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La critica olivettiana ai partiti politici e il (mancato) progetto nazionale p

«Eppure Platone ha confermato questa mia opinione, che gli Stati saranno felici se avranno al governo i ricercatori della sapienza, o se i loro governanti si daranno alla ricerca della sapienza» “De philosophiae consolazione”, Severino Boezio249

Pur risalendo alla seconda metà del secolo scorso, il sentimento anti-partitico (o “anti-casta”, si direbbe oggi) assunto da Adriano Olivetti è di cocente attualità, e non va inteso né in senso moralistico, secondo uno schema di “nobile sdegno” verso la volgarizzazione dei valori democratici, né in chiave qualunquistica, quasi che il problema consistesse e si risolvesse nella speranza di un illusorio dissolvimento degli interessi particolari nella creazione di un nuovo “Stato etico”. Gli attacchi sferrati da Olivetti al sistema dei partiti e al regime parlamentare derivano dal suo concetto fondamentale della Comunità come spazio naturale dell’uomo e, nel contempo, cellula base dello Stato Federale. Secondo Olivetti, infatti, i problemi di fondo della società contemporanea non derivano dalle forme organizzative dell’economia, bensì dalla sopravvivenza, in forme modificate, di strutture politiche inadeguate, di un’Italia che «procede ancora nel compromesso, nei vecchi sistemi del trasformismo politico, del potere burocratico, delle grandi promesse, dei grandi piani e delle modeste realizzazioni250». Il risultato è

249 S. Boezio, La consolazione di Filosofia, Einaudi, Milano, 2010, p.123

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che così in Italia si aggrava uno dei problemi che in realtà accomuna la storia europea: il decadere degli istituti parlamentari.

La causa più evidente di questo processo in fieri deve ricercarsi nel progressivo evolvere della natura delle questioni sottoposte all’esame degli organi legislativi: problemi che, da un contenuto un tempo essenzialmente politico, hanno assunto un prevalente contenuto economico e sociale. Le procedure parlamentari sono atte ad affrontare criticità di carattere generale, mentre si prestano meno allo studio di quelle la cui tecnicità esige la consultazione di organismi specializzati.

È interessante osservare come in un uomo, qual è Olivetti, così spesso accusato di dottrinarismo utopistico, la prima causa di decadenza del Parlamento tocchi un aspetto specificatamente legato alla funzionalità concreta. Tuttavia, Olivetti evita con cura di seguire la ricetta dello “Stato amministrativo”, ossia la riduzione del giudizio politico a quello tecnico-funzionale. Egli si limita a registrare che «nei parlamenti formati, come ora avviene, senza alcuna discriminazione, non esiste un rapporto adeguato tra competenza politica e competenza amministrativa, rapporto che è garanzia di una maggiore saggezza dell’assemblea. Senza contare poi che, in un Parlamento così costituito, la reale competenza è sopraffatta normalmente dall’abilità dialettica o oratoria251».

Dalla causa funzionale della decadenza parlamentare, dalla sfasatura tra le esigenze di una legislazione adeguata ed efficace e le reali capacità dei legislatori, Adriano Olivetti risale così alla causa “genetica”: com’è formato, e da chi, il Parlamento? Chi sono i parlamentari? Come vengono scelti, come candidati? E da chi? In base a quali criteri? A chi chiedono direttive? Agli interessi particolari oppure alla loro coscienza? O all’interesse generale della nazione? A chi devono obbedienza, pena la non rielezione? Quale è il ruolo, la funzione e la responsabilità degli odierni partiti di massa in questa situazione?

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In risposta a questi interrogativi, Olivetti afferma:

«Quando scoppiò, nel settembre 1939, la Seconda Guerra Mondiale, libertà e democrazia erano già da tempo scomparse in quasi tutti i paesi dell’ Europa continentale, poiché l’esperimento iniziatosi nel 1919 di applicare la democrazia parlamentare in tutti gli Stati europei era ormai clamorosamente fallito. Ed ecco che oggi, riconquistare le libertà nominali, all’indomani di una catastrofe che avrebbe dovuto implicare la revisione di ogni valore, quel tipo di repubblica parlamentare che non seppe quasi in nessun luogo resistere alla sopraffazione delle bande armate della reazione, rinasce, di poco modificata, dalle prime costituenti europee (quella italiana e quella francese) senza un serio processo di elaborazione scientifica, senza che delle idee nuove abbiano potuto penetrare in queste nuove carte di diritti, in queste organizzazioni dello Stato. Così, all’alba di un mondo che speravamo nuovo, in un tempo difficile e duro, molte illusioni sono cadute, molte occasioni sfuggite, perché i nostri legislatori hanno guardato al passato e hanno mancato di coerenza e di coraggio. […] Si tratta di comprendere che ogni funzione politica parlamentare ha invece uno speciale ed empirico rapporto tra talune discipline scientifiche e la vita. Tale pluralità di funzioni, di conoscenze, di esperienze, deve essere condotta a unità da una vasta e uniforme preparazione culturale dei parlamentari.»252

A giudizio di Olivetti, una parte essenziale di responsabilità ricade dunque sui partiti politici, indipendentemente dal loro orientamento ideologico253. Essi hanno di fatto arrogato a sé

252 A. Olivetti, Democrazia senza partiti, op. cit., pp.24-25

253 Olivetti ha condensato le risultanze della sua ricerca in alcuni punti che riguardano le deformazioni più gravi e più o meno palesi del regime parlamentare classico, quelle deformazioni che in parte sono certamente da attribuire al trasferimento meccanico del regime parlamentare inglese, fondato sul two-parties system e su una unwritten constitution non esportabile ai paesi del continente europeo, ossia a situazioni dominate da un numero maggiore di partiti e contrassegnate da una minore omogeneità sociale e culturale: a) non è il primo ministro che sceglie i propri collaboratori, bensì i gruppi parlamentari che si dividono tra loro i seggi ministeriali; b) i governi non solo non sono omogenei, ma la loro eterogeneità varia a ogni crisi ministeriale; c) l’ordinamento razionale dell’ amministrazione dello Stato è addirittura compromesso: si creano o si sopprimono ministeri o sottosegretari non in relazione alle effettive necessità del paese, ma per soddisfare le esigenze dei gruppi parlamentari; d) le instabilità dei governi e la

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l’organizzazione politica esclusiva della pubblica opinione, la scelta dei candidati ai pubblici uffici e la preparazione, praticamente insindacabile, delle liste, il controllo dei gruppi parlamentari, la formazione del governo e la designazione stessa del primo ministro254.

Nel suo pamphlet Democrazia senza partiti del 1949, Olivetti cita il Gioberti de Il rinnovamento civile d’Italia255, Antonio

Rosmini256 e sopra tutti, l’opera di Marco Minghetti, I partiti politici e la loro

ingerenza nelle pubbliche amministrazioni257.

loro disorganicità impediscono la preparazione e l’attuazione di programmi vasti, coerenti e organici; e) la situazione è poi ancora peggiorata dal carattere provvisorio delle coalizioni di partito e dallo spirito di manovra; f) l’introduzione della rappresentanza proporzionale ha reso ancor più difficile il funzionamento del regime parlamentare. (Ivi, pp. 55-62)

254 Riguardo la critica olivettiana ai partiti politici, Franco Ferrarotti, uno dei più stretti collaboratori di Adriano, afferma: «Abbiamo anticipato tutta la questione morale, abbiamo anticipato Mani pulite e abbiamo soprattutto collaborato alla crescente consapevolezza dell’inadeguatezza dei partiti politici come strumenti di realizzazione della volontà popolare» (F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p. 100)

255 «Ricordiamo le parole di Vincenzo Gioberti: “Le voci di parte e di setta, accennando disgiunzione e rottura di un tutto, significano un non so che di privativo, di manchevole, di vizioso, e però nella buona lingua le parti e sette politiche si chiamano anche divisioni, quasi eresie speculative e scismi pratici verso l’opinione e l’unità nazionale. E invero ciascuna di esse rappresenta un solo aspetto dell’idea multiforme che genera e abbraccia compitamente il concetto e il fatto, il genio e l’essere della nazione. E siccome nel lavoro dello spirito l’affetto ritrae dal concetto, elle sono rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non eque, eccessive e non moderate, volgari e non generose, sollecite di se stesse anziché della Patria, e licenziose intorno ai mezzi per sortire l’intento loro. Tanto che, assommata ogni cosa, tengono più o meno del rovinoso e del retrogrado anche quando si credono progressive o conservatrici”.» (A. Olivetti, Democrazia senza partiti, op. cit., p. 27)

256 Olivetti nel suo pamphlet Democrazia senza partiti, riporta una citazione di Rosmini contro i partiti politici: «Ciò che impedisce la giustizia e la morale sociale, sono i partiti politici. Ecco il verme che rode la società, che confonde le previsione dei filosofi, che rende vane le più belle teorie. In qual modo, dunque, la civile associazione si difenderà dal pericolo dei partiti? Ecco uno dei più difficili problemi per l’uomo di Stato, per la filosofia politica» (ivi, p. 26).

257 «In un pregevolissimo scritto di Marco Minghetti, si poneva un primo tentativo di risolvere la questione posta da Rosmini, se sia possibile un governo parlamentare senza partiti. Minghetti esamina pregi e difetti del governo e del regime parlamentare a esso connesso, facendo preziose affermazioni per il nostro assunto: “A prova della possibilità di un governo libero senza essere un governo di partito, si additerà qualche cantone della Svizzera, dove nel Consiglio di Stato, che è la potestà esecutiva, si trovano riuniti uomini di opinioni diverse, anzi opposte. Il che avviene per effetto del modo dell’elezione, la quale non viene dall’assemblea, ma direttamente dal popolo. E così

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Ma le sue letture sono assai più vaste e il suo orizzonte ha una prospettiva più ampia del moralismo gobettiano258 e del

municipalismo259 del Minghetti. Nell’ antipartitismo olivettiano si ritrova

infatti in primo piano il pensiero di Simone Weil, per la quale, forte di una tremenda esperienza di fabbrica, la volontà e il lavoro umani apparivano assolutamente incapaci di reagire alla brutalità di un mondo esposto alla forza di macchine non solo fisiche, ma anche sociali ed economiche. In particolare, degli scritti weiliani, Olivetti studia con particolare interesse Note sur la suppression gènèrale des partis politiques del 1943, dove i partiti sono tratteggiati come «un male non necessario, tutti di derivazione giacobina, parziali, partigiani, necessariamente estremisti, radicali, irrispettosi della persona umana, e la loro divisa, il loro motto, potrebbe essere quello del sindacalista sovietico Tromskij: «Il mio partito al potere, tutti gli altri in prigione»260. Così per la Weil ci sono bisogni sempre più vivi e rilevanti nel popolo che non devono essere oppressi:

manca uno dei cardini del sistema parlamentare, cioè che il potere esecutivo non possa reggersi che sostenuto dalla fiducia dell’assemblea elettiva”» (ivi, p. 28).

258 «Nel primo dopoguerra, aveva allora 18 anni, Piero Gobetti così descriveva la stessa gravissima situazione: “Gli schemi in cui si svolge la vita politica nostra (i partiti) non consentono agli uomini sufficiente vitalità. Gli uomini cercano, nella vita pratica, realtà ideali concrete che comprendano i loro bisogni e le loro esigenze. Oggi i partiti si sono limitati a formule vaste e imprecise, da cui nulla si può logicamente e chiaramente dedurre. Nella vita attuale dei partiti, di concreto c’è solo un circolo pernicioso per cui gli uomini rovinano i partiti, e i partiti non aiutano il progresso degli uomini. Le idee, insomma, in cui le forze si inquadrano, i partiti, sono rimasti addietro di un secolo. E gli uomini ci stanno a disagio. La storia va innanzi: gli uomini con essa. Gli schemi non possono restare gli stessi. Se non si liquidano, se rimangono, vanno soggetti nella pratica realtà alla deformazione che su di essi operano i singoli, favoriscono la disorganizzazione, la confusione, essi che per organizzare e sistemare erano sorti”»(ivi, pp. 25-26).

259 All’alba dell’Unità d’Italia Giuseppe Mazzini propose che i Comuni italiani fossero non più di mille. Un disegno di legge in proposito fu presentato, nel 1860, nel quadro di una generale riforma delle autonomie, Luigi Carlo Farini, all’epoca ministro dell’Interno. Progetto poi ripreso da uno dei leader della Destra Storica, Marco Minghetti, che prevedeva l’accorpamento dei comuni con meno di mille abitanti e regioni quali consorzi di province. (V. Emiliani, “Il paese dei micro-comuni”, 16 aprile 2008, tratto da www.lavoce.info)

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«Bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. Eppure sono terrestri come quegli altri, sebbene non posseggano una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia come i bisogni fisici, necessitano della vita terrena. Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco, in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa261».

Olivetti concorda con la Weil sulla necessità di realizzare, con il nostro agire, un’unità sempre maggiore, una realtà sociale designata secondo le leggi della scienza e plasmata da valori morali. Alla luce dei suoi studi, Olivetti perviene a formulare lucidamente il paradosso che sembra caratterizzare la democrazia parlamentare del nostro tempo e che ne indica duramente i limiti: il Parlamento è funzionalmente impotente rispetto ai nuovi compiti, e politicamente succube rispetto ai partiti politici. A fronte di tali difficoltà, la soluzione non è una ricetta da applicarsi meccanicamente una volta per tutte. Olivetti ha cura di sottolineare come non si possa tornare, semplicisticamente, al collegio uninominale, consapevole che «nessuno potrebbe pensare di risolvere una crisi così grave con riforme parziali262».

Scartate le soluzioni più ovvie, criticata la democrazia popolare teorizzata dai comunisti e i vari tentativi di “terza forza”, Olivetti propone dunque quella che definisce “democrazia integrata”:

«Alla democrazia autoritaria dei partiti cattolici, alla democrazia progressiva dei partiti comunisti, noi opporremo una democrazia integrata, un tipo nuovo, una forma nuova di rappresentanza più forte, più efficiente della democrazia ordinaria, ma altrettanto rispettosa dell’eterno

261 Citazione di Simone Weil in: A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p. 115 262 A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità (1945), op. cit., p. 219.

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principio dell’ eguaglianza fondamentale degli uomini e delle libertà di ognuno263».

Questo nuovo tipo di rappresentanza implica il ritorno alla fonte naturale della legittimità del potere, ossia alla “comunità concreta”, là dove finalmente trova soluzione il dilemma, classicamente formulato da Edmund Burke nel suo famoso discorso agli elettori di Bristol264, fra il delegato di un gruppo di cittadini e il rappresentante della

nazione, e, nello stesso tempo, si impone la riscoperta della base territoriale senza la quale, per Olivetti, non può realizzarsi la democrazia. Confrontatosi con i grandi teorici politici italiani ed europei, alla fine della sua elaborazione di una democrazia senza partiti, alla domanda su cosa sia, dunque, la Comunità, Adriano Olivetti scrive: «E’ il luogo d’incontro del tuo prossimo. Ricordate bene: il vostro prossimo, è quello che potete e dovete soccorrere perché il destino l’ha posto davanti a voi, perché l’avete incontrato»265.

Nel particolare clima politico nazionale e internazionale degli anni Cinquanta, Adriano Olivetti decise di mettere sul banco di prova le sue “fatiche di carta e inchiostro”, fondando e dirigendo, a partire dal giugno 1947, il Movimento Comunità. A un anno dalla sua fondazione, il Movimento era orientato lungo cinque direttrici: un’ azione culturale costituita dalla diffusione nel paese delle Edizioni di

263 A. Olivetti, Democrazia senza partiti, op. cit., p. 41 264

«Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale. Voi scegliete un membro, ma non un membro di Bristol, bensì un membro del Parlamento» (E. Burke, “Speech to the Electors of Bristol”, in The Works of the Right Honourable Edmund Burke, a cura di H. G. Bohn, volume 1, capitolo 13, Londra, 1987, versione online consultabile in http://press-pubs.uchicago.edu/founders/documents/v1ch13s7.html) 265 Ivi, p. 62

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Comunità266; un’organizzazione territoriale limitata al Canavese, per la

creazione di una prima Comunità autonoma, almeno sul piano amministrativo; un lavoro teorico sulla possibilità di realizzare una nuova economia “comunitaria”; la ripresa di una pubblicazione periodica del Movimento Comunità, il quale, «consapevole della complessità della propria posizione teorica e della difficoltà di permeare la vita politica italiana delle proprie posizioni ideologiche, non poteva e non doveva avere fretta nell’affermare la propria dottrina»267. Il movimento, infine, si

legava all’attività politica delle sinistre, con l’adesione all’Unione dei Socialisti268.

Lo scopo che si era assunto il Movimento Comunità era, infatti, quello ambizioso di tracciare una via volta a dimostrare che è possibile uno Stato senza partiti ed è altrettanto possibile che «nell’ambito dello Stato vivano ugualmente dei dualismi creativi, quella contrapposizione di forze, quel contrasto fra tradizione e progresso, senza cui la società e la vita sarebbero esaurite nell’immobilità»269. Il

contesto italiano di quegli anni si dimostrò poco propizio, le idee di Olivetti smisero di palpitare sbriciolandosi nell’arco di pochi anni, ma senz’altro furono semi importanti i suggerimenti dispersi dal Movimento Comunità nel mondo culturale e politico nazionale, generando un’eredità ideale che solo in parte è stata raccolta.

Bruno Caizzi, riflettendo sulla Comunità olivettiana da realizzarsi a livello nazionale, commentò che «la fantasia aveva forse preso la mano al riformatore270». Non era infatti facile

266 R. Zorzi, Catalogo generale delle Edizioni di Comunità. 1946-1982, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 7-21

267 Ivi, p.25

268 L’Unione dei Socialisti era «un movimento federativo per il coordinamento e il potenziamento di tutte le forze politiche che si propongono di ricostruire in Italia un partito socialista unitario, democratico e indipendente» (art. 1 dello Statuto Provvisorio pubblicato in: Unione dei Socialisti, Programma e statuto, Archivio dell’Insmli, fondo Rollier Mario Alberto, b. 4, fasc. 32 ).

269 Ivi, pp.201-202

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conciliare un rigoroso criterio territoriale con quello economico, superando il ricorso ai partiti, in una realtà come quella italiana, contraddistinta da fortissimi squilibri di popolazione, sviluppo sociale e civiltà economica. Ancora più assurdo era pensare di suddividere le grandi città italiane sulla base dello stesso criterio demografico delle Comunità, aggirando, senza risolverlo, il problema di trovare uniformità di interessi in quartieri che sono in continua interferenza fra loro.

Di senso opposto, invece, l’attenta e puntuale analisi svolta da Costantino Mortati in apertura del convegno fiorentino dedicato a «La Regione e il governo locale»:

«A rileggere gli scritti di Olivetti, dopo più di tre lustri dalla loro prima apparizione, sempre più spiccata appare la vitalità dell’idea che li ispira, la ricchezza dei motivi che essi offrono alla meditazione degli studiosi e degli uomini politici271».

La grande critica ai partiti politici e la realizzazione di una “rivoluzione politica nazionale” avevano radici nella calvinistica convinzione di Olivetti di essere, a suo modo, un missionario:

«Adriano Olivetti diceva che solo alcuni, pochissimi, sono “Alfa-plus”. Poi venivano gli Alfa e gli altri. Pareva divertirsi prendere spunto da Huxley, ma dietro il divertimento, c’era la volontà di avere vicino gente della qualità più alta. […]Parlava e scriveva in modo diverso, era un uomo come non se n’erano mai visti, con quei capelli chiari, gli occhi da pastore d’anime, la voce ferma ma un po’ cadenzata come quella di un predicatore. Era un mistero perché spendesse tanto del suo tempo a parlare con tutti, lui ricco e potente industriale del Nord, cui una presenza in Parlamento non aggiungeva nulla come prestigio. Alcuni dicevano che, entrato con un gruppo dei suoi uomini alla Camera e al Senato, avrebbe

271 C. Mortati, Autonomie e pluralismo nel pensiero di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, p. 43.

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iniziato una battaglia per cambiare tutto, cacciare i disonesti e gli incompetenti e governare l’Italia come aveva governato la sua azienda. Lo si guardava, insomma, come si guarda un uomo che appartiene alla storia.272»

Adriano Olivetti e le sue idee hanno quindi tentato di produrre un effetto di “spostamento” rispetto i luoghi comuni sia nel processo della democrazia di massa che nel capitalismo; hanno tracciato «una via alternativa inattuale nel senso delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, intendendo con questo termine tutto ciò che nell’abissale distanza dal proprio presente, mostra la feroce esigenza e attualità di un’alternativa radicale e visibile273».

Pertanto, quando leggiamo gli scritti politici olivettiani, dobbiamo essere attenti non solo a quello che c’è, ma anche (e soprattutto) agli indizi che rimandano a un pensiero che deve essere ancora sviluppato, a quelle riflessioni che sono in fermentazione, ossia a ciò che l’ingegnere ivreiano ha saputo pensare solo in parte come strumenti

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