Studium-Associazione per la storia della Chiesa bresciana-Centro Studi Longobardi, 2016, pp. 478 (Quaderni di “Brixia Sacra”, 7).
Il libro contiene la traduzione della cronaca del bresciano Giacomo Mal-vezzi (ca. 1380-1454) completata intorno al 1432. Il testo latino fu pubblicato dal Muratori (Chronicon Brixianum ab origine urbis ad annum usque 1332, in RIS, Mediolani 1729, coll. 774-1004), il quale ne sottolineava l’utilità per la rico-struzione della storia di Brescia, città che, nonostante la sua importanza in età medievale, non ha lasciato un significativo patrimonio cronachistico. Infatti gli Annales Brixienses, pure dal Malvezzi utilizzati (vd. MGH, Scriptores, XVIII, Han-noverae 1863, pp. 811-820) sono un testo breve e scarno che inizia con il 1014 e che, a seconda dei testimoni che ce lo hanno tramandato, si estende variamente al 1213 o al 1250 o al 1273 (per un’analisi critica di questa tradizione sono da ricordare le puntualizzazioni avanzate da A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Roma, 1954, pp. 7-8). L’interesse del Muratori per il Malvezzi, tuttavia, guadagnò nell’immediato poche attenzioni. Venendo al Novecento, a parte un lavoro di Guido Lonati (Su un codice bresciano della Cronaca di Iacopo Malvezzi, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo», 51, 1936, p. 65-80), solo negli scorsi anni Novanta è emerso un rinnovato interesse per questo autore; si tratta di contributi brevi, però, che non prendono di petto la Cronaca e le questioni che essa pone. Un significativo passo avanti in direzione di maggiori approfondimenti è rappresentato dalla voce dedicata al cronista da parte di Gabriele Archetti nel Dizionario Biografico degli Italiani (vol. 67, 2007);
la migliore conoscenza della biografia dell’autore può rappresentare infatti uno strumento di non poco rilievo per riconsiderarne l’opera in termini aggiornati.
Questo libro rappresenta un’ulteriore tappa in questo recupero. Esso, infatti, ren-dendo più facilmente fruibile l’edizione muratoriana in folio grazie alla fedele tra-duzione italiana, può avvicinare una platea più vasta di quella degli addetti ai lavori, senza nulla togliere ad una utilizzazione del testo in sede più strettamente storica. La traduzione, che comprende la prefazione anteposta dal Muratori alla sua edizione della cronaca (pp. 77-84), è inoltre preceduta da due utili studi: il primo di Gabriele Archetti (Per l’onore e la libertà della patria, pp. 9-49) che, ritornando sulla biografia dell’Autore, si sofferma sulla concezione della storia del Malvezzi (intrisa di Cristia-nesimo), sulla struttura della Cronaca e su alcuni dei suoi nuclei tematici e il secondo di Irma Bonini Valetti (Introduzione alla Cronaca di Giacomo Malvezzi, pp. 51-72), cui spetta la puntuale versione italiana, nel quale si analizzano le coordinate culturali dell’autore, il suo rapporto con la città di Brescia e con l’Umanesimo dell’Italia set-tentrionale, il suo stile narrativo e il suo linguaggio. Guidati dal testo del Malvezzi e dai due studi che lo precedono, abbiamo conferma dell’interesse della Cronaca, un interesse che dipende essenzialmente da tre fattori intrinseci: la collocazione del testo entro l’evoluzione del genere storiografico; il suo tono, più storico che crona-chistico, che ne determina le scelte tematiche; i destinatari del racconto.
Vediamo così che l’opera del Malvezzi si colloca in una temperie culturale nuova, rispetto alla precedente produzione storiografica. Sappiamo infatti che il
genere cronachistico, diffuso nei secoli centrali del Medioevo, è prevalentemente collegato, in ambito padano, alla dimensione autonomistica della città comunale.
Gli autori delle cronache, come è risaputo, sono prevalentemente notai spesso impegnati nella amministrazione pubblica, i quali, proprio in quanto tali, sono chiamati a produrre narrazioni dotate di veridicità storica e di ufficialità. Le cro-nache cittadine di quella stagione, pertanto, privilegiano la storia contemporanea, tramite la registrazione puntuale e annalistica dei fatti ritenuti utili per corrobo-rare la legittimità dal comune cittadino, per ripercorrere le tappe della sua affer-mazione (basata sulla forza politica e militare e sulle innovazioni istituzionali) e delle sue difficoltà insite in una partecipazione allargata dei cives alla vita politica.
La Cronaca del Malvezzi, che fra l’altro è medico, fa parte, invece, di una stagione successiva e ha caratteristiche diverse; una stagione in cui l’autonomia cittadina era entrata in una crisi irreversibile e in cui le città padane (Brescia compresa), venivano progressivamente – e in maniera altalenante – inglobate entro le più ampie formazioni politico-territoriali degli stati regionali. La logica e i bisogni che sottostanno al racconto non sono più, dunque, quelli di privilegiare la con-temporaneità con i suoi incerti sviluppi, ma quelli di ricostruire – con spirito più propriamente storico in via di recupero tramite la nuova cultura umanistica non ignara della produzione antica – la totalità e il senso del passato cittadino. Ne con-segue che l’orizzonte narrativo non è limitato alla esperienza comunale, sui cui esiti si possono ormai esprimere giudizi critici a fronte delle evidenti lacerazioni del tessuto politico e sociale che ne sono derivate. Questa virata della produzione cronachistica ha dei precedenti trecenteschi. Ad esempio, la cronaca piacentina di Pietro da Ripalta (notaio ma non più implicato nella amministrazione pubblica e quindi, come il medico Malvezzi, più ‘libero’ nel ripercorrere le vicende della propria città) non esitava a retrocedere col racconto, quasi rifugiandosi nell’età antica e nell’alto medioevo per dare una prospettiva di più compiuta continuità alla storia della sua città, soffermandosi ampiamente sulla prima diffusione del Cristianesimo, sull’affermazione del culto dei santi patroni e sull’erezione di im-portanti edifici religiosi che rappresentavano più di ogni incerta (e di fatto ormai superata) dimensione politica, le radici di una minacciata identità cittadina.
Anche il Malvezzi riserva una lunga digressione all’età longobarda, recupe-rata – come pure aveva fatto Pietro da Ripalta – tramite un’ampia utilizzazione della Historia Langobardorum di Paolo Diacono. La cosa è degna di nota sul piano culturale, dal momento che l’attrazione per la cultura umanistica non impedi-sce al Malvezzi di valorizzare un testo importante ma poco noto (I, 24, p. 163) ed un’età sulla quale gli umanisti fiorentini non esitavano ad esprimere giudizi negativi destinati a sedimentarsi nella cultura occidentale. Ma tale scelta ha un notevole rilievo anche sul piano della storia locale, dal momento che permette di riconoscere in quel lontano passato un momento ideale per comprendere le ragioni della grandezza cittadina fortemente compromessa. Da un lato, infatti, consente di comprendere la centralità di Brescia nell’ultimo periodo del Re-gno longobardo (basti ricordare la brescianità di Desiderio e la fondazione del monastero di Santa Giulia, perenne emblema del più autentico spirito cittadi-no, specchio della fortuna e della decadenza della città: IV, 87, p. 200), mentre
dall’altro consente di sostanziare l’originale concezione politica del cronista, che collega il rischio del definitivo avvilimento della città (e dei suoi valorosi ceti dirigenti orgogliosamente risalenti all’età longobarda, ma tenacemente soprav-vissuti in età carolingia e ottoniana) alla soggezione ai più recenti e fluttuanti poteri esterni: siano essi Enrico VII che aggredisce Brescia nel 1311, o gli Sca-ligeri (1332) o i più recenti Visconti nei confronti dei quali il dominio mala-testiano (1404-1420) appare al Malvezzi meno limitante e pericoloso. Diverso (e favorevole) è l’atteggiamento nei confronti della politica guelfa e pontificia, come si evince dalla narrazione degli episodi trecenteschi relativi alle intromis-sioni angioine o correggesche (IX, 50-52, pp. 432-434), motivato non solo da partigianeria politico-ideologica, ma anche dal più debole tasso di territorialità di quei poteri (comune peraltro al più recente potere malatestiano). Si configura insomma, per tornare alla celebrazione del Regno longobardo, una esaltazione del potere ordinatorio sovralocale seppur limitato al cuore del Regno (quell’I-talia settentrionale o Lombardia estesa, definita con precisione geografica in IV, 58, p. 184), percepito come più stabile, capace di coniugare le esigenze generali dello stato con quelle delle singole città e di riconoscere in particolare il giusto peso alla città di Brescia.
Più che indicare una concreta prospettiva politica, comunque, tale idealiz-zazione risulta soprattutto funzionale alla costruzione di una narrazione storica che appare perfino pedagogica, se si guarda ai veri destinatari del racconto.
Questi ultimi, infatti, sono i Bresciani e in particolare i ceti dirigenti cittadini i quali devono essere spronati (abituati come sono all’instabilità e alle sciagurate divisioni, che impediscono loro di riconoscersi nel comune spazio cittadino) alla conservazione della memoria patria per recuperare una identità e per con-frontarsi efficacemente, ancora una volta, con i poteri esterni, tesi ad intaccare i loro privilegi e la loro posizione sociale. In quest’ultimo punto forse dobbiamo ravvisare anche una sorta di timore dell’autore per il mutevole status della pro-pria famiglia (IV, 25, p. 165), già cospicua per avere dato a Brescia eccellenti notai, giudici, amministratori, medici. Nell’appello alle famiglie – come la propria – di illustre tradizione, evocate nominalmente e con enfasi fino a comporre e a circoscrivere quasi un blasonario della nobiltà locale (IV, 24, p. 162), ravvisiamo l’urgenza di costruire una consapevolezza identitaria e un senso di responsabilità condivisa radicati nello stretto legame tra passato, presente e futuro o, in altre parole, nella funzionalità civile della conoscenza storica. Lo sguardo preoccupa-to è con tutta evidenza rivolpreoccupa-to, dopo l’esperienza viscontea, alla dominazione malatestiana (ai tempi della quale maturava purtuttavia nel Malvezzi l’idea otti-mistica della composizione dell’opera), ma soprattutto alla successiva soluzione veneziana (1426) che Brescia sperimenterà negli anni in cui l’autore stava ancora attendendo alla sua cronaca; anni sui quali il Malvezzi tace lasciandoci incerti se tale brusca interruzione dipendesse da impossibilità contingenti oppure da un più radicale pessimismo per le sorti della città, retoricamente rappresentata nel proemio della cronaca come donna avvilita e sofferente. Ci limitiamo solo a segnalare una eloquente analogia con la Storia di Paolo Diacono, dal Malvezzi tanto celebrata. Come Paolo aveva terminato il suo racconto tacendo
sull’ulti-ma parte del Regno che aveva visto il fallimento di Desiderio, così il Malvezzi chiudeva la sua opera con il 1332, anno dell’avvio della dominazione scaligera su Brescia e dell’inizio di gravi incertezze per le sorti di molte famiglie cittadine.
Roberto Greci
Rettifica alla Recensione su Salvatore Statello, Ines de Castro. Un mito lungo cinque secoli, con le Traduzioni di Garcia de Resende, Trovas, Antonio Ferreira, Castro, Francisco Manuel de Melo, Doze sonetos e Romance n. XII, Messina, di nicolò edizioni, 2016, pp. 228, uscita in «Studi Medievali», 3a serie, Anno LVIII (II-2017), pp. 924-929, a firma di Armando Bisanti. – Leggendo la Recensione al mio volume, ho notato talune inesattezze, che stravolgono la verità storica. La lunga storia di Inês de Castro, narrata ad apertura, per quasi un terzo dell’intero scritto, è tratta da alcuni siti on line, soprattutto dalla voce “Inés de Castro” reperibile su Wikipedia, e per la precisione dal passo «prima amante» sino al passo «vicenda arricchita», con ventotto lievi modifiche.
Il luogo esatto e la data di nascita di Inês, come dal mio vol. p. 9, per gli studiosi resta-no incerti. Proprio la mancanza dei dati storici attendibili alimenta la leggenda. Mentre l’età della madre, Aldonza, al momento della nascita d’Inês, 56 o 57 anni, si commenta da sé. Come scritto a p. 925, invece, il matrimonio segreto (ammesso che sia stato celebrato) è stato svelato il 12 giugno 1360, ved. p. 12 mio vol., cinque anni dopo la morte d’Inês. E ancora, come da p. 925, dalla loro unione, invece, nacquero quattro figli e non tre, di cui uno è morto in tenera età (mio vol. p. 11). Avverso la citazione tratta da Wik., p. 925, che falsifica la Storia la quale dice con nota coeva: «decolata fuit Doña Enes, per mandatum domini Regis Alfonsi IIIJ» (n. 1, p. 9 mio vol.). Anche Domenico Laffi scrisse: «poco fà (sic!) levarono il collo dal busto l’innocente Capo alla tua bella, alla tua cara Isabella/Inês»
(mio vol. p. 129). La scena teatrale, p. 925, della donna che si sarebbe posta ai piedi del re e che questi sarebbe stato per demordere da suo «truce proposito» è un’invenzione dai poeti del XVI sec. (mio vol. n. 49, p. 89). La guerra civile scatenata da Pedro contro il padre si concluse il 5 agosto 1355 e non tra il 1356 e il 1357 come detto a p. 926. Stessa p.
926: «il testo su cui è stata condotta la trad. it. – come chiarito dallo studioso a p. 33, nota 28 – è quello stabilito da A. Roig…», invece, a tale n. e p., ho scritto «Per la divisione degli atti, delle scene e dei cori, in questa traduzione si seguono le lezioni di…», mentre a p. 12, n. 5, avevo cit. l’ed. principe del 1598. A p. 56, n. 38, ho scritto: «Si notano le influen-ze di Seneca, Phedra, V. 272 et passim; Octavia, V. 806 et passim» e non come affermato dal Recensore a p. 927. Ancora: «Domenico Laffi, autore nel 1589 della tragedia […], p.
928». A p. 125, n. 56, mio vol., si legge D. Laffi «nasce a Vedegheto […] il 3 agosto 1636» e nella n. 157: l’opera è stata pubblicata a «Bologna, Per gl’Eredi Pisarri, M.DC.LXXXIX».
Infine, il viaggio di Vasco da Gama in India avvenne nel 1498 e la Tragedia Inês de Castro di Luigi Bandozzi, composta per commemorare il quarto centenario di tale viaggio, è stata scritta nel 1898 e non nel 1915, come a p. 928 della recensione.
Salvatore Statello