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3.1 Dal silenzio alla voce

Nell'avviare il discorso su una scrittura portatrice di un vissuto o di una riflessione su quel genere di vissuto, bisogna tenere a mente che tale vissuto esiste al di fuori della scrittura, in maniera parallela ad essa, in maniera indipendente da essa. Può trattarsi di un bagaglio, un peso da trasportare che si sedimenta, distribuendosi, tra le curve che la vita prende dove la scrittura può costituire o meno un percorso possibile.

Esiste una forma di prima scrittura o meglio iscrizione: quella che precede il tratto grafico, la formulazione, l'intento comunicativo, e che avviene nell'incontro con il vissuto. Nel suo primo romanzo in parte autobiografico, Il paese dove non si muore mai, Ornela Vorpsi racconta il dolore di una bambina nel sapere sua madre maltrattata dal padre. L'immagine di quel maltrattamento parte da una piccola macchia scura, un «chicco rosso», che la bambina trova su una piastrella in casa. Vedendo la macchia la bambina pensa al dolore della madre, quella visione la ferisce profondamente. La macchia costituisce esattamente ciò che Peirce classifica come indice: «segna giunzione tra due porzioni di esperienza»1, immagine che costituisce di per sé la conseguenza di

un evento e permette a chi l'osserva di mettersi in connessione con tale evento. Il legame tra la protagonista e la violenza cui ha assistito si salda nel tempo proprio attraverso quell'immagine:

Le macchie non se ne sono andate. Un giorno lasciammo quella casa.

[…] Le macchie le porto dentro di me. Quelle macchie mi hanno macchiata. Vedo sempre la chiazza scura sull'occhio e sullo zigomo destro di mia madre. […] Il chicco rosso mi abita […]2.

Descritto in questo testo di un'autrice che è in primo luogo pittrice e fotografa, è un vissuto che sembra iscriversi, attraverso immagini-indici, da qualche parte all'interno della persona, per divenirne bagaglio permanente, porta d'accesso all'esperienza, in questo caso non voluta. I segni lasciati sotto forma di macchie costituiscono quella prima ‘scrittura’ che ancora è libera dalla scelta espressiva, che in parte si crea e in parte si riceve.

L'immagine di un bagaglio racchiuso al proprio interno, da cui è impossibile liberarsi, appare in diversi romanzi di autrici della migrazione che scrivono di eventi violenti o traumatici. Nel

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racconto di Marija Markovič Io pro-fuga, è la stessa guerra a non voler abbandonare una ragazza immigrata dalla Serbia in Italia:

La professoressa di italiano mi presentò alla classe come povera profuga fuggita dalla guerra. Non ero profuga – siamo immigrati legalmente – non ero povera, non ero fuggita dalla guerra. L'avevo portata con me.3

Nel romanzo Katerina e la sua guerra di Barbara Serdakowski, costruito attorno al tentativo di fuga – prima fisica poi psicologica, e dall’esito incerto – di una giovane madre dalla guerra nei Balcani, si assiste a un'ardua lotta tra la protagonista e quel bagaglio di cui desidera sbarazzarsi. La parte iniziale del romanzo vede la donna ancora nel suo Paese di origine, speranzosa di riuscire a sopravvivere a tutto assieme al marito e alla figlia e iniziare una vita altrove. Osserva persone che fuggono, abbandonando le loro case:

Per strada c'era gente con pacchi pesanti e visi raggrinziti, carretti e bambini piegati in due con zaini stracolmi che stringevano in braccio qualche balocco che non era potuto entrare più da nessun'altra parte. Non so dove avrebbero portato tutte le cose raccolte, dove le avrebbero nascoste, cosa ne avrebbero fatto. Fuori dalle case perdevano il loro utilizzo, diventavano memorie, e quelle tanto valeva tenerle in testa, per poterle eventualmente, un giorno, dimenticare. Ero orgogliosa di noi, che non avevamo niente.4

Il parallelismo tra oggetti difficili da trasportare e memorie di un vissuto difficile è diretto e chiarissimo; ma questi oggetti non sono solamente ingombranti, sono fuori posto una volta fuori casa, perdono la loro primaria funzione, non hanno utilizzo. Così le memorie sono viste come informazioni inutilizzabili una volta trasportate fuori dal loro ambiente: meglio abbandonarle. La protagonista sin da subito, da ancor prima di lasciare la città dove abita, intende dimenticare, sbarazzarsi di quel bagaglio che non farà che ostacolarle il cammino. Eppure, il suo destino non glielo concederà e la sua lotta contro la memoria non avrà un esito felice. La guerra porterà via suo marito e la spingerà in un campo profughi, sola con una bambina neonata. Quando infine le viene assegnato un destino e data la possibilità di lasciare il Paese, scopre che l'assenza di bagaglio fisico non scongiura la presenza di quello psicologico. Nel momento in cui sale sull'autobus, porta

in mano una borsa di plastica bianca con una grande croce rossa. La borsa era quasi vuota e non pesava niente. Tutto quello che mi portavo via era chiuso dentro di me.5

Questo bagaglio si deposita in profondità della psiche della protagonista, diventa una presenza silenziosa dalla quale non è possibile liberarsi ma che non può nemmeno venire espressa. Eppure,

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ed è questo l'elemento che lo rende riconoscibile, possiede una presenza: la sua stessa presenza è data dal silenzio.

C'è un'altra forma interessante di silenzio che si pronuncia attraverso i testi analizzati, ed è data dall'assenza di quei riferimenti che si potrebbero attendere in base alla collocazione temporale e geografica della storia narrata. Un esempio di questo procedimento si trova nel romanzo

L'orecchino di Zora di Duška Kovačević, i cui protagonisti sono bosniaci immigrati in Italia che,

oltre ad essere in contatto telefonico con i connazionali, tornano in visita ai luoghi natii. Diversi passaggi del romanzo, dunque, sono ambientati in Bosnia alla fine degli anni Novanta, periodo in cui la guerra, se non più in atto, certamente continuava a condizionare la vita delle persone con i suoi strascichi. Vengono descritti diversi momenti della vita quotidiana, si parla della vita di tutti i giorni, si condividono memorie, eppure manca qualunque riferimento alla guerra. Nel corso dell'intervista l'autrice, sollecitata su questo punto, mi ha fatto presente che non era la prima volta che era chiamata a rispondere di questo ‘silenzio’. Tempo addietro, infatti, una mail ricevuta da un lettore era stata lo spunto per una risposta pubblicata su Alma.blog6:

Mi arriva questa mail:

Ho letto tutto quello che mi è stato possibile di D. Kovačević. La cosa che un po’ mi ha sorpreso, considerando l’età dell’autore e la cronologia degli eventi, è stata l’assenza della guerra, o perlomeno di una qualche sua conseguenza o riflesso [...]. Salvo che non si voglia ritenere tale il puro fatto di essere ‘migrata’, forse a guerra neppure ancora conclusa, e accontentarsi di quello.

Se io avessi vissuto quella terribile stagione di rottura e disgregazione, dall’interno, e scrivessi storie, penso che ci si troverebbero dentro tracce più significative di quel periodo. [...]

[…] L’assenza della guerra? Me la porto dentro, la guerra. L’assenza è per te, che ti risparmio di questa pena [...]. Non sono stata stuprata. Non ho visto sanguinare o morire davanti ai miei occhi i miei cari. Deduco che la guerra non l’ho vissuta. […] Molti hanno scritto sulla guerra. Io non ho detto una parola. […] Dov’era, allora, tutta questa assenza? Nell’assenza dell’identità? “La scrittrice migrante”. Mi accontento di questo? Sì, io sono anche la scrittrice migrante. […] Forse anche per superare le barriere del nome, del cognome, del “da dove sono i tuoi genitori”, del “perché ti chiami così”. La gente veniva uccisa per questo, stuprata per questo, maltrattata per questo. E uno si stupisce dell’assenza della guerra nei miei scritti?! [...] Forse dopo [...] sfrutterò questo momento e mi farò un po’ di pubblicità pubblicando questo pezzo. […] [T]ante di quelle cose sono state dette e scritte e si cadrà nella solita manipolazione, strumentalizzazione, retorica. [...] Poi, qualcuno, […] in assoluta buona fede, mi darà pure della razzista. […] Io ho una tremenda [...] paura di discriminare per il colore della pelle, per il nome. Fa male. […] Uccide senza sparare colpi. […] E poi cammini come uno scheletro, un fantasma, un nessuno “esente di conflitti”7.

Prima ancora che nella risposta dell'autrice, un elemento curioso sembra essere rappresentato, in questo articolo, dalla maniera con la quale ingloba la lettera del lettore, quasi come se i due segmenti componessero, in fin dei conti, un testo unico: richiamandosi l'uno con l'altro in una maniera quasi circolare, sembra giungano, per certi versi, a una simile conclusione. Il lettore,

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utilizzando con una certa leggerezza il termine ‘accontentarsi’, suggerisce che il fatto stesso di essere ‘migrante’ sia in fin dei conti l'unico segno della guerra che in quanto lettore/fruitore potrà osservare nell'opera e biografia di questa autrice. La sua è quasi un'esigenza, quella di scovare l’iscrizione della guerra nel testo, pure se non nei testi: all'autrice viene apposta l'etichetta di testimone anche contro il suo volere e l'aspettativa verso questo ruolo è alta8.

L'autrice, toccata nel vivo, arriva ad ammettere, provocatoriamente, di ‘non aver vissuto la guerra’ perché non stuprata e non uccisa. Ma il suo silenzio non lo attribuisce all'assenza della guerra in quanto tale nella propria vita: piuttosto lo collega all'inutilità di aggiungere parole là dove altri si sono già espressi, al rischio di strumentalizzare un argomento delicato conoscendone l'appetibilità per il pubblico. Cade poi di fatto, in parte, nella trappola che teme, quando ipotizza di pubblicare la corrispondenza per ‘farsi pubblicità’: nel momento in cui leggiamo il testo su Alma.blog, questa scelta è già stata fatta. Infine, in maniera non prevedibile e non chiara, collega il proprio dolore per una guerra – vissuta o non vissuta – all'essere immigrata e al sentimento razzista9.

Rispondendo al suo lettore, Kovačević sembra affermare che essere migrante può certamente rappresentare già di per sé una continuazione della guerra, ma come condizione vissuta ogni giorno, che riproduce in parte le conseguenze della prima.

Nel diverso contesto dell’intervista, a due anni di distanza, la risposta è leggermente diversa: «Non sono riuscita a parlare ancora di questo tema e forse mai lo farò», spiega Kovačević. «Penso che le parole abbiano un potere enorme. [...] Parlare di guerra è innanzitutto andare a rimescolare qualcosa di estremamente difficile […], bisogna avere forse quella dose di lucidità e di coraggio che io non ho». La guerra si rivela essere qualcosa di ancora vivo, in grado di sopraffare il tentativo dell'autrice di racchiuderla in parole. Talvolta, spiega, è pericoloso «aprire delle scatole che poi non sei sicuro di saper chiudere correttamente». Infine, saggiamente, distingue fra la forza di un tema importante e la pulsione creativa che conferisce forza al tema in cui si riversa. La guerra «non è il tema che riesce a rendermi creativa»10, spiega, ricordando che la sua prima

preoccupazione nello scrivere è la creatività e non il dovere di offrire un resoconto. Eppure, ci si può domandare se proprio nella sua plateale assenza, la guerra sia presente ne L'orecchino di Zora, proprio per questo silenzio intenso dell’autrice, che acquista peso ed espressività e finisce per stimolare domande.

Il dilemma di dover parlare della guerra in quanto testimone – in maniera più o meno diretta – viene discusso nel corso dell'intervista realizzata con Elvira Mujčić, autrice di due romanzi, Al di

là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (2007) e E se Fuad avesse avuto la dinamite? (2009), che

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confida di essersi spesso arrabbiata, al pensiero di vedere la propria produzione letteraria condannata – seppure con eccezioni – a quell'unico tema.

Io dicevo: […] “Ma potrò scrivere un libro che non ha niente a che fare con questo?” Però è una sorta di ribellione molto infantile [...] perché in realtà io ho una storia […] che mi appartiene così tanto, [...] [che] in qualche maniera esce sempre, in ciò che scrivo. […] [P]er un certo periodo dicevo “Ma io voglio scrivere di altro”, poi mi mettevo là, dicevo: “Va bene, che cos'è che vuoi scrivere? Dell'amore? […] di che cosa?”

Nel tempo, Mujčić riconosce di essere sì costretta a determinati temi ma di possedere anche una specie di competenza. Riconosce che alle attese del pubblico nei suoi confronti corrisponde, da parte sua, una maggiore capacità di offrire determinati contenuti rispetto ad altri. La testimonianza da lei offerta si trasforma in destino, un destino che si sviluppa tutto sul piano della sua attività letteraria. Un sentimento di rabbia, tuttavia, resta presente di fronte all'esigenza, percepita da parte del pubblico, del ‘brivido’ già menzionato da Kovačević. Racconta che nel corso di alcuni incontri con lettori, in occasione di festival o presentazioni, le è capitato di sentirsi ‘cannibalizzata’. Le chiedo di precisare che cosa intenda con questo termine:

[…] qualche mese fa a un festival [...] ho raccontato [del libro], poi c'erano delle letture, [dalle quali] si sarebbe capito, ad esempio, che io ho perso mio padre, mio zio […]. [P]rima di queste letture, una signora alza la mano e mi dice “Sì, vabbè ma quindi lei, […] fondamentalmente, cos'è che ha sofferto? Perché non è stata violentata, […] non è stata ferita, fisicamente... cioè, insomma, è un po' poco!”.

Mentre le due autrici si comportano in maniera diametralmente opposta, l'una rendendo pubblico quello che una volta era il suo diario e l'altra persino escludendo l'evento bellico da una narrazione che per ambientazione storica e geografica dovrebbe contemplarlo, è possibile arrivare a individuare nell'esperienza di scrittura di entrambe una sorta di inquietudine attorno al ruolo di testimone, al passaggio dal silenzio alla voce, alla questione, soprattutto, dell'aver visto, aver vissuto, e poterne parlare.

Uno strumento importante per circoscrivere questo problema può essere riconosciuto nell'analisi che Cathy Caruth fa del film Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais. La studiosa mette in luce come un'opera in questo caso cinematografica sollevi interrogativi su cosa è possibile raccontare, se è possibile raccontare/comunicare la Storia, su come il racconto possa essere tradimento del passato e sul luogo in cui il racconto può avvenire.11 Nel corso del film, innestato

sui dialoghi tra due amanti, una donna francese e un uomo giapponese, più volte la protagonista tenta di convincere l'uomo di aver visto quanto accaduto a Hiroshima e di averne sofferto. Più volte l'uomo le risponde “Tu non hai visto niente a Hiroshima”12, tracciando una linea netta tra

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lei e la Storia del luogo. Il pensare di aver visto qualcosa, infatti, è problematico già nell'idea che qualcosa da vedere esista, spiega la studiosa13. L'atto stesso di vedere, nel suo stabilire un referente

fisico, cancella la realtà dell'evento14.

Caruth, nel percorrere quest'opera, arriva a notare che nemmeno il protagonista maschile ha ‘visto niente’ a Hiroshima. Non a caso lui è sopravvissuto, è sano, è nell'abbraccio della donna francese e può parlarne con lei. Caruth osserva allora che proprio il vuoto di conoscenza, il mancato possesso di una storia che possa essere raccontata nella sua interezza, caratterizza l'impatto del trauma di entrambi i protagonisti15. Il ‘non aver visto niente’ acquista allora un

significato molto speciale, che non implica estraneità agli eventi ma piuttosto una condizione di tragico, permanente, legame dato da quell'incompletezza della conoscenza e dell'esperienza. Nel corso delle interviste realizzate con le autrici, mi è stato chiesto chi altri avessi intervistato. In quelle occasioni, più volte ho osservato una reciproca diffidenza, soprattutto in merito alla capacità di essere testimone, o meglio: alla discrepanza tra la presunta pretesa di assumere un ruolo testimone e il grado di coinvolgimento negli eventi testimoniati. «X non ha visto niente», mi sono sentita dire più di una volta in riferimento a chi, nella propria produzione letteraria, dedica spazio alla guerra nei Balcani. Guardata tramite l'analisi di Caruth, più che voler esprimere un divieto di scrivere, questa frase ripetuta da più persone sembra quasi costituire una formula attorno a un evento che forse non può essere scritto, o comunque non da una persona soltanto. Il non aver visto è piuttosto uno spostamento di prospettiva rispetto al non conoscere, condiviso da chiunque abbia testimoniato un evento violento come la guerra16.

«Io non sono un testimone», assicura Elvira Mujčić, «un testimone è in grado di ripetere la stessa identica storia a sette classi, diverse, in una mattinata; io no, [...] mi sento morire a un certo punto. Mi sento [...] svuotata». L'autrice collega il ruolo di testimone alla capacità di ripetere uno stesso racconto. Curiosamente, tralascia la forma fissa del testo scritto e si concentra proprio sull'oralità, come terreno di messa alla prova. L'oralità è per natura fatta di ripetizione, legata al senso di certezza, scrive Glissant, mentre lo scritto appartiene alla trascendenza.17 Se la ripetizione è luogo

di certezze, l'autrice diffida di quelle certezze, prendendo le distanze. Un breve riferimento a questa forma di ripetizione compare in Io, noi, le altre di Enisa Bukvić che, nel descrivere l'incontro con una collega, nota: «mentre bevevo il caffè osservavo il suo comportamento e ho capito che lei ha qualche trauma, perché ripete sempre le stesse cose».18 L’iterazione mostra la sua altra

faccia, e invece di abilità denota malessere, un vissuto traumatico che non dà pace.

Molti dei romanzi di queste autrici presentano personaggi portatori di trauma. Zlatan, protagonista e voce narrante del romanzo E se Fuad avesse avuto la dinamite? di Elvira Mujčić, lotta con la memoria di quanto è accaduto al suo Paese, sconvolto dalla Storia che apprende soltanto a

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distanza di anni dalla fine della guerra, indeciso se il ricordo e la trasmissione del ricordo siano davvero strumenti utili a superare la violenza:

A che scopo ricordare? Per essere sicuro di non smettere di odiare mai e per far sì che non si ripeta? […] A volte, forse, [le cose] si ripetono proprio perché si ricorda troppo. Forse, addirittura, si genera il bisogno di scrivere affinché le cose si ripetano di nuovo, affinché le persone, anche fra due secoli, possano sapere e insegnare l'odio ai loro figli.19

Più che una provocazione, il pensiero di Zlatan sembra ponderare davvero la scelta del silenzio anche verso le generazioni future; la violenza e l'odio appaiono più forti della stessa volontà, la loro stessa possibilità li rende reali.

Una figura che fa la scelta del silenzio – o che è impossibilitata di parlare – è descritta da Ornela Vorpsi in Fuorimondo. L'azione si svolge in un Paese imprecisato che né i nomi dei luoghi né quelli dei personaggi aiutano a individuare. Dolfi, oggetto di passione della giovane protagonista, è una creatura inaccessibile e silenziosa che «non gradisce le emozioni»20 e passa il proprio tempo

guardando la televisione:

Si raccontava che Dolfi venisse da una grande sconfitta. Attorno a lui solo morti e il deserto che lascia dietro la guerra, il povero Dolfi è annientato, lo vedo in battaglia, nel cuore della sparatoria, il petto esposto in mezzo alle barricate, insanguinato e feroce, poi cade giù piegato da una pallottola invisibile che gli ha svuotato il corpo dal sangue. Certo, è un corpo senza sangue, per questo sta sdraiato sul divano ore intere.21

Svuotato, privato del suo sangue e privato, in apparenza, anche di vita, Dolfi non agisce più. Può solamente difendersi dagli stimoli esterni che richiamano il suo vissuto personale:

Un pomeriggio sedevamo oziosi davanti alla televisione muta, guardando le immagini di alcuni africani giovani armati in mezzo al niente. Dei bianchi, dunque noi, io e Dolfi, gli stavano fornendo dei fucili, loro stupiti ed eccitati sparavano al vuoto per provare cosa potevano quei ferri luccicanti. Uno dei ragazzi cade tenero senza rumore, i compagni del gioco si avvicinano e lo scuotono, quel corpo non vuole più muoversi. Stupefatti osservano il fucile, poi osservano un bianco, parlano, i neri, il bianco, mentre io e Dolfi guardiamo più che mai insieme e bianchi. Ho strizzato le palpebre e quando le ho riaperte Dolfi, il dolce Dolfi, aveva cambiato canale.22

La sua storia, che ci resta ignota, racchiusa nell'immagine fantasiosa e infantile offerta dalla protagonista, è da qualche parte al di fuori del racconto che in quanto lettori del romanzo

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