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La "rivoluzione gentile" di Adriano Olivetti: l'ordine politico, economico, sociale e culturale della Comunità

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I N D I C E

• Introduzione p.1

• Capitolo 1: Adriano Olivetti p.6 1.1. A chi appartiene la vita di un “concreto utopista”? p.6 1.2. Imprenditore e tenace rivoluzionario p.10 1.3. Il ruolo della cultura nell’impresa civile per la realizzazione

del cammino dalla fabbrica alla comunità p.25 1.4.Il significato del lavoro per un capitalismo responsabile che

investe sull’Uomo p.35

• Capitolo 2: Comunità e democrazia p.54 2.1. La “Comunità” e il concetto di “Persona” in Mounier e Nisbet,

passando dalla dicotomia di Tonnies all’unità olivettiana p.54 2.2. L’ordine politico delle Comunità di Adriano Olivetti p.68 2.3. Il nuovo ordine politico delle Comunità tra decentramento e

autonomia politico-amministrativa: il progetto del “federalismo integrale” p.81

2.4. La critica olivettiana ai partiti politici e il (mancato) progetto nazionale p.91

• Considerazioni finali p.101 • Bibliografia p.106

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INTRODUZIONE

Ivrea è il resoconto fisico, esistente e incancellabile, per nulla utopico, che di fronte a una forte volontà umana, di fronte a un’autentica e sincera visione del mondo e della società, fu possibile, per quasi trent’anni, coordinare l’azione alle idee. Più che dell’industriale o del politico, in Adriano si incarnano quelle caratteristiche che Edith Stein attribuiva alle «guide del popolo1», a chi attraverso l’esercizio delle più varie professioni, si volge

all’educazione dello spirito per condurre tutti (in particolare la massa) a una vita autentica. Perché, come la Stein rimproverava al suo ex collega Heidegger, non bisogna chiudersi in un isolamento aristocratico e di separazione dagli altri, ma «quanto più ci si innalza, tanto più si comprende che si deve partecipare2».

Nel raccogliere materiale bibliografico, informazioni, documenti, è come se allo studioso spettasse la parte degli aedi che, presso la corte dei Feaci, raccontano vicende di cui è protagonista Ulisse, in ascolto ma presente in incognito. Perchè Adriano Olivetti, la sua presenza, il suo ricordo, in

1 Edith Stein, allieva di Husserl, in una conferenza sul ruolo degli intellettuali tenuta nel

1930 all’università di Heidelberg, ritiene che il vero intellettuale che si può porre a guida della comunità, non sia «chi guarda il popolo con un misto di disprezzo ed estraneità, né chi pretende di guidarlo con senso di superiorità, ma chi mette al servizio degli altri le proprie doti umane e spirituali, in vista di un fine eminentemente educativo e formativo.» S’immagina così San Tommaso: un uomo che aveva ricevuto da Dio, come talento, «una straordinaria attitudine intellettuale, con prontezza s’impegnava a fondo e dava risposte, se gli venivano poste questioni difficili, diventando così, proprio perché non lo volle mai, una delle più grandi guide». (E. Stein, Gli intellettuali, Castelvecchi, Roma, 2015, p.23)

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qualche modo è rimasto qui tra noi. L’aedo non è presente sulla scena quando l’azione accade, e può venire a conoscenza solo della storia che risulta dalla memoria, una memoria storica e sociale che procede anche dimenticando, selezionando, rielaborando e censurando, ma che non è mai invenzione.

Si cede spesso alla tentazione di raccontare figure come quella di Adriano Olivetti come personaggi quasi infallibili, con un non so che di divino, pura genialità, a cui la vita ha riservato onori e glorie e una certa dose di fortuna. Quello che viene nascosto ai più è invece il tratto caratteristico degli innovatori nella storia: la sconfitta. Il sacrificio di una vita per seguire il senso di una missione.

Anche Olivetti è uno che ha perso. Ma sapeva benissimo che il seme, per portare il frutto, ha bisogno di morire completamente. Si è così determinata una sorta di mitologia olivettiana che è divenuta terreno di coltura per “improvvisati attori” del palcoscenico dell’industria culturale e della comunicazione3. Quest’ambiguità si potrebbe legare al monito lanciato dal

filosofo Marcel Henaff: «Venticinque secoli dopo il conflitto tra Platone e i sofisti, da un altro punto di vista, ci si deve chiedere: la verità, ha un prezzo? Le idee si possono vendere?4». Perché la sua domanda si presta ad essere così riformulata:

ha, la memoria, un prezzo? E il prezzo non è quello che si paga per scambiarla con il silenzio, ma quello che si paga per non omologarla al senso comune e alla falsa coscienza.

Olivetti può essere di moda proprio quando il sistema industriale senz’anima trova i suoi cantori, e si scopre che molti di questi si autodefiniscono “olivettiani” senza esserlo. Occorre invece parlare di uomini e di lavoro. Più precisamente, del senso che questi uomini hanno potuto trovare nel lavoro e nella disciplina del lavoro industriale secondo il pensiero di Adriano Olivetti. Una disciplina rigorosa che veniva appoggiata alla responsabilità individuale e alla cooperazione dei soggetti. La fabbrica di Olivetti ricorda il

3 Si pensi, ad esempio, alla fiction Rai prodotta su Adriano Olivetti nel 2013, fortemente

criticata dalla stessa famiglia Olivetti proprio per la liberissima e viziata ricostruzione storica per “esigenze di audience”.

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ruolo dei monasteri medievali: il cuore pulsante di un territorio, con tutte le sue dinamiche relazionali, sociali, materiali, ma anche un luogo di accrescimento spirituale e morale. Soprattutto un modello che, sviluppatosi un tempo nelle città e dei comuni italiani, si basava sul concetto di lavoro come vocazione, sul profitto come misuratore di efficienza, sul fine dell’impresa orientato non al bene in sé, ma al bene comune. Si tratta di un concetto di lavoro strutturato sugli scritti di Aristotele, Cicerone, Tommaso d’Aquino e della scuola francescana, ma anche sugli studi di economisti più moderni come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Nell’idea dell’economia civile, impresa e lavoro sono alla faticosa ricerca dell’equilibrio tra gli interessi di ciascuno e gli interessi di una comunità e di un territorio. Così in un’impresa è possibile combinare solidarietà, innovazione, profitto, elementi che creano valore all’interno e all’esterno dell’impresa stessa. A queste idee ha dato realizzazione Adriano Olivetti. Nella fabbrica di Ivrea si è dimostrato possibile un lavoro degno della persona, come era stato pensato e realizzato nelle condizioni volute dal fondatore Camillo Olivetti, e portato all’eccellenza dal figlio Adriano; sì che la cultura non era da intendersi tra le cose inutili, quelle che “non servono” nell’ottica utilitaristica, ma secondo il concetto aristotelico del “non essere servili”, servendo invece, come tutte le forme del sapere, a rendere gli uomini liberi.

Il collaboratore della Olivetti di Adriano viveva un ambiente pedagogico meditato che favoriva quella progressiva evoluzione personale che si rivelava necessaria sia alla vita della comunità che a quella della produzione. Comprendeva che solo in un contesto di quel tipo, che superava gli spazi della fabbrica fino a includere l’ambiente urbano e naturale circostante, avrebbe potuto restare quello che aveva preso coscienza di essere: vale a dire, capace di evoluzione spirituale e materiale, oltre che in cammino per la propria auto-realizzazione. L’esperienza alla Olivetti dava al lavoratore consapevolezza di essere più che parte di una classe sociale, più che parte di un gruppo in lotta: la consapevolezza di avere diritto ad una relazione vitale con il corpo e la mente degli altri esseri umani, con i propri desideri personali, con la propria identità. Il ricco spettro di attenzioni alla persona della Olivetti fu dispendioso

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economicamente? Certamente venivano fatti ingenti investimenti, ma erano investimenti destinati ad essere ampiamente ripagati.

Si acquisisce così l’idea che rispetto al modello Fiat dominante (nel bene e nel male) nell’Italia del II dopoguerra, l’alternativa Olivetti, oltre che a misura di essere umano, fosse al contempo maggiormente profittevole. Non era sperpero filantropico l’assistenza sanitaria completa, totalmente a spese dell’azienda, nei controlli diagnostici costanti, nella prevenzione, nella cura, riguardo ai farmaci. Non erano frutto di un eccesso di slancio religioso i mutui agevolati per comprare casa a tasso d’interesse zero, le case operaie, gli asili nido per i figli dei lavoratori, la copertura delle spese per i libri di testo per gli studi dei genitori e dei figli, il dono di Natale ai bimbi dei dipendenti, per giungere persino all’ombrello a fine giornata di lavoro, nel caso fosse sopraggiunta la pioggia quando si era già entrati in fabbrica, da restituire l’indomani; o il servizio gratuito di riparazione e manutenzione delle biciclette. L’idea condivisa che ciò fosse parte di qualcosa di utile a se stessi e agli altri liberava motivazioni profonde che sfociavano non solo in un diffuso sentimento di riconoscenza, ma anche nella consapevolezza di appartenenza ad una comunità di cui ognuno poteva andare fiero.

Del resto, la capacità di integrare impresa e comunità poneva altresì le condizioni perché la stessa classe politica fosse poi scelta con maggiore attenzione, quanto a competenza e capacità, oltre che per affidabilità etica. Essa sarebbe stata idealmente espressione di una comunità informata, radicata nel territorio, maggiormente consapevole e, soprattutto, direttamente interessata al bene comune. I partiti per Adriano Olivetti, infatti, pur espressione della società civile, erano infatti strutture troppo vecchie, abitate da pulsioni ideologiche totalizzanti, organizzate in modo gerarchico, di conseguenza lacerate da forme di competizione interna dispersive, che determinavano una selezione di personale inadeguato, necessariamente povero di conoscenze specifiche.

Non apparteneva ad Adriano Olivetti un’idea “riduzionista” dell’essere umano, che è motivato solo per denaro e che si accontenta di cose futili e di potere. Non altrimenti è spiegabile l’attenzione alla

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bellezza degli ambienti di lavoro; l’assunzione di responsabilità dell’azienda su quelle che sono le ricadute delle scelte gestionali e organizzative sull’ambiente sociale e territoriale esterno; la prioritaria messa in discussione del management in caso di comportamenti anti produttivi, come errori di montaggio o scarti in eccesso, regolazioni fatte male, tempi persi, conflitti e assenteismo.

La figura di Adriano Olivetti pensatore politico, non solo imprenditore, padre spirituale di un’Italia pur mai esistita se non nella piccola grande fabbrica-comunità di Ivrea, risulta ancor più affascinante se confrontata con la tentazione, oggi dilagante e quasi rassegnata, di ritenere che il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, dei principi di pari opportunità, meritocrazia, democrazia reale, ecologia e sostenibilità, sia incompatibile con la contingenza economica globale, la quale sembrerebbe imporre semplificazioni politiche tanto necessarie quanto inquietanti, rendendo irrilevante il rilancio del desiderio di continua evoluzione, spirituale e materiale insieme, dell’essere umano. E non c’è sconfitta migliore di quella che regala agli altri la speranza che cambiare il mondo non solo si può, si deve. Di certo, la riscoperta del pensiero di Adriano Olivetti può contribuire a formare una società fatta di uomini autentici nel senso shakespeariano5, nei quali verità, bene e giustizia sono un’unica cosa,

ed è quest’unica cosa la stella verso cui orientare la libertà, tanto personale che politica. Vengono in mente le parole del filosofo Diogene che durante il giorno andava in giro con la lanterna accesa dicendo «cerco l’uomo6». Perché anche oggi

converrebbe cercare l’uomo. Chi conobbe Adriano Olivetti, sa che le sue convinzioni nascevano da un’ansia spirituale profonda: la ricerca di un filo segreto, al di là del ritmo apparente, era per lui una sincera e sofferta vocazione esistenziale. Sembrano cose sulle quali domandarsi se appartengano solamente a un altro secolo o siano ancora possibili.

5 Nella tragedia shakespeariana più famosa, Orazio dice ad Amleto, a proposito del

padre defunto, che «era un vero Re», al che Amleto risponde: «Era un uomo», facendo comprendere che dicendo “un uomo” intendeva un’altissima qualità morale, una peculiare tensione spirituale. (W. Shakespeare, Amleto, Garzanti, Milano, 1974, p. 13) 6 L. Diogene, Vite dei filosofi, Laterza, Roma, 2003, p.218

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CAPITOLO 1

ADRIANO OLIVETTI

1.1. A CHI APPARTIENE LA VITA

DI UN “CONCRETO UTOPISTA

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”?

“Vedere nuovo, significa vedere un mondo umano, veramente umano, un mondo fondato su leggi naturali, su leggi che siano eterne e siccome eterne, diano vita a una società ove alberghi la quiete e risplenda la bellezza8

Adriano Olivetti

Non bisognerebbe mai dimenticare l’avvertenza con cui inizia uno dei grandi trattati di economia, i Principles of Economics di Alfred Marshall: «L’economia politica o economica è, da un lato, lo studio della ricchezza e, dall’altro e più importante lato, una parte dello studio dell’uomo9». Nell’attuale nave senza nocchiero del capitalismo

contemporaneo, «sempre in crisi, come certi virus10» nel mare della

7 Il tema dell’utopia attraversa la storia della filosofia occidentale da Platone ai giorni

nostri come modello ideale di costituzione politica a cui tendere, con la consapevolezza che si tratta di un telos e non di un obiettivo storicamente raggiungibile. «E’ dolce immaginare costituzioni politiche corrispondenti all’esigenza della ragione (soprattutto sotto l’aspetto del diritto) ma è temerario proporle ed è colpevole sollevare il popolo per abolire la costituzione esistente» (I. Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Scritti politici e di Filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, Utet, Torino, 1998, p.127).

8 A. Olivetti, «Idea di una comunità concreta», Rivista Comunità, n. 1, 1946, Ivrea, Archivio Fondazione Adriano Olivetti

9 A. Marshall, Principi di Politica, Utet, Torino, 1972, p.16

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deresponsabilizzazione dell’ideologia liberistica, torna allora in auge la visione di Adriano Olivetti, dove la produzione delle merci e la produzione dell’uomo produttivo significano, al tempo stesso, produzione dell’ambiente produttivo (naturale e sociale, industriale e civile) in cui l’una e l’altra si svolgono.

«E’ probabile – dice Hannah Arendt in Vita Activa – che il “chi” che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa, come il daimon della religione greca che accompagna ogni uomo per tutta la vita, sempre presente alle sue spalle e quindi visibile solo a quelli con cui egli è in relazione»11. C’è da

chiedersi, dunque, se Adriano Olivetti, in quella sua purezza morale che lo scrittore francese Michel Tournier definisce emblematicamente “il vetriolo dell’anima12”, si sia reso conto di quanto egli abbia saputo pensare,

creare, sperimentare, sentire, costruire, credere, progettare, insegnare, innovare, così ricco di idee e visioni da doversi continuamente donare, e aver fatto della sua esistenza, qualcosa di più di un semplice percorso personale, lasciando a noi un’eredità umana e intellettuale inestimabile, addirittura necessaria affinchè la nostra società e intelligenza collettiva13 non

sopravvivano disarmate. Il costo sociale della caduta dell’utopia sarebbe tutt’altro che trascurabile, ammonisce Ferrarotti: «La società non avrebbe più un termine di confronto con cui misurarsi, riducendo a muoversi, ma solo per amore di movimento, cioè il movimento perderebbe l’intenzionalità, il senso della direzione verso uno scopo14». La vita di

Adriano Olivetti, in quella che auspichiamo essere una democrazia

11 H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 2001, p. 131

12 M. Tournier, Venerdì o il limbo del pacifico, Einaudi, Torino, 2010, p. 76

13 Il teorico lombardo del federalismo, Carlo Cattaneo (1801-1869), ha pubblicato sulla rivista “Il Politecnico”, nel 1864, un lavoro dal titolo significativo, Dell’antitesi come metodo di psicologia sociale, dove affermava che «le menti associate delle famiglie, delle classi, dei popoli, del genere umano, devono collaborare alla comune intelligenza, perché ciò che caratterizza un’idea nuova, è ch’ella nasce dal conflitto di più menti» (P. Legrenzi, Creatività e innovazione, Il Mulino, Bologna, 2011, p.80).

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cognitiva15 in cammino, finisce così per appartenere a tutti16, se è vero,

come scrive Occhetto, che l’impresa «è un aggregato di persone, di figure professionali e quindi di conoscenze, di volontà costruttive17», ossia

costruzione di un luogo sociale concreto18, che come ricorda una stupenda

15 Il sociologo Morin sostiene che bisogna operare una democratizzazione della conoscenza, ossia una democrazia cognitiva, procedendo verso una riforma del pensiero e la diffusione del sapere al di là dei recinti universitari (E. Morin, Educare gli educatori, Edizioni Edup, Roma, 2014, p.29). In assenza di questo processo, «la società è impossibilitata ad autogovernarsi, perché mancherebbe di ‘cultura’, ovvero non sarebbe in possesso di nozioni per sapersi orientare in un contesto, di comprenderne le logiche di riferimento, di incidere su di esse, di fronteggiare le situazioni di fronte alle quali l’esistenza ci pone quotidianamente, venendo meno la qualità della democrazia» (G. Solimine, Senza sapere, Laterza, Roma, 2014, p.35). La condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile, si fonda sulle condizioni culturali da cui si formano la mentalità dei cittadini e la loro capacità di ‘fare comunità’; perché la cultura è «organizzazione, è presa di possesso della propria personalità per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri» (A. Gramsci, Socialismo e cultura, in “Il grido del popolo”, 29 gennaio 1916).

16 In questo sentire comune battaglie e insegnamenti trasmessi dai grandi uomini della storia del nostro Paese, e sull’importanza della partecipazione attiva al progresso della comunità politica e sociale, possiamo ritrovare traccia nel pensiero di Gramsci, quando afferma: «Odio gli indifferenti. Credo, come Federico Hebbel, che vivere, vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini: chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, parassitismo, vigliaccheria, peso morto della storia, non è vita. (…) Un uomo nasce in una parte della terra, ma le sue opere, le sue parole, continuano, si ampliano, diventano milioni di vite, imprime del suo suggello secoli di storia, diventando parte della coscienza universale» (A. Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano, 2011, p.51).

17 G. Beccattini, Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.65 18 «Al centro di ogni impresa vi sia l’Uomo: non quello astratto, ideale, teorico, ma quello concreto, con i suoi sogni, le sue necessità, le sue speranze e le sue fatiche». È l’appello rivolto dal Papa al mondo di Confindustria (è la prima volta nella storia di 106 anni dell’associazione che è stato celebrato il “Giubileo dell’industria”), nella parte centrale di un discorso tenutosi nell’ Aula Paolo VI il 26 e 27 febbraio 2016. In esso è venuto l’ammonimento a «fare la differenza per un’impresa è il mettere al centro la persona, la qualità delle sue relazioni, la verità del suo impegno a costruire un mondo più giusto, un mondo davvero di tutti». «Fare insieme – ha spiegato infatti il Papa – vuol dire impostare il lavoro non sul genio solitario di un individuo, ma sulla collaborazione di molti. Significa fare rete per valorizzare i doni di tutti, senza però trascurare l’unicità irripetibile di ciascuno. Quest’attenzione alla persona concreta comporta una serie di scelte importanti». Lo stile da adottare quando si fa impresa, consiste in particolare nel «dare a ciascuno il suo, strappando madri e padri di famiglia dall’angoscia di non poter dare un futuro e nemmeno un presente ai propri figli; significa saper dirigere, ma anche saper ascoltare, condividendo con umiltà e fiducia progetti e idee; significa fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei

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espressione cristiana, deve oggi definirci: non solum in memoriam, sed in intentionem.

altra speranza, soprattutto per le giovani generazioni, che oggi ne hanno più che mai bisogno» (www.angesir.it, 27 febbraio 2016).

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1.2. IMPRENDITORE E TENACE RIVOLUZIONARIO

«Italians are sceptical of anyone who will spend his fortune for a good cause» Agente segreto Chief, Memorandum for Record della Cia su Adriano Olivetti19

L’atmosfera creativa

20 è un fenomeno congenito a

ogni fase di sviluppo di una società nel tempo e nello spazio. Dall’ Atene di Pericle alla Firenze rinascimentale fino alla Berlino di oggi, l’atmosfera creativa è il frutto di un’intensa circolazione di idee e di una massa critica intellettuale che ha visto nel Piemonte ai primi Novecento il configurarsi

19 Durante la Guerra Fredda, l’Italia stava ricevendo gli aiuti economici del Piano Marshall e della United Nations Relief and Rehabilitation Administration, altro ente che gestiva fondi di riabilitazione per le nazioni semidistrutte dalla guerra, cui l’Italia fu integrata nel 1946 a seguito degli accordi di Roma. In particolare, furono istituite l’Unra Tessile, cui spettava la distribuzione di tessuti di cotone e lana, e l’Unra Casas di cui Olivetti fu vicepresidente, per la ricostruzione di abitazioni, di interi complessi popolari e di quartieri polverizzati dai bombardamenti e rimasti degradati. L’agente Chief della Cia nel suo memorandum, descrive Olivetti come un uomo illuminato, assolutamente sincero, persino un po’ sognatore e con una vitalità che sembra addirittura magica. Secondo le sue parole testuali, nemmeno il sultano Achille Lauro con la sua politica emolliente basata sul principio del panem et circenses, riuscì mai a profondere in chi lo avvicinava nella sua pur estemporanea avventura politica (G. D’Arcangelo, Il gigante trasparente: echi e visioni di una passeggiata nel mondo di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2016, p.23).

20 Secondo Tornqvist, l’atmosfera creativa di un luogo si manifesta grazie a quattro componenti fondamentali: l’intenso scambio di informazioni tra persone, l’accumulazione di conoscenze, l’acquisizione di competenze e il know-how in specifiche attività e, infine, la capacità creativa degli individui e le organizzazioni nell’ utilizzare le tre sopraelencate capacità e risorse: «Quando il sistema delle idee raggiunge una massa critica di una comunità, l’atmosfera creativa diventa operativa e visibile. Essa è in grado di autoalimentarsi grazie alla produzione di esternalità positive, grazie all’ attrazione di talenti del territorio e ai vantaggi competitivi che si offrono tramite l’industria e il terziario» (E. Bertacchini, W. Santagata, Atmosfera creativa, Il Mulino, Bologna, 2012, p.20).

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del centro industriale d’Italia e dell’ artistic milieu21. In particolare, tutto in

via Jervis a Ivrea (principale centro del Canavese, regione al confine tra Piemonte e Val d’Aosta), a turno, secondo la provenienza della luce, finisce per specchiarsi e raddoppiarsi nelle pareti di vetro del “gigante trasparente”22, la fabbrica di macchine per scrivere che porta il nome del

suo fondatore Camillo Olivetti, strutturalmente imponente oggi come lo era settanta anni fa. Questo luogo fisico ospitò un oliatissimo apparato produttivo, un’esperienza umana unica e un’eccellenza industriale culminata nel 1966 con la fornitura alla Nasa di una gamma di microcomputers che offrirono il supporto tecnico basilare per la missione Apollo 11, la prodigiosa conquista umana della Luna23.

Camillo Olivetti, padre di Adriano, fondò da giovane ingegnere, nel 1908, la prima “Fabbrica Italiana di macchine da scrivere”. D’origine ebraica24 e spirito indipendente, Camillo e la moglie valdese

Luisa Revel ebbero una numerosa famiglia, dove Adriano, dei sei figli, fu il maggiore tra i maschi. A 13 anni, Adriano fu spinto dal padre ad avere una prima esperienza in fabbrica, che lo segnerà nella formazione successiva del suo pensiero: «Imparai ben presto a conoscere e odiare il

21 H. Taine, Philosophie de l’art, Bompiani, Milano, 2001, p.324.

22 Definizione del giornalista Giancarlo Liviano D’Arcangelo, usata nel suo libro “Il gigante trasparente: echi e visioni di una passeggiata nel mondo di Adriano Olivetti” (op.cit., pp. 8, 23 e passim), che allude alle pareti a vetrata della fabbrica olivettiana, il pan de verre teorizzato da Le Corbusier e messo in pratica dagli architetti milanesi razionalisti Figini e Pollini, ideatori di “muraglie trasparenti” che annullavano tanto i confini ambientali tra le sale di assemblaggio e i monti della Valle d’Aosta, quanto quelli gerarchici interni alla fabbrica, non più evocati da barriere fisiche.

23 Quel “miracolo” di elettronica si chiamava P101 o Perottina, dal nome del suo inventore. Si trattava di macchine da calcolo considerate le vere antesignane del personal computer, utilizzate nella preparazione di ciascuna delle fasi del viaggio, per la compilazione delle mappe lunari e per la scelta della località di allunaggio, oltre che per il calcolo della traiettoria della navicella.

24 Camillo Olivetti, amico di Filippo Turati e socialista liberale fortemente impegnato nella vita politica, fu braccato dai tedeschi perché ebreo (anche se sposato con la figlia di un pastore valdese), e morirà nascosto sotto falso nome in un oscuro angolo dell’ospedale di Biella, il 4 dicembre 1943.

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lavoro in serie, una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina»25.

Finiti gli studi superiori nel 1918 e terminato il periodo di leva come volontario negli alpini26, Adriano, da studente di Ingegneria

al Politecnico della Torino di Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli, Gramsci e Gobetti, ma vicino al socialismo empirico di Gaetano Salvemini27, dal 1919

al 1924, vide lo svolgersi della tragedia del fallimento della rivoluzione socialista:

«Vedo ancora il grande corteo del 1’ maggio 1922 a Torino: 200.000 persone. Sapevo che i tempi non erano ancora maturi, intuivo soprattutto che la complicazione dei problemi era tremenda e non vedevo nessuna voce levarsi a dominare con l’intelligenza la situazione e indicare una via perché il socialismo diventasse realtà»28.

Laureato in ingegneria chimica e terminato l’apprendistato come operaio in fabbrica, nel 1925, Adriano andò negli

25 «Mio padre, per lunghi anni, mi disse che la grande fabbrica, avrebbe distrutto l’uomo, avrebbe distrutto una possibilità di contatti umani, avrebbe portato a considerare tutto l’ingranaggio umano come un ingranaggio meccanico» (A. Olivetti, Il mondo che nasce, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2013, p. 33).

26 «Ho deciso di arruolarmi subito come volontario di guerra». Il 16 aprile 1918, cinque giorni dopo aver compiuto diciassette anni, Adriano Olivetti ritenne di poter «prendere una decisione di una qualche importanza». Il giovane Olivetti era consapevole della sorpresa che la sua decisione avrebbe suscitato nel padre, poiché non credeva di «aver lasciato scorgere» in sé «qualcosa che somigliasse alla stoffa di un eroe». Osserva, tuttavia, che non si trattava di considerarlo un gesto eroico, ma di intendere «l’atto che voglio compiere semplicemente come un dovere, per le speciali condizioni in cui mi trovo, cioè di aver finito gli studi secondari e di non essere necessario alla mia famiglia»: se non era un giovane che si trovava in queste condizioni a «dare esempio di buona volontà, chi mai potrebbe darlo?» (Lettera di Adriano Olivetti al padre, 16 aprile 1918, in Archivio Storico Olivetti, Ivrea, sez.23. 32 b.96 “Adriano Olivetti”).

27 Dopo i primi articoli pubblicati nel biennio 1919-1920 sul settimanale “L’Azione riformista”, e firmati sia con lo pseudonimo Alef, sia con Diogene, Adriano Olivetti collaborò probabilmente anche al periodico “Tempi nuovi” con qualche scritto anonimo. Gli studi d’ingegneria al Politecnico di Torino non gli lasciarono troppo tempo da dedicare all’attività giornalistica, che, dopo l’avvento del fascismo, venne definitivamente accantonata (D. Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2009, p.14).

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Stati Uniti29 su volontà del padre Camillo, per approfondire le tecniche di

gestione e produzione delle grandi fabbriche americane30. Tornato ad

Ivrea, Adriano iniziò a frequentare il mondo culturale antifascista italiano e insieme a Parri, Carlo Rosselli e Pertini, aiutò Turati a fuggire dall’Italia e raggiungere la Corsica31.

Adriano, dotato di una sensibilità assai acuta superiore al normale e di quella che lo psicologo gestaltista Köhler chiama

29 In una lettera aperta pubblicata dalla rivista «World» nel giugno del 1953, Adriano scriveva: «L’ Europa per sollevarsi ha bisogno di nuove idee, non di applicare bene o male quello che è stato fatto in America. Questo è l’importante. Non il tentativo di vendere all’Europa la più recente rivoluzione industriale americana. La diversità della struttura sociale e politica dell’Italia non fu tenuta in considerazione e il piano Marshall è stato attuato attraverso quelle forze – i monopoli e la burocrazia – che avevano creato o accettato il fascismo. La speranza di un ordine nuovo è legata al destino di un’idea. Il mondo moderno ha bisogno di nuovi ideali. La verità non si può limitare in formule parziali, specialistiche o astratte, ma deve dare luogo a una sintesi creativa, dove quanto è vivo e vitale della democrazia, del liberismo e del socialismo, si esprime in un linguaggio armonico e moderno» (F. Ferrarrotti, Un imprenditore di idee, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2015, pp 23-24).

30 Adriano Olivetti sbarcava il 2 agosto 1925 a New York, con l’intenzione di studiare il segreto dell’organizzazione, per poi vederne i riflessi nel campo amministrativo e politico. Si apprestava a vivere l’esperienza tipica del viaggio di formazione, che, a partire dal primo dopoguerra, diversi giovani figli di industriali svolsero negli Stati Uniti. Ebbe quindi libero accesso alla Remington di Ilion, alla Smith Corona di Groton, e soprattutto agli stabilimenti Ford a Detroit. In seguito al racconto del padre, che anni prima aveva visitato quel paese, Olivetti partì convinto che «nell’insieme l’America fosse un paese civile ma soprattutto ricco». Fin da subito ebbe un’ «impressione assai mediocre di New York e mediocrissima degli abitanti, vedendo tutta l’umanità sotto il prisma dei dollari e degli affari» (G. Gemelli, Costruire la modernità: Adriano Olivetti e l’America, “Analisi di Storia dell’Impresa”, XII, 2001, p. 295).

31 Molti dipendenti della Olivetti collaborarono alla Resistenza o divennero partigiani. Ventiquattro saranno i caduti fra i dipendenti, tra cui Willy Jervis, il direttore valdese della scuola di formazione dei meccanici, torturato per 47 giorni. Sulla sua Bibbia, ha inciso con uno spillo: «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea» (V. Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2013, p.129). Ricordando quegli anni, Parri scrisse su Olivetti: «Mi interessava quella giovane personalità già così sicura di sé, piena di dominio di sé anche di fronte al pericolo: ne avremmo avuto bisogno per la lotta clandestina che si veniva iniziando». Tuttavia, anche «suo padre aveva bisogno di lui, l’azienda aveva bisogno di lui» e, in altri termini, «il suo destino era un altro». (F. Parri, L’utopista positivo, “Il Mondo”, XII, 1960, n. 11, p.5). Durante l’ultima fase dell’occupazione tedesca in nord Italia, prima dell’insurrezione della Resistenza, c’era il rischio che gli Alleati bombardassero le fabbriche ad Ivrea, ma non furono colpite per intervento diretto di Allen Dulles, capo dell’Office of Strategie Services (F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p.175).

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insight32 (tedesco Einsicht, letteralmente vedere dentro, ma anche intravedere

una soluzione), s’impegnò a trasformare la sua piccola impresa in una vera e propria realtà industriale, senza però mai dimenticare la dimensione umana e comunitaria33 che sarà la sua grande ossessione ereditata dal

padre Camillo, il quale pensando ai lavoratori in carne e ossa, che non vivono nel cielo astratto della teoria economica e politica, lo ammoniva ricordando: «Tu, Adriano, puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia34».

A partire dagli anni Trenta, con quella che Schumpeter avrebbe definito “distruzione creatrice35”, o con la “tensione

innovativa” del Prometeo liberato di David Landes36, si iniziò a sviluppare

“lo stile Olivetti” grazie a giovani architetti, ingegneri e designer razionalisti come Figini, Pollini, Nizzoli, Pintori, che Adriano chiamò attorno a sé, e i cui frutti non si tradussero solamente in macchine da scrivere e arredi d’ufficio. Tra i notevoli successi “di riflesso” all’impresa, ricordiamo infatti i pioneristici servizi sociali (gli asili, le colonie estive, i trasporti), la grafica, i negozi dove non si entra per comprare ma per cogliere un’immagine diversa, che divennero gli ambasciatori di uno stile nuovo che, ancora oggi, contraddistingue il nome Olivetti nel mondo37,

32 W. Köhler, La psicologia Gestalt, Feltrinelli, Milano, 1989, p. 123

33 La fabbrica di Olivetti è nata «come progetto di vita da un soggetto umano dotato di un ampio ventaglio di motivazioni all’azione, il quale ha deciso di impegnare la propria vita in un’avventura produttiva che sa bene essere di incerto esito. Nell’impresa non ha investito solo i suoi risparmi, ma ha investito soprattutto la reputazione di competenza tecnica, di impegno sul lavoro e di correttezza nei rapporti con gli altri, che si è lentamente costruito nella comunità e che costituisce il nucleo più importante del suo “capitale”» (G. Becattini, op. cit., p. 239).

34 A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p.127

35 Schumpeter coniò quest’espressione per indicare il ruolo al tempo stesso di chi fa i conti con il passato e di chi apre nuove vie, tenendo in rilevante considerazione il ruolo giocato in questo processo dalla personalità, dalle conoscenze, dall’intuizione e dalla visione del mondo dell’imprenditore (J. Schumpeter, op. cit., p. 78).

36D. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 2000, p. 56

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ma soprattutto, la modernità della fabbrica di vetro d’Ivrea, che fu come un punto zero del mondo, un’eterotopia realizzata da cui far nascere e irradiare tutti gli altri luoghi possibili del pensiero olivettiano38.

La crisi del ’29 e il New Deal, furono una sfida raccolta anche da Adriano nel ripensare al significato dei nuovi centri urbani che andavano nascendo nel nostro Paese, e nel decidere di promuovere e coordinare lui stesso il nuovo piano regolatore della Valle d’Aosta tra il 1936 e il 1937, come primo esempio di pianificazione urbanistica in Italia. Poi, verso la fine del fascismo, Adriano colse i suggerimenti di Bobi Bazlen e fondò nel 1942 le Nuove Edizioni Ivrea, con l’obiettivo di “svecchiare” la cultura italiana traducendo i più innovativi testi di economia,sociologia, psicologia e scienze sociali. Adriano aveva capito che uno dei nodi dell’industria culturale non era tanto quello di “fare” libri, quanto quello di “mettergli le gambe39”, distribuirli, fornire

testi accessibili, cioè cultura a quelli che allora erano chiamati i “proletari subalterni40”. Ma in questo processo culturale, era coinvolta anche la

classe degli intellettuali italiani, riguardo i quali, così prigionieri del loro ruolo, così integrati, disponibili a diventare ingranaggio, diventava necessario interrogarsi sul come potessero distanziare lo sguardo. L’incalzare degli eventi bellici, però, interruppe i programmi editoriali di quella che, dopo la guerra, divenne la Edizioni Comunità.

38 Forgiato sul modello del concetto di utopia, e come il suo simmetrico inverso, il

concetto di eterotopia per Foucault designa luoghi aperti su altri luoghi, luoghi la cui funzione è di far comunicare tra loro degli spazi. Laddove però le utopie designano ambienti privi di localizzazione effettiva, «le eterotopie sono luoghi reali con una funzione fondamentalmente “anarchica”: liberano l’immaginazione, rivelando come illusoria l’angusta realtà degli spazi “normali”’, insinuando comunque un dubbio nel nostro incosciente e autarchico benessere» (M. Foucault, Utopie ed Eterotopie, Cronopio, Napoli, 2011, p. 59).

39 La casa editrice di Ivrea non ebbe mai delle finalità prettamente commerciali, come spiega Renzo Zorzi, direttore del catalogo dal 1956: «Lo scopo di Olivetti era assicurare la circolazione delle idee e delle elaborazioni culturali su cui si fondava il programma comunitario. Olivetti voleva dimostrare che l’assorbimento della parte più viva e creativa della cultura contemporanea doveva indurre a forme di azione sociali simili a quelle tentate dal Movimento Comunità» (G. D’Arcangelo, op. cit., p.48)

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All’inizio del 1943, in Svizzera, Olivetti fece giungere agli Alleati41, grazie all’aiuto di Ignazio Silone, un piano di pace da lui

redatto42, ma dopo l’Armistizio, accusato di aver avuto rapporti nascosti

con il nemico, venne imprigionato dal governo Badoglio a Regina Coeli43,

da cui ne uscirà fortunosamente alcuni giorni dopo l’8 settembre44.

Nel febbraio 1944, rifugiato in Svizzera, finì di scrivere L’Ordine politico delle Comunità, testo teorico che nasce come reazione alla tragedia della seconda guerra mondiale, vissuta come trapasso di una

41 Olivetti, come “agente numero 660” aveva contatti (laconici e poco produttivi) con la Cia. Agli americani interessavano soprattutto consulenze tecniche su come poter organizzare un sistema di comunicazione clandestina attraverso speciali macchine per scrivere con caratteri micron che la Olivetti avrebbe potuto mettere a punto (Ivi, p.24). 42 Durante l’inverno del 1942 e gli inizi del 1943, Olivetti si dedicò alla redazione del memorandum “Riforma politica, riforma sociale”, dove l’idea fondamentale del piano era che l’Italia, per ricostruire la propria “spiritual position” nel mondo, avrebbe dovuto porsi al servizio dell’idea di una “christian civilization”, realizzando un nuovo sistema politico e sociale, animato dall’idea di difesa della personalità umana espressa dal Papa Pio XII nel suo discorso del Natale 1942 (A. Olivetti, Stato federale delle Comunità, la riforma politica e sociale negli scritti inediti (1942-1945), Franco Angeli, Milano, 2004, p.136).

43Detenuto con il numero di matricola 9876, l’imprenditore rimase in carcere fino al 18

settembre. Fu proprio a causa dell’ arresto che Olivetti non partecipò alla fondazione del Movimento Federalista Europeo, promossa il 27-28 agosto 1943 da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli in un incontro a casa di Mario Rollier a Milano. Egli fu, in effetti, con Rollier, Einaudi, Silone, Usellini, e Adolfo Tino, uno dei primi ad aderire al Manifesto del Ventotene, che, diffuso da Ursula Hirschmann tra gli antifascisti del continente a partire dall’estate del ’41, venne pubblicato a Roma il 29 agosto del 1943. A questo proposito, più di un anno prima, Olivetti aveva espresso la sua paura per i pericoli insiti nel dissociare il problema federalista dal problema del mutamento radicale dei rapporti sociali nei paesi destinati ad allearsi, dato che un’ Europa unita, che conservasse la vecchia struttura economica fondata sull’economia privata e sul sistema dei profitti, gli appariva molto più pericolosa di un’ Europa divisa. Ma l’interesse di Spinelli per il progetto di riforma olivettiano era modesto, poiché voleva dare maggior peso al federalismo europeo, anziché risolvere prima quello italiano come previsto da Olivetti nel suo Memorandum sullo Stato Federale delle Comunità, pubblicato nel settembre del 1945 con il titolo L’Ordine politico delle Comunità (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino, Bologna, 1988, p.316).

44 Durante l’occupazione tedesca, Natalia Ginzburg incontrò a Roma Olivetti che l’avvisò riguardo l’arresto del marito Leone, e lei decise allora di ricordarlo in una celebre pagina di Lessico famigliare: «M’aiutò a fare le valigie, a vestire i bambini, e scappammo via, e me lo ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall’infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere per le stanze i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con gesti di bontà umile e paziente, con quel viso trafelato, spaventato e felice di quando salvi qualcuno» (A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p.128)

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civiltà e palingenesi di un nuovo mondo. Preso atto del fallimento dell’ideologia socialista e della crisi del capitalismo, elaborò una nuova idea di Stato basato sulla comunità come nucleo fondante della società. La stesura del volume coinvolse anche Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, entrambi rifugiati in Svizzera. La prima edizione del libro (aprile 1945) aveva come sottotitolo “Le garanzie di libertà in uno stato socialista”, la seconda (1946) “Dello stato secondo le leggi dello spirito” e la sovraccoperta recita con coincisa esattezza: “Un piano organico di riforma della struttura dello Stato, inteso ad integrare i valori sociali del marxismo con quelli di cui è depositaria la civiltà cristiana, così da tutelare la libertà spirituale della persona”45. Il concetto di Comunità, oggi fortemente

contestata dal sociologo francese Jean Claude Kaufmann46, fu il perno

della riflessione e della proposta olivettiana, che nasceva dalle letture di Maritain e di Mounier47, ma soprattutto da ciò che Olivetti avviò ad Ivrea

già prima della guerra, quando l’individuo, come in un organismo vivo, si scioglieva nella persona che diventava protagonista di una società solidaristica48:

«Una Comunità non troppo grande né troppo piccola, concreta, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che desse a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della

45 A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità (1945), Edizioni di Comunità, Ivrea, 2001 46 L’idea di una comunità politica, secondo Kaufmann, viene oggi usata prevalentemente come una risorsa dell’ego e come un necessario accompagnamento al progresso dell’individualizzazione, che vede alla base una forza conservatrice per fortificare la linea di confine che separa l’ “interno” dall’ “esterno”(J. Kaufmann, L’invention de soi. Une thèorie d’identitè, Hachette, Paris, 2004, p. 214).

47 «Mentre Maritain è il teorico della conciliazione fra cristianesimo e democrazia, e quindi delle democrazie cristiane, Mounier è il profeta dell’incontro tra cristianesimo e socialismo, ed è proprio in quest’ultima prospettiva che si colloca l’opera di Adriano» (V. Ochetto, op. cit., p. 120).

48 La situazione della fabbrica di Ivrea è ben descritta da un sociologo francese innamorato dell’autogestione, Albert Meister, che arrivato li, racconta di vedere «tutto fluttuante, le idee traboccavano da tutte le parti, nulla era ancora fissato, tutto era movente. Da tutto questo seguiva una struttura piramidale dove ciascuno di noi era legato direttamente all’ingegnere Olivetti» (Ivi, p. 160).

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personalità umana, della cultura e dell’arte, che il destino aveva realizzato in una parte del territorio stesso, in una singola industria»49.

“Concreta” era aggettivo ricorrente negli scritti di Olivetti, che lo usava come un’arma contro l’accusa di utopia spesso rivolta al suo movimento50. Se, com’è stato sostenuto, la definizione di

politica è quella di «attività onde l’uomo acquista la sua esistenza, divenendo creatore di valori51», concreta è infatti l’analisi di Olivetti del

tessuto sociale, culturale e politico da cui partire, dove ogni azione è determinata dalla volontà di trovare un senso52.

Nel maggio 1945, Olivetti rientrò finalmente ad Ivrea, dove, alla morte del padre Camillo nel 1943, la fabbrica vide il primo discorso ai lavoratori concludersi con queste parole:

«Cosa faremo? Tutto si riassume in un solo pensiero, in un solo insegnamento: saremo condotti da valori spirituali. Questi sono valori eterni, seguendo questi, i beni materiali sorgeranno da sé, senza che noi li ricerchiamo53».

A partire dal 1946, alla vigilia del “big bang economico” della società italiana, iniziò la stagione migliore per la Olivetti. Progettare, per Adriano, significava vivere. Tra gli esiti più noti, c’è la macchina da scrivere portatile Lettera 22 (1950), che divenne un vero e proprio oggetto di culto internazionale, consacrata anche da una mostra al MOMA di New

49 A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p. 129

50 Ritroviamo connessioni tra il pensiero di Adriano Olivetti e quello di Antoine De Saint-Exupery, che sulla necessità del rinnovamento materiale e morale, scrisse: «Non rifiuto la scala delle conquiste che permettono all’uomo di salire più in alto. Ma non ho confuso il mezzo con lo scopo, la scala e il tempio. E’ urgente che la scala permetta l’accesso al tempio, altrimenti esso rimarrà deserto. Ma il tempio, solo, è importante. E’ urgente che l’uomo trovi intorno a sé i mezzi per ingrandirsi, ma essi non sono che la scala che porta all’uomo. L’anima che gli edificherò sarà cattedrale, perché essa, sola, è importante» (A. De Saint-Exupery, Cittadella, Borla, Roma, 1999, p. 73).

51 U. Campagnolo, Politica e Filosofia, “Rivista di filosofia”, LI (1960), n. 4, p.459 52 M. Gladwell, Fuoriclasse, Mondadori, Milano, 2011, p.199

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York, dove vari pezzi di design dell’azienda furono l’emblema a livello mondiale del made in Italy54. Ma Adriano negli anni Cinquanta, s’impegnò

profondamente a trasformare la fabbrica in una “comunità-laboratorio permanente”, tra riflessioni teoriche a attività pratiche, rifiutando di fissare steccati tra azienda e ricerca intellettuale, per creare una nuova idea di società che desse una risposta diversa e inaspettata a ciò che si richiedeva a un grande colosso economico. «Il grande sogno,» dice Giorgio Bocca, «era che l’industria avrebbe risolto non solo i problemi economici dell’Italia, ma anche quelli politici55», e Franco Fortini, poeta e

saggista, aggiungeva: «Si diffuse la convinzione che il capitalismo ce l’avrebbe fatta, che i problemi sarebbero stati risolti a colpi di Fiat e di Cassa del Mezzogiorno56». La crescita industriale costante della Olivetti si

basò sull’innovazione non solo tecnologica, ma organizzativa in primis, che la portò ad essere la prima azienda a livello mondiale a produrre il computer mainframe Elea 9000 (1959); ad avere un importante gruppo di intellettuali57 (tra cui, per citarne solo alcuni, Franco Fortini, Paolo

54 Per l’apertura di una fabbrica Olivetti a New Delhi, ci fu nel 1958 l’incontro tra Adriano e Nehru che, cacciati i rappresentanti della concorrenza rappresentata dall’azienda Rogers, volle sentir parlare di Comunità, dell’industrializzazione umana, senza “disrupting the community”, senza alterare l’habitat naturale, e ne rimase così colpito che acconsentì a creare l’accordo con l’Olivetti.

55 P. Corrias, La vita agra di un anarchico, Feltrinelli, Milano, 2011, p.145 56 Ibidem

57 Tiziano Terzani, prima di intraprendere la carriera come giornalista internazionale, a partire dal 1962 lavorò per alcuni anni in Olivetti, la più importante multinazionale italiana sempre alla ricerca di laureati brillanti e motivati: «Per cinque anni ho fatto il manager all’Olivetti; vi ero entrato come giovane laureato con lode alla Normale di Pisa. Avevo scelto l’Olivetti perché a quel tempo un giovane come me, che veniva da una famiglia povera e che voleva impegnarsi socialmente, aveva la scelta tra l’Olivetti e il Partito Comunista. Io scelsi l’Olivetti perché rappresentava la modernità. Perché era moderna l’Olivetti di Adriano? Cosa c’era di grandioso e che oggi non riesco più a vedere in questo sistema economico, esclusivamente fondato sul concetto di crescita? Certo, anche allora bisognava produrre macchine da scrivere e venderle, ma il processo non era fine a se stesso o funzionale alla crescita; era funzionale a qualcos’altro, un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava Comunità e che, attraverso l’azienda, cresceva in cultura, in comunicazione, in senso di fratellanza; era, cioè, un progetto culturale e sociale, e questo, secondo me, era un grande aspetto positivo dell’economia» (Intervista di T. Terzani, F. Bertolini, Il manager e l’arcobaleno, “Economia & Management”, n. 6, dicembre 2002)

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Volponi, Franco Ferrarotti, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti, Giorgio Soavi, Renzo Zorzi, Riccardo Musatti, Giovanni Giudici, Furio Colombo, Massimo Fichera, gli psicologi Musatti, Novara, Rozzi e sociologi come Luciano Gallino) e studiosi che daranno vita al mito olivettiano; al fiorire di fabbriche e negozi progettati in Europa e negli Stati Uniti dai migliori architetti italiani e internazionali58; a far crescere l’impegno

nell’urbanistica, con la presidenza dell’ Istituto Nazionale di Urbanistica; a sviluppare una nuova forma di comunicazione attraverso la grafica, i reportage fotografici, i film prodotti dall’ azienda. Nel campo più propriamente culturale, molto importanti sono le riviste che Adriano pubblica e sostiene, tra cui Comunità, con le sue bellissime inchieste che raccontano l’Italia degli anni Cinquanta, poi L’Espresso, settimanale che inaugura il giornalismo d’opinione italiano, Zodiac, una rivista d’architettura di respiro internazionale. Nel frattempo, le Edizioni di Comunità pubblicano Maritain, Mounier, Galbraith, Hannah Arendt, Kierkegaard, Simone Weil e la nuova sociologia americana59. Da

sottolineare anche come Adriano, di suo, in proprietà privata, non possedesse quasi nulla e investisse tutti i profitti dell’azienda in attività della Comunità.

Resta celebre un discorso che Adriano tenne il giorno della vigilia di Natale del 1955 ai lavoratori d’Ivrea, nel quale, dopo aver ricordato i successi dell’azienda nel mondo, si chiedeva se fosse loro diritto chiedere e sapere: «qual è il fine? Dove porta tutto ciò?60».

Domande che si era posto anche pochi mesi prima, inaugurando lo

58 L’architetto Frank Llyod Wright, sulle infelici metropoli, ricorda che «si sono tanto allontanate dalla scala umana che non sono più luogo dove si vive e lavora bene, ma luoghi di strade dove va in scena l’opprimente pozzo della miseria moderna» (A. Olivetti, Noi sogniamo il silenzio, Edizioni di comunità, Ivrea, 2015, p.28)

59 Alle domande di un anonimo giornalista de «La Stampa», Adriano Olivetti affermava nel 1955 che «la scelta dei titoli è esclusivamente mia. Chiedo qualche expertise solo in casi specifici» (B. Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità, «Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti» n° 57, Roma, 2008, p. 79). Importante anche la volontà di Olivetti di dar vita al CEPAS, la prima moderna scuola laica di servizi sociali in Italia, condotta da due donne, Angela Zucconi e Anna Maria Levi, sorella di Primo. 60 A. Olivetti, Ai lavoratori d’Ivrea, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2013, p. 23

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stabilimento di Pozzuoli61: «Può l’industria darsi dei fini? Non vi è al di là

del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di fabbrica?62».

Accanto alle attività aziendali e culturali63, nel 1948 era

nato il Movimento Comunità, critico verso la partitocrazia della giovane Repubblica italiana, e che portò Adriano, dopo essere stato eletto sindaco di Ivrea nel 1956, a essere il solitario deputato nelle liste di Comunità nel 1958, nell’Italia divisa tra Democrazia Cristiana e il partito Comunista che guardavano con sospetto quest’azienda che si trovava spesso in contrasto con Confindustria64, gestiva il lavoro con la collaborazione dei Consigli di

Gestione e fu la prima italiana a raggiungere il traguardo delle 40 ore settimanali. Il Movimento Comunità fu efficace soprattutto a livello locale, dove nel 1954 nasce l’ I-RUR (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale del Canavese), con lo scopo di promuovere lo sviluppo delle valli, evitando l’inurbamento incontrollato della forza lavoro ad Ivrea, che avrebbe distrutto il delicato equilibrio città-campagna, con enormi costi sociali e urbanistici.

61 In quell’occasione, oltre a Cartier Bresson che lo immortalò nei suoi scatti, ad ascoltare Adriano ci fu Ottiero Ottieri, suo collaboratore, che ricorderà così quel momento: «Disse che di fronte al golfo più singolare al mondo, questa fabbrica si era elevata in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno, per una millenaria civiltà di contadini e di pescatori, per i quali la famiglia, gli amici, gli alberi, la terra, il sole, il mare e le stelle, erano importanti» (O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, Garzanti, Milano, 2004, p. 96)

62 D. Cadeddu, Adriano Olivetti, Il Margine, Trento, 2007, p.72

63 Tra il 1953 e il 1954, ci furono due visite di Henry Kissinger ad Ivrea, per cercare di stimolare Olivetti a dare una maggiore coerenza a tutta la sua costellazione di iniziative, in modo tale da creare anche un canale privilegiato per poter ricevere fondi dalle fondazioni americane, ma Olivetti non raccolse l’invito, pur dimostrandosi favorevole allo sviluppo delle fondazioni come istituto, che anzi considerava una forma costitutiva dei centri comunitari. (F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p.77)

64 «Gli industriali italiani, per miopia intellettuale, diedero vita a uno sviluppo selvaggio, dominato solo dalla massimizzazione del profitto individuale con il disprezzo più radicale per le esigenze della comunità, con l’ovvio risultato che pochi anni dopo, cominciarono le grandi migrazioni interne e si scoprì che c’erano centri di produzione che funzionavano, come la Fiat, ma mancavano le case operaie, le strade, i servizi, le infrastrutture, che mancano ancora oggi e strozzano la possibilità di sviluppo ulteriore» (Ivi, p.54).

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L’ultimo anno della vita di Olivetti fu tempestoso: dopo la sconfitta elettorale nel 195865, la sua posizione fu messa in

discussione all’interno dell’azienda, dove fu accusato di destinare troppe risorse alla vocazione sociale66. Dopo un periodo di volontario esilio,

ritornò rilanciando l’elettronica67, acquistando la Underwood, la grande

azienda americana di macchine per scrivere. Un azzardo, secondo molti, dato che la società si rivelò obsoleta dal punto di vista tecnologico68.

L’intenzione di Adriano, però, era quella di utilizzarne la grande rete commerciale per entrare capillarmente nel mercato americano. Propose poi ai suoi famigliari un nuovo assetto societario con a capo una Fondazione, che prevedeva, tra l’altro, la partecipazione nell’azienda (insieme alla proprietà) dei lavoratori e delle università locali: fu il culmine della riflessione sulla responsabilità e sul ruolo sociale dell’impresa e dell’ imprenditore69.

65 Nel 1958, durante la formazione del primo governo Fanfani, fu proposta peraltro ad Olivetti la possibilità di ottenere un ministero (Lavori Pubblici): offerta rifiutata, in quanto sarebbe stato uno strumento di gestione tradizionale, “aggirando” così le vie delle riforme che sarebbero state inevitabili per realizzare un programma che prevedeva nuovi metodi di gestione, strumentazioni concettuali e operative più moderne (F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p.92).

66 A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p.133

67 L’ Olivetti aveva promosso lo sviluppo di diversi centri di ricerca aziendali, mentre aveva stipulato convenzioni con istituti universitari in varie parti d’Italia e negli Stati Uniti. Dopo un periodo di collaborazione con l’Università di Pisa (dove si era formato uno dei primi gruppi italiani di ricercatori specializzati in elettronica e informatica), aveva costituito nel milanese, a Borgolombardo, un laboratorio di ricerca dedicato a quello che allora si chiamava “calcolo elettronico” (L. Gallino, L’impresa responsabile-un’intervista su Adriano Olivetti, Einaudi, 2014, p.31).

68 La vicenda della Underwood, secondo la vulgata tradizionale, viene considerata una sconfitta per l’impresa di Ivrea, ma in realtà sarebbe stato un enorme passo in avanti, se la morte prematura di Olivetti non avesse interrotto il piano, che prevedeva la riduzione delle linee produttive della Underwood da 18 a 3, l’invio dei migliori ingegneri di Ivrea negli Stati Uniti e lo sfruttamento dei canali distributivi americani per i prodotti Olivetti (F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p.81).

69 Ai nostri giorni, il modello Olivetti sembra essere ancora seguito da alcuni

“coraggiosi” imprenditori italiani come Brunello Cucinelli (l’azienda umbra produttrice di capi in cashmere, porta il nome dell’imprenditore italiano 62enne che l’ha fondata più di 35 anni fa) che ha ricevuto il premio "Imprenditore olivettiano 2009" istituito dall'Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea. Il suo, proprio sulle orme di quello olivettiano, viene chiamato infatti “capitalismo umanistico”. Nel 2012 la società (che oggi ha circa 1.400 dipendenti e opera in oltre 50 paesi) si è quotata in borsa con successo,

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La morte colse all’improvviso Adriano Olivetti il 27 febbraio 1960, su un treno diretto verso la Svizzera, con i funerali che seguirono qualche giorno più tardi a Ivrea con 40.000 persone. Fu così interrotta una vita protesa al futuro che potremmo definire cassier d’idèes70,

espressione francese usata per qualificare i pionieri e maieuti inconsapevoli, che secondo la tradizione socratica, praticano l’arte del risveglio, e non quella dell’ indottrinamento.

A pochi mesi dalla sua morte, Eugenio Montale scrisse: «Dai miei incontri con Adriano Olivetti in trent’anni di amicizia, ho riportato sempre un senso di ammirazione per la lotta da lui sostenuta contro la lonely crowd ch’egli sentiva intorno a sé71 e soprattutto in sé. Al di

là delle sue attuazioni comunitarie, che io non saprei giudicare, Olivetti era per me l’esemplare di un uomo nuovo che dovrebbe trovare continuatori72, ammesso che in Italia ci sia davvero qualcosa che si sta

formando e che meriti di essere proseguita73».

aumentando i profitti netti del 52 per cento, fino a 43,9 milioni. Nel 2014 le vendite sono aumentate del 10,4 per cento, fino a 472,8 milioni, e ora l’azienda ha un valore di mercato di circa un miliardo di euro. (G. Crivelli, «Cucinelli: La Cina non mi preoccupa», in «Il sole 24 ore», 27 agosto 2015)

70 F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee, op. cit., p.18

71 «Con Adriano Olivetti scompare una delle figure più singolari del mondo industriale italiano». Così Adalberto Minucci, giornalista e poi dirigente del Pci accanto a Berlinguer, inizia il suo commento sulla prima pagina de L’Unità, il 29 febbraio del 1960, sotto il titolo "Adriano Olivetti muore sul treno Milano-Losanna".

72 Ad oggi, che cosa resta della Olivetti? Una lenta agonia: attraverso innumerevoli ristrutturazioni si è passati dalle macchine per scrivere a prodotti innovativi, ai computer e infine a quelle che sono definite “soluzioni integrate e servizi”. Sono rimasti 620 lavoratori Olivetti. Fra questi 373 su 576, in Italia, utilizzano il contratto di solidarietà. C’è anche chi ha alimentato la tesi di un complotto ai danni dell’azienda: un complotto ricondotto a una serie di forze che nel passato non avevano mai digerito le linee di condotta di Adriano Olivetti sul piano produttivo e sul piano dell’organizzazione del lavoro. Vengono ricordati, in particolare, i malumori degli americani: «Agli inizi degli anni sessanta, l’Italia vantava alcuni poli di eccellenza scientifico-tecnologici che il mondo le invidiava in quattro settori strategici: informatico, petrolifero nucleare, medico. Oggi, in pieno terzo millennio, è il fanalino di coda tra i paesi più sviluppati proprio per scarsità d’innovazione e ricerca. Perché? […] Il caso Olivetti, il caso Mattei, il caso Ippolito e il caso Marotta, vale a dire nascita e morte della rivoluzione informatica che ha portato alla progettazione del primo pc e dei primi microprocessori del mondo; inizio e fine dell’autonomia energetica del paese, oltre che della competizione col monopolio angloamericano del petrolio; soppressione del CNEN, che ci aveva portato al terzo posto per produzione di energia elettrica di origine nucleare; decapitazione dell’Istituto Superiore di Sanità, che fece dell’Italia uno dei primi

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Adriano Olivetti è stato un uomo straordinariamente poliedrico e l'immagine che di lui ci hanno lasciato le persone che lo conobbero, è un'immagine sfocata e difficile da cogliere nella sua interezza. Le ombre che l'attraversano consentono solo sguardi più o meno parziali, non potendo che rimanere «profondamente impressionati e stupiti dal carattere scarsamente riconosciuto, isolato e temporaneo di un’esperienza d’impresa innovativa e intrisa di attenzione per la persona, per la bellezza, per l’ambiente74». Egli proiettava utopisticamente la

propria personalità negli anni a venire, considerando il passato come un'esperienza nel quale si prefigura ciò che sarà : «Io non penso mai al passato, non c'è passato in me75», amava dire ai collaboratori. Ai giorni

nostri, il rinnovato interesse verso Adriano Olivetti, verso la sua idea di società, lo rende non solo una figura storica su cui è ancora necessario indagare, ma un nostro possibile contemporaneo a cui rivolgersi nell’ora del dubbio.

tre produttori di penicillina grazie anche all’invenzione del microscopio elettronico» (M. Pivato, Il miracolo scippato: le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta, Donzelli Editore, Roma, 2011, p. 123)

73 A. Olivetti, Il mondo che nasce, op. cit., p.134

74 E. Ceva, «L’utopia realistica di Adriano Olivetti: la fioritura della persona tra rispetto e innovazione», ne« Il politico», 2010, anno LXXV, n. 2, p. 179

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1.3. IL RUOLO DELLA CULTURA NELL’IMPRESA CIVILE PER

LA REALIZZAZIONE DEL CAMMINO DALLA FABBRICA

ALLA COMUNITA’

«Noi crediamo profondamente alla virtù rivoluzionaria della cultura76»

Adriano Olivetti

Adriano Olivetti non amava parlare apertamente di sé, delle sue intuizioni per una società nuova, più equa e umana, ne aveva quasi pudore, e rimaneva indecifrabile anche ai più vicini, preferendo ricorrere a parabole come questa che raccontava spesso:

«C’è una catena di tre muratori occupati a passarsi dei mattoni. Interrogati, il primo risponde: io passo dei mattoni. Il secondo: io costruisco un muro. Il terzo: io innalzo una cattedrale»77.

Perché l’importante, concludeva Olivetti, è conoscere il fine. Quel fine che lo portò ad andare oltre le idee classiche di capitalismo, e dar vita ad un’impresa civile dove la responsabilità sociale non si giocava su strumenti tecnici o giuridici, quali ad esempio bilanci sociali e codici etici, ma soprattutto e principalmente sulle persone78. La sua

convinzione, infatti, era che la direzione di un’azienda avesse prestigio e autorevolezza solo se fosse vigile interprete dei bisogni e delle aspirazioni del luogo dove era chiamata a operare, se avesse forza e iniziativa, se

76 A. Olivetti, Il cammino della comunità (1956), Edizioni di Comunità, Ivrea, 2013, p.43 77 V. Ochetto, op. cit., p.186

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