprietà o ricchezza. I parlamenti nazionali, dominati a lungo dai gruppi dei grandi industriali e dei proprietari agrari, si aprirono per la prima volta ai rappresentanti delle classi subalterne. In Austria, Cecoslovacchia, Danimarca, Inghilterra, Finlandia, Germania, Olanda, Norvegia, Polonia e Svezia venne anche concesso il voto alle donne. Contestualmente si assistette ad una improvvisa crescita dei partiti socialisti e laburisti, così come delle associazioni sindacali: in Gran Bretagna, ad esempio, il Partito laburista ottenne nel 1918 più di due milioni di voti, a fronte dei 370.000 ricevuti nel 1911.

Era in atto una trasformazione che aveva profonde implicazioni economiche: il conflitto tra produttori e rentier che aveva dominato i parlamenti ottocenteschi si stava trasformando in un conflitto tra lavoratori salariati e datori di lavoro. Contemporaneamente, la

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guerra aveva visto crescere e trionfare il principio di nazionalità e quello parallelo di difesa delle minoranze. Il metodo migliore per perseguire questi obiettivi era quello della rappresentanza proporzionale, e non più maggioritaria, che, restituendo una fotografia più esatta delle preferenze politiche dei votanti, consentiva da una parte una crescita numerica dei parlamentari socialisti e laburisti, dall’altra aumentava la frammentazione politica favorendo il proliferare dei partiti e, quindi, facilitava la formazione di governi di coalizione intrinsecamente più deboli, esposti ai confliggenti interessi economici dei diversi gruppi sociali rappresentati. Ad eccezione della Gran Bretagna, che conservò la sua tradizionale suddivisione in constituencies e un sistema elettorale maggioritario, nella maggior parte dei paesi europei – tra cui Italia, Germania, Francia, Belgio, Norvegia, Finlandia, Polonia, Lituania, Estonia e Cecoslovacchia – vennero introdotti sistemi proporzionali.

Quando alla fine del conflitto le autorità di tutta Europa si cominciarono a muovere verso il ritorno a quella che veniva considerata una normale cooperazione monetaria e finanziaria internazionale, incardinata nel ripristino della parità aurea ai livelli pre-bellici, i conflitti generati da questi tentativi si riprodussero nei nuovi parlamenti eletti con metodo proporzionale, facendo emergere l’opposizione tra gruppi di interesse sulla questione della redistribuzione del reddito che le scelte politiche, fiscali e monetarie implicavano.

Il cambiamento più radicale e con più conseguenze era stato certamente la mutata condizione dei principali attori economici a livello mondiale. Se Londra era stata in passato il perno del sistema, con la sterlina che, continuativamente convertibile in oro fin dal 1819, aveva giocato il ruolo di cardine degli scambi commerciali e dell’armonizzazione monetaria a livello mondiale, tale situazione, e i rapporti economici e politici che ne erano conseguiti, era ormai definitivamente superata. Gli Stati Uniti erano diventati i creditori netti del mondo, attirando a sé una quota sproporzionata di riserve auree globali, mentre le banche americane erano ormai dei competitori temibili a livello internazionale nelle operazioni finanziarie, cominciando ad aprire filiali all’estero per competere con le banche inglesi nel settore dei prestiti a lungo termine.

L’intreccio tra il tema delle riparazioni tedesche imposte a Versailles nel 1919, e quantificate da un’apposita commissione nel 1921, e i debiti di guerra avrebbe richiesto che la cooperazione finanziaria messa in campo dagli Alleati durante il conflitto fosse continuata anche in tempo di pace. Soprattutto, vista la mutata distribuzione delle risorse finanziarie e delle capacità industriali, gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare esplicitamente il proprio ruolo centrale all’interno degli accordi e della nuova architettura

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finanziaria in via di costruzione. Il ritorno al gold standard pre- bellico, come vedremo, sarebbe stato tutt’altro che semplice: il quadro macroeconomico generale all’interno del quale quel sistema aveva funzionato era stato, infatti, irrimediabilmente alterato dal conflitto.

2.2 Stabilizzazione del cambio e mobilità dei capitali (1919-1928) Gli anni successivi al termine del conflitto furono caratterizzati da un forte e rapido boom economico, che durò dai primi mesi del 1919 fino all’estate del 1920, quando la caduta dei prezzi diede il via ad una severa recessione economica che durò fin agli inizi del 1922.

Nel marzo 1919, inoltre, gli Stati Uniti sospesero le operazioni a sostegno della sterlina e del franco, che cominciarono a perdere valore. Le autorità inglesi decisero allora di lasciare che il cambio della sterlina venisse deciso dalle contrattazioni sul mercato;

contemporaneamente, per prevenire un deflusso di oro dalla Banca d’Inghilterra verso gli Stati Uniti, il 29 marzo 1919 venne emesso un Order in Council che vietava l’esportazione di monete e lingotti d’oro, ponendo di fatto fine al gold standard.

In ogni caso la sterlina non si svalutò troppo perché, se la guerra pose fine al sistema aureo ottocentesco, la fiducia che le autorità internazionale avrebbero operato per un suo rapido ripristino rimase, almeno per qualche tempo, intatta, sostenendo la fiducia nella valuta inglese.

Coerenti con la diffusa idea che, nonostante i deprezzamenti dovuti principalmente al deficit della bilancia dei pagamenti e ai crediti esteri concessi da Londra, il governo britannico avrebbe presto ripristinato la convertibilità aurea, come aveva indicato anche il Cunliffe Commitee nel 1918, molti paesi – tra cui Belgio, Danimarca, Norvegia, Italia, Francia, Svezia e Svizzera – agganciarono informalmente, tra il 1919 e il 1920, la propria valuta alla sterlina.

Quest’ultima, però, si rivelò con il passare dei mesi meno stabile del previsto e presto questo blocco della sterlina cominciò a disgregarsi, dando vita ad un periodo di instabilità dei cambi, che determinò contestualmente un processo per il ritorno alla parità aurea che fu graduale ed estremamente lento: la stabilizzazione tedesca arrivò, ad esempio, solo nel 1924, quella britannica nel 1925 e quella francese di fatto nel 1926 ed ufficialmente nel 1928.

Per comprendere la necessità di mantenere la flessibilità dei cambi devono essere prese in considerazione le difficoltà che tutti gli Stati europei sperimentarono sul fronte del debito pubblico, che determinò enormi conseguenze su tutti i livelli, in primo luogo quello fiscale e monetario, che divennero i campi di battaglia dei

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diversi gruppi socio-economici e politici. La medesima scelta di lasciar operare liberamente le forze di mercato, abolendo i controlli sui prezzi e sulle transazioni rispondeva alla finalità di segnalare un ritorno alla normalità pre-bellica per rassicurare i maggiori operatori economici.

Tornare, tuttavia, a questa supposta normalità era tutt’altro che semplice: il mancato allineamento dei prezzi nei vari mercati si abbinava all’inadeguatezza dei trasporti e ad un’allocazione di manodopera, impianti e attrezzatura che era stata impiegata nella produzione di capitale e materiale bellico. A queste difficoltà si aggiungevano gli ostacoli che permanevano nel settore del commercio internazionale: se, infatti, i nuovi paesi sorti dalla disgregazione dell’Impero austro-ungarico fecero ricorso alle tariffe doganali per supplire alla mancanza di un sistema fiscale efficiente, anche gli Stati Uniti aumentarono la pressione sulle barriere all’ingresso con la tariffa Fordney-McCumber.

Come accennato, il problema cruciale era quello del debito pubblico degli Stati. Fino a quando una quota di quest’ultimo rimaneva senza una copertura, le banche centrali venivano poste sotto costante pressione da parte del governo per mantenere un basso tasso d’interesse, da una parte per facilitare l’accesso al credito e il collocamento delle emissioni del Tesoro, dall’altra per non deprimere gli investimenti che minacciavano di bloccare il processo di ricostruzione. Se il debito era invece stato consolidato, le spese derivate comportavano un aumento delle imposte o un taglio della spesa pubblica. La riduzione di quest’ultima era però impraticabile nel clima politico post-bellico, in quanto era difficilmente pensabile tagliare le pensioni, l’assistenza sanitaria e le case per i reduci di guerra, mentre molti governi vararono piani di sussidi e interventi in favore dei mobilitati disoccupati.

Incrementare il peso fiscale era parimenti difficile, in quanto le parti più ricche della popolazione premevano, nel quadro di un ritorno alla normalità, per una rapida abolizione delle tasse straordinarie del tempo di guerra. Contestualmente i rappresentanti laburisti e socialisti giustificavano il mantenimento di una tassazione progressiva che andasse a colpire quelle imprese che avevano maggiormente prosperato proprio grazie al conflitto mondiale. Lo stallo determinò una crescente inflazione, che rappresentava l’unico modo che le autorità governative avevano per continuare a finanziare la spesa pubblica senza incidere, nel momento, sugli interessi dei gruppi socio-economici.

a. Il centro del sistema: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia Gli Stati Uniti

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