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2.1 I discorsi sulla violenza

Ogni discorso sulla violenza sembra possedere una dinamica paradossale: da un lato esige che l'oggetto venga definito, dall'altro trova scomoda ogni definizione, riuscendo a individuare sempre qualcosa, che non vi era stato incluso. Non è, d'altronde, un termine universale, in grado di definire un'unica esperienza o un'unica azione nel discorso di qualunque individuo; a dire il vero, non è un termine che qualunque individuo utilizzerebbe. È, ad esempio, più frequente sulla bocca di testimoni e vittime che su quella degli agenti1: gli ultimi raramente la nominano, ai

secondi è a priori chiaro a che cosa si riferiscono2. Allo stesso modo, nota Riches, il termine

'violenza' non è diventato nome di una disciplina di studio a sé stante, come è accaduto con 'guerra', o di un paradigma teorico, come 'aggressione'3, proprio per la sua fluidità.

La violenza è piuttosto riconoscibile per l'effetto che produce, per il messaggio che porta o invece per l'affermazione che essa rende impossibile. Sembrerebbe che proprio il riconoscimento sia, anzi, un processo centrale nella riflessione sulla violenza e sulle sue modalità. Ancora Riches, nel tentare di avanzare verso una definizione coerente, osserva come questo «termine peggiorativo» rappresenti una 'doppia distanza' dal momento in cui il danno viene inflitto, (harm-giving moment): non solo costituisce un 'commento' dell'azione, ma crea anche uno spostamento di prospettiva rispetto all'azione stessa, «from performer to observer»4. Inevitabilmente, definire 'violenza'

un'azione significa quindi collocarsi in una particolare posizione dinamica rispetto alla stessa e produrre un giudizio. E poiché il giudizio è solitamente generato da un contesto di costruzioni sociali, in quanto tale non è mai totalmente libero da una determinata idea di 'giustizia' o di 'diritto'5. Non a caso, anche se «non tutti gli atti violenti sono criminali»6, infatti, sia il crimine che

la violenza producono una 'vittima': una nozione che già in sé contiene «un'implicita richiesta di giustizia»7.

Si conoscono modalità molteplici d'azione definibili come violenza8. Ricercando una

classificazione ragionata, è possibile distinguere, in una prima fase, la direzionalità dell'azione, per poi catalogarne le modalità in base al destinatario specifico. Così, la violenza può rivolgersi contro di sé, esprimendosi in autoflagellazione, autodistruzione o suicidio. Può essere interpersonale, indirizzandosi a familiari o estranei, o collettiva, nella sua dimensione sociale, politica, economica. La violenza collettiva può essere perpetrata dallo Stato, o invece da organizzazioni terroristiche e

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può avere scopi economici, politici, sociali. A un livello elevato di generalizzazione, nella sfera delle relazioni sociali è possibile distinguere tra «una violenza avversativa, che si esprime in relazioni più o meno intense di ostilità e conflitto; una violenza sottrattiva, che conduce a diverse forme di deprivazione e spoliazione dell'altro, e una violenza impositiva, che genera e perpetua i rapporti di dominio e subordinazione»9. Sempre in questo contesto si collocano i cosiddetti «hate

crimes», compiuti «per i pregiudizi o per l'ostilità nei confronti dell'identità razziale, etnica, religiosa o sessuale della vittima, cioè ad esempio contro gli immigrati, i nomadi, gli ebrei o i musulmani o gli omosessuali»10. È evidente che, qualunque sia la struttura di classificazione

interna, le diverse forme di violenza «in quanto azioni/relazioni» sono caratterizzate contemporaneamente da «dimensioni materiali e simboliche, psicologiche, sociali e comunicative», che tendono a sovrapporsi. Sono molti i casi in cui un atto violento ne genera altri o ad altri si intreccia11.

È altresì possibile fare riferimento a definizioni ufficiali, quale quella data dalla World Health Organization, che parla di «uso intenzionale o la minaccia della forza fisica o del potere contro se stessi, contro un'altra persona o contro un gruppo o una comunità che abbia un'alta probabilità di provocare una ferita, la morte, un danno psicologico o una privazione.»12 Ulteriori aspetti

vengono efficacemente illuminati da Gili, che definisce la violenza «un'azione, dotata di un certo grado di intenzionalità e consapevolezza, rivolta a nuocere, danneggiare, far del male a qualcuno, uomo o altro essere dotato di sensibilità. Fare del male o procurare danno a qualcuno può essere lo scopo dell'azione, può essere un mezzo per conseguire un fine o ottenere un vantaggio o, infine, può essere una conseguenza o un effetto secondario di un determinato modo di agire»13. Gili

evidenzia, oltre all'intenzionalità, una componente consapevole: la distinzione tra le due può permetterci di azzardare un'ipotesi sugli effetti dell'azione. Inoltre, ci fa notare che la violenza può collocarsi in diverse posizioni o fasi dell'insieme dell'azione. Aspetto questo molto interessante, perché ripropone la violenza come componente non autonoma dell'azione umana: persino là dove essa è scopo dell'azione, consapevolezza e intenzionalità potrebbero giocare ruoli diversi. Gili caratterizza la vittima come essere sensibile. Finora tuttavia nulla è stato detto sulla sua posizione: infatti, mentre 'fare male' e 'danneggiare' sono termini dalla presunzione universalistica, nulla dicono sulla reazione del destinatario. La sintetica definizione di violenza prodotta da Riches, «the contested use of damaging physical force against other humans»14, sembra risolvere

questo aspetto nell'attribuire alla vittima il gesto o il sentimento di opposizione a ciò che le viene inflitto, ed è citata da Abbink, che vi aggiunge «with possibly fatal consequences and with purposeful humiliation of other humans»15.

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Le definizioni in ambito sociologico e antropologico qui riportate tendono a concordare: in nessuna di esse la violenza si presenta come un gesto casuale o privo di scopo. Questo aspetto viene discusso da Blok, il quale, nel criticare l'espressione comune 'senseless violence' osserva che non esiste nulla di 'insensato' nella violenza; anzi la maggior parte delle operazioni violente, scrive, è caratterizzata da una ritualizzazione che conferisce ad esse un aspetto formalizzato e persino teatrale16. Inoltre, per tornare alla sua difficile definizione, Blok sottolinea come la violenza non

sia un fatto 'naturale' e immutabile ma piuttosto una categoria culturale storicamente sviluppata che deve essere intesa prima di tutto in quanto attività simbolica, o come azione sociale dotata di senso (meaningful)17.

Sembrerebbe forse inutile indagare su cosa è contenuto nella violenza, aspetto questo in continuo mutamento, mentre risulta fondamentale riflettere su che cosa la violenza produce, dal momento che proprio il suo effetto la rende tale e permette di nominarla, o, meglio, che il suo effetto reclama una definizione generando così un concetto. Se la violenza è una categoria culturale, tale da meritare attenzione tanto quanto l'organizzazione familiare o le forme di scambio economico, non solo non la si può mai definire 'disumana' ma bisogna anzi assumere che contribuisca a definire lo stesso essere umano. Fanon parla di una violenza che ha il potere di disintossicare l'individuo oppresso, e di riabilitarlo ai propri occhi18: così, proprio nel maneggiarla egli tornerà a

riconoscersi umano, dopo essere stato a lungo passivo e disperato.

Sempre Fanon definisce la violenza una pratica «totalizzatrice, nazionale»19. Essa è infatti oggetto

di attento controllo da parte di organismi istituzionali. Per impedire - o sottrarre al potere dei singoli - gli effetti che la violenza produce, è necessario regolare i comportamenti umani ad essa legati: ecco che la definizione degli effetti torna in tutta la sua problematicità. Talal Asad analizza criticamente il concetto di «trattamento crudele, inumano e degradante» presente nell'Art.5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proibisce la tortura20, evidenziando quanto siano

labili le definizioni del dolore, della nocività, dell'umiliazione. Secondo Asad, la riflessione sui limiti del danno che può essere inflitto, a livello fisico o psichico, agli esseri umani, risulta debole laddove non preceduta da alcuni passaggi critici. Primo tra questi, il riconoscimento dell'aspetto storicizzato di ciò che significa «essere veramente umani», accanto alla dimensione storica e culturale di quanto può essere definito crudele, inumano, degradante, con il rischio che ne consegue di universalizzare il contenuto della sofferenza (fisica e psichica) e, infine, il riconoscere una sensibilità moderna «che vorrebbe eliminare il dolore e la sofferenza» nonostante ciò si scontri con una serie di altri diritti e valori21. Questo problema si fa sentire in particolare modo là

dove l'interculturalità è coinvolta. Lo studioso, infatti, mette a confronto la repressione da parte di coloni britannici dello hookswinging, rituale mistico praticato India22, con certe performance di arte

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contemporanea, pratiche di bondage nel contesto del sadomasochismo o l'auto-fustigazione praticata da monaci cristiani23. L'autore evidenzia che, molto più che «eliminare una particolare

forma di crudeltà», certe limitazioni siano mirate a «imporre un discorso moderno complessivo sull' 'essere umano'»24: la scelta tra ciò che va soppresso e ciò che deve essere autorizzato, quindi,

non è solo culturalmente e storicamente connotata ma inserita in un discorso politico. Come già la violenza, anche le forme di limitazione che la riguardano costituiscono un linguaggio25:

consentono di comunicare dove inizia e dove termina l'umanità.

Riflettendo sulle conseguenze dei conflitti bellici, Beneduce osserva come esista un numero infinito di «categorie culturali che rispondono, interpretano, rielaborano la sofferenza» prodotta da quegli eventi26. Questa ricchissima varietà culturale si esprime anche nelle forme di narrazione

possibili, nei modi di ricordare, classificare quanto vissuto, una volta che è passato. Mentre l'evento traumatico subito è «reale in quanto evento e immaginario come trauma»27, la sua

espressione non sta soltanto nel che cosa si ricorda, ma nel come si ricorda e come si dimentica28. Se la

definizione della violenza si colloca in una dimensione in qualche modo successiva all'evento cui si riferisce, e coinvolge categorie da essa stessa generate, in un contesto culturale e secondo strumenti culturali, allora il concetto di trauma risulta avere un ruolo fondamentale.

La violenza, finora descritta come fenomeno fisico, trova nel trauma la sua risposta psichica; è lecito chiedersi anzi se si possa parlare di violenza in assenza del trauma. Se prendiamo in considerazione le riflessioni di Asad, così come il concetto di 'indesiderabilità' menzionato da Riches, dovremmo concludere che la violenza senza il trauma costituisce un nucleo sterile, inutilizzabile per il nostro percorso. Anche Fabio Dei, nell'introdurre il volume Antropologia della

violenza, fa notare come sia impossibile parlare di violenza senza una riflessione sull'identità, sul

trauma, sulla memoria29, perché nella «gran parte dei casi, il lavoro [...] si fonda sulle memorie di

testimoni degli eventi.» In questo modo, il «problema dell'antropologia della violenza finisce [...] per coincidere in larga parte con il problema della memoria traumatica, in un'accezione del termine che implica non solo dinamiche psichiche individuali ma anche processi socio-culturali»30.

In merito al trauma, e alle peculiarità della memoria traumatica, Beneduce ritiene che il «successo» di un concetto così «popolare» sia dovuto al fatto che la nozione di ‘trauma’ funge da «concetto- cerniera: fra le dimensioni dell'inconscio e quelle della storia, fra conflitti individuali e drammi collettivi, fra esperienze private e significati culturali»31. Il concetto può allora costituire un ponte

verso il riconoscimento di cui l'individuo coinvolto dall'evento violento ha bisogno. La sua capacità di contatto contemporaneo con la dimensione individuale e collettiva, sociale, lo rende in grado di facilitare il passaggio di contenuti da una dimensione all'altra. L’idea di 'trauma', che curiosamente sembra suscitare meno sospetti della 'violenza', ha il potere di incapsulare,

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all'interno del discorso, il soggettivo che si vuole vedere riconosciuto ma, soprattutto, funge da collante tra dimensione corporale e psichica. Allan Young, riflettendo storicamente sulla sua funzione nel pensiero psicanalitico, indica come cruciale il momento in cui il trauma esce dai confini del danno fisico e si trasferisce nell'ambito dei danni invisibili inflitti alla mente, ottenendo quindi la definizione di «cruel and painful experiences that corrupt or destroy one's sense of oneself»32.

È interessante chiedersi dove, qui, sia da collocare l’intervento umano e se sia necessario alla definizione di trauma tanto quanto lo è a quella di violenza: Beneduce ricorda che la nozione di trauma nella sua concezione originaria nel contesto della psicanalisi presupponeva questa causalità, proponendo una sintesi chiarificatrice: «conseguenza di una violenza intenzionalmente perpetrata e di origine specificamente umana»33. D'altronde, per l'autore, il ruolo della presenza

umana è fortissimo, giacché il trauma, scrive, è sempre insito nell'incontro con l'altro34.

Curiosamente, però, il potere della nozione sta proprio nella capacità di allontanare formalmente tale presenza, di «espellere un elemento fastidioso, lasciandolo sullo sfondo, dopo averlo evocato [...], l'agente di quella malattia particolare che è il trauma». La figura umana che è all'origine del trauma si colloca temporaneamente tra parentesi, in una zona d’ombra, come se l'emergenza del soggetto traumatizzato rendesse secondaria la preoccupazione sugli eventuali colpevoli: in un certo senso, vi sarebbe la liberazione da quel giudizio che inevitabilmente si nasconde dietro la definizione di violenza.

Ma ciò che ci sembra più utile ancora nella riflessione di Beneduce sul trauma è il concetto di

segnatura, proposto per indicare quanto distingue un evento 'traumatico' da uno 'ordinario'

all'interno dell'esperienza umana35. La segnatura ha il potere di tracciare una linea nella psiche

dell'individuo e di creare così un ancoraggio fisso a un punto temporale, come la lettera incisa sul tronco di un albero. Proprio attraverso tale segnatura, è possibile parlare indistintamente del trauma come di un fenomeno unico, al di là della sua causa36. Attraverso la segnatura, vi è una

condizione comune: solo attraverso di essa si può accedere al ricordo che ne è all'origine. Ecco quindi il momento in cui il ruolo della memoria, memoria che può venire rappresentata in una narrazione o nel silenzio, risulta essenziale per far fronte alla generalizzazione.

Un'immagine calzante è offerta nel romanzo autobiografico Carta da zucchero di Eva Taylor, autrice di lingua italiana nata nella Germania dell'Est che racconta della fuga all'Ovest compiuta dalla sua famiglia quando era ancora bambina: un evento che l'ha segnata per sempre. «Era come rovesciare un guanto e portarlo d'allora in poi così, anche se nuovo, con le cuciture fuori: lo stesso, ma diverso»37. A partire da quel momento, la protagonista vivrà con una concezione

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frattura nell'esistenza. La cucitura in vista non altera la forma e la funzione, ma richiama inevitabilmente una cicatrice che non potrà mai scomparire.

È possibile dunque che si manifesti ciò che Demetrio definisce «pensiero autobiografico», un pensiero che può nascere nell'individuo in un certo momento della sua vita, perché in grado di dare senso al percorso fatto, ma anche di generare riconciliazione con passaggi difficili, alla ricerca di «emozioni di quiete» che è in grado di offrire38. Tale pensiero, che si traduca in parola

oppure no, si colloca necessariamente in un universo storico, politico, ideologico che ne caratterizzerà la forma e le figure prodotte39, nell'inevitabile tensione tra testo e contesto40. Così,

mentre da una parte vi è l'attesa che il raccontare e il raccontarsi diventino «forme di liberazione e ricongiungimento»41, dall'altra gli individui toccati dal trauma possono arrivare ad «abitare»

identità suggerite dall'esterno (da studiosi, ricercatori, operatori sociali, ecc.)42, fino a osservare la

trama (plot) della propria vita in funzione della figura/identità abitata43. In questo modo finiranno

per compromettere il racconto di sé, e con esso la qualità della memoria che custodiranno. Allora, l'inevitabile «creatività che scaturisce dai giochi connettivi»44 tra diversi momenti vissuti che si

vogliono portare alla luce, quel ricomporre i ricordi «in figure, disegni, architetture»45genererà le

«formule vuote» che spesso pervadono il processo verbale della rielaborazione46. L'effetto

dell'immaginazione sul ricordo e sulla ricostruzione può risultare impossibile da scongiurare47.

La verbalizzazione può risultare impossibile, in molti casi, senza che con ciò la memoria cessi di manifestarsi. Ne scrive Kirmayer, riflettendo sui molti casi di sopravvissuti all'Olocausto il cui silenzio non è da attribuire ai limiti della memoria, ma a quelli del linguaggio48. Infatti, nonostante

la forma culturale dominante di memoria sia quella dichiarativa49, esistono molte memorie che

non sono codificate sotto forma di immagini. Spesso «possediamo conoscenza, abilità, disposizioni ad agire che sono codificate come immagini soltanto dopo il fatto avvenuto»: in numerosi casi non possiamo ricordare dettagli di eventi che ci hanno formato. Così, «molto si traduce nel nostro accento nel parlare, nella postura, nelle abitudini gestuali o del pensiero»: forme che non conoscono verbalizzazione. Queste forme «procedurali» o implicite di memoria, nota l'autore, possono esistere in quanto tali, senza giungere a una descrizione50. Se il trauma si

propone in questa analisi come rovescio, lato interno, della violenza, allora il linguaggio sembra talvolta saper servire meglio il lato esterno di questo peculiare tessuto, generando il discorso nella stessa dimensione nella quale si era generata l'azione. «Nella storia delle nostre società vediamo che ad essere descritta e ricordata», osserva Susanna Vezzadini, «è soprattutto la violenza, la sopraffazione di un essere sull'altro, 'la storia di Caino'»51.

Il racconto del trauma può fluire in assenza di parola persino attraverso da una generazione all'altra: Beneduce nomina il fenomeno della teta asustada, del 'seno spaventato', come esempio

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della «trasmissione intergenerazionale del terrore e della violenza» che «passa fra corpi e si riproduce attraverso memorie 'incorporate'»52. Fabio Dei cita la psicanalista Yolanda Gampel53 che

ha coniato il termine 'radioattività'54 «per esprimere il modo in cui le esperienze traumatiche

s'insediano nella costruzione psichica degli individui, continuando ad agire molto tempo dopo che gli eventi sono conclusi e penetrando, appunto, anche nelle generazioni successive»55. In

questa dinamica, scrive Gampel, la spazio soggettivo del bambino viene messo in pericolo da una 'identificazione radioattiva', laddove i genitori non sono stati in grado di elaborare il loro lutto. Mentre il figlio di sopravvissuti non possiede memorie proprie, la violenza sociale traumatica subita dai genitori, la loro sofferenza e l'umiliazione che hanno provato, si depositano in lui attraverso questa trasmissione intergenerazionale56.

Il modo di ricordare è connotato non solo culturalmente57, ma anche a partire dal rapporto che la

società ha con la specifica tipologia di violenza subita58 e in base alla risposta dell’individuo.

Gampel osserva che in alcuni casi gli individui applicano una rigorosa strategia di evitamento, scegliendo di non leggere, non ascoltare, non vedere nulla che possa avere qualche relazione con il loro trauma59. Di questa tipologia di reazione racconta Barbara Serdakowski nel suo romanzo

Katerina e la sua guerra60, dove la madre, sopravvissuta alla guerra dei Balcani, lascia la propria figlia

totalmente all'oscuro in merito all’esperienza traumatica da lei vissuta, nonostante la figlia stessa, appena nata, ne sia stata testimone. Il costo di questo silenzio è l'incomprensione della ragazza, che cresce senza preoccupazioni in una città della Germania moderna e che considera la propria madre una donna chiusa, inaccessibile, inutilmente sospettosa. Pur non trattandosi di un fatto autobiografico, Serdakowski ammette che un atteggiamento simile è stato assunto dai suoi stessi genitori, che avevano lasciato quando era ancora bambina la Polonia per non tornarvi più. La stessa scrittrice sente di aver interiorizzato questo limite angoscioso e nella sua vita adulta non ha mai fatto ritorno in patria. Modalità complesse di gestione del ricordo sono frequenti in casi di migrazione e esilio, scrive Beneduce, ancor più quando lo spostamento avviene per evitare gravi pericoli o la morte: simili esperienze «generano come una iridescenza di quella narrazione incessante e minuta che chiamiamo 'memoria', disarticolando tempi e spingendo talvolta a un oblio di difesa»61.

All’estremo opposto vi è la scelta della narrazione, anche ripetitiva, come formula per rispondere al trauma subito e alla violenza testimoniata. Veena Das, nel parlare di donne vittime di violenza etnica e comunitaria, evidenzia «come esse abbiano colto questi segni nocivi di violenza e se ne siano riappropriate attraverso un lavoro di addomesticamento, ritualizzazione, e ri-narrazione»62.

D'altronde, nella narrazione della violenza condivisa a livello sociale, tramite modalità diverse a

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