• Non ci sono risultati.

Michele Zacchigna, Notai, cancellieri e ceto politico nell’Italia nord- nord-orientale fra Due e Quattrocento, Cura e introduzione di Paolo

Cammarosano, Trieste, CERM, 2017, pp. 196 (Studi, 15).

Pochi temi come il notariato hanno impegnato negli ultimi decenni la me-dievistica italiana, che ad esso si è approcciata da una molteplicità di prospet-tive, tanto paleografico-diplomatistiche quanto più rivolte a questioni di tipo politico-istituzionale (rapporto del ceto notarile con le istituzioni cittadine ed episcopali, loro inserimento nelle dinamiche politico-sociali locali, contributo dei notai alla definizione di un’ideologia comunale)1.

In un panorama storiografico così ricco i lavori di Michele Zacchigna si sono sempre segnalati non solo per il rigore metodologico, ma anche per la capacità di far dialogare lo studio del notariato con una più ampia riflessione sulla società

1. Scontato è il riferimento ai lavori di Attilio Bartoli Langeli, Gian Giacomo Fissore, Giorgio Chittolini, Antonella Rovere, Marino Zabbia, Enrico Artifoni. L’importanza degli studi di storia del notariato è testimoniata inoltre dal recente progetto Notariorum itinera, al cui sito web rimando per i riferimenti bibliografici: http://notariorumitinera.eu/Default.

aspx.

udinese e friulana negli ultimi secoli del medioevo. Nel decimo anniversario della scomparsa dello studioso il CERM ha ripubblicato alcuni suoi scritti dedicati al notariato e al suo rapporto con i ceti dirigenti del Friuli bassomedievale. Il volume raccoglie tre lavori, risalenti a periodi diversi della variegata produzione storiografica di Zacchigna: a un nucleo centrale rappresentato dal saggio sulle memorie di Quirino, notaio udinese del primo Quattrocento, si aggiungono due saggi più brevi dedicati a cancellieri e notai nella Trieste dei secoli XIV-XV.

I tre contributi, che poggiano su una vasta e solida base documentaria, rive-lano la profonda conoscenza del panorama archivistico friurive-lano propria dell’au-tore, oltre a un’attenzione costante per le dinamiche concrete del funzionamen-to delle istituzioni e della società. Attraverso il filo condutfunzionamen-tore del notariafunzionamen-to, il lettore può dunque confrontarsi con una pluralità di temi: di ambito politico-istituzionale (la ricostruzione del corpus notariorum di Udine e Trieste, il nesso con il ceto politico locale, la «territorialità» del notariato friulano); giuridico (limiti e implicazioni dell’intervento del notaio nella redazione degli instrumen-ta); economico e sociale (investimenti del ceto notarile e loro relazione con le dinamiche economiche del Friuli bassomedievale).

Il primo capitolo affronta il problema della dimensione territoriale del no-tariato nel Patriarcato di Aquileia, seguendo l’evoluzione dei centri di cultura e attività notarile a partire dal tardo Duecento. Le trasformazioni sociali del Friuli tardomedievale, le dinamiche demografiche e la struttura dei poteri locali si riflettono infatti nella distribuzione e formazione di notai sul territorio. All’i-niziale preminenza di Cividale segue nel Trecento l’emergere di un notariato rurale autoctono legato alla presenza signorile; ed è solo dal tardo XIV secolo che si assiste al «dissolvimento del notariato rurale» (p. 26) e alla definitiva af-fermazione di Udine quale polo di riferimento del notariato friulano. Una città che nel Duecento era per lo più popolata da notai provenienti dalla Lombardia e dalla Toscana, cui erano affidati gli uffici più prestigiosi (cancellarii domini patriar-che), vede dalla metà del Trecento l’affermazione di una componente autoctona di notai di origine artigiana e rurale, capace di soddisfare le esigenze documen-tarie di una popolazione in crescita. Fra gli anni Ottanta del Trecento e gli anni Venti del Quattrocento si riduce il divario fra le due componenti del notariato udinese, che tuttavia non riescono a dar vita a un corpo professionale omogeneo in grado di esercitare un peso politico nella vita urbana e di superare la distin-zione di fondo fra un gruppo dal profilo più elevato e un notariato “minore”.

È in quest’ultimo gruppo che si muove la figura del notaio Quirino, nato da una famiglia artigiana che, come molte altre nella seconda metà del Trecento, approda alla professione notarile a seguito di un consolidamento patrimoniale.

Capostipite di una dinastia di notai, Quirino fra il 1409 e il 1426 redige due quater-ni memoriarum di natura strettamente personale, in cui le note connesse alla gestio-ne del patrimonio si legano con le vicende familiari e l’attività professionale. Lo sguardo di Quirino non appare del tutto privo di una dimensione affettiva, leggibi-le fra leggibi-le righe del suo diario, ma è il risvolto economico a essere più evidente nella registrazione degli eventi legati alla vita familiare del notaio: i quattro matrimoni costituiscono per Quirino anzitutto un’opportunità per ampliare i propri interessi

fondiari; la nascita dei figli è segnata dal peso della discendenza femminile; la mor-te delle mogli mina il fragile equilibrio finanziario raggiunto.

I due diari però costituiscono soprattutto una memoria di eventi e vicissitudi-ni connesse all’attività professionale ed economica di Quirino fra Udine e la cam-pagna, secondo una ripartizione di interessi tipica del ceto notarile friulano, che pur residente in città non perde i legami con il mondo rurale. Quirino esercita la sua attività professionale a Udine, dove raggiunge una qualche visibilità grazie all’ufficio di cancellarius della confraternita dei Battuti, ma anche nel borgo rurale di Cussignacco. Analogamente i suoi investimenti si dividono fra la città, dove acquista immobili da locare a quella componente mobile della popolazione che caratterizza Udine nella fase di maggiore crescita, e la campagna verso Codroipo, dove si concentrano le sue risorse fondiarie. Le memorie di Quirino divengono allora per Zacchigna una fonte non solo per analizzare i beni del notaio, ma per esaminare la gestione dei patrimoni fondiari friulani nei primi decenni del Quat-trocento, le modalità di conduzione della terra, i rapporti di forza fra contadini e proprietari cittadini – i primi in una condizione di crescente fragilità economica e subordinazione, che consente ulteriori speculazioni da parte dei proprietari;

temi che già Michele Zacchigna aveva approfondito nelle sue precedenti ricerche.

A differenza di altri notai udinesi, Quirino resta per tutta la vita un notaio povero, segnato da una condizione di costante debolezza economica e sottoposto al concreto rischio di ricadere nell’indigenza ogniqualvolta si verifichino eventi imprevisti (nascita di figlie femmine, cause intentate dai clienti, morte delle con-sorti). Una marginalità economica cui, non sorprendentemente, si associa una costante marginalità politica: Quirino è sempre infatti del tutto estraneo al ceto dirigente locale e inserito in reti di relazioni limitate a «cognati, amici, vicini».

Solo dal 1417 le memorie di questo modesto notaio udinese superano l’otti-ca privata per aprirsi ai principali avvenimenti cittadini, nel contesto della guer-ra che porta tre anni dopo al dominio veneziano su Udine. Il diario acquista così per la prima volta qualche tratto di giudizio nei confronti del ceto dirigente locale e mostra, secondo Zacchigna, la volontà di partecipazione di Quirino agli eventi politici: emerge la consapevolezza del mutamento in corso, se non addirittura il «senso di scoramento» (p. 80) per la sconfitta cittadina e la fine del Patriarcato, che si svolgono parallelamente alla perdita di moglie e figli nell’epi-demia di peste e ai problemi finanziari e legali di Quirino, sui quali il notaio si sofferma in un tentativo di autodifesa della propria reputazione.

Proprio questa reputazione faticosamente costruita è l’oggetto del terzo capitolo, dedicato alle vicende del nipote di Quirino, con cui si conclude la parabola notarile familiare. La condotta di Odorico, condannato come falsario, offre a Zacchigna lo spunto per ulteriori raffinate riflessioni relative alla delicata attività di redazione degli instrumenta e alla bona fama del notaio, che si colloca all’incrocio fra la perizia tecnica e l’esperienza nell’interpretare le circostanze al fine di proporre una «affermazione nobilitata e “civile” delle intenzioni espresse dalla clientela» (p. 108).

Al di là del fallimento di Quirino e dei suoi eredi, esclusi da un’attiva par-tecipazione alla vita politica cittadina, nelle conclusioni Zacchigna delinea il

percorso di un notariato udinese incapace di acquisire un’influenza politica

“di gruppo”, sempre «disaggregato» (p. 115) e subalterno alla pluralità di poteri che convivono nella città (principe, gruppi aristocratici, famiglie preminenti di antica tradizione urbana). I notai udinesi di fine Tre e inizio Quattrocento rico-prono importanti incarichi diplomatici e uffici dagli elevati requisiti tecnici, ma non sono mai in grado di entrare a far parte di quel ceto dirigente che controlla la vita politica della città. Solo un nuovo gruppo notarile di immigrazione suc-cessiva alla conquista veneziana (1420) riuscirà – seppure lentamente – a inserirsi nel nascente patriziato di fine secolo.

Del tutto opposto è il quadro esaminato nell’ultimo saggio del volume, de-dicato al notariato nella Trieste dei primi decenni del secolo XIV. Qui un vero e proprio «patriziato degli officia» (p. 183) si sviluppa fin dall’inizio del Trecento a seguito di una fallita congiura nobiliare. La reazione alla stessa conduce infatti precocemente un ristretto gruppo di famiglie notarili a porsi a guardia delle ma-gistrature cittadine, il cui accesso regolano secondo un’attenta logica distributiva.

Marta Gravela

Ortensio Zecchino, L’origine del diritto in Federico II. Storia di un intrigo filologico. Atti della Accademia Nazionale dei Lincei CDIX, Roma, Scienze e Lettere, 2012, pp. 146 (Memorie.

Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Serie IX, XXX/2).

I manoscritti (persi, miracolosamente ritrovati, disperatamente cercati) sono spesso al centro della narrazione letteraria, sia quella ambientata nel Medioevo che quella al Medioevo solamente riferita. L’espediente del manoscritto ritrova-to e attualizzaritrova-to è alla base, com’è noritrova-to, dei Promessi sposi di Manzoni, mentre la ricerca spasmodica del fantomatico II libro della Poetica di Aristotele è al centro della catena di omicidi su cui è chiamato a far luce fra’ Guglielmo da Basker-ville ne Il nome della rosa di Umberto Eco. E più recentemente un manoscritto miniato della Biblioteca Mazarine di Parigi dà vita alla intrigante vicenda del ricercatore del CNR protagonista de Il segreto della miniatura di Renzo Limone.

Non un intero codice, ma addirittura le sole varianti di un’unica lezione costituiscono l’intrigante chiave mediante cui Ortensio Zecchino, docente di Storia del diritto medievale, ricostruisce non solo tutta un’atmosfera politica e culturale, ma soprattutto la concezione stessa del diritto, e quindi della vita e della storia dell’imperatore Federico II di Svevia. Niente di romanzato, natu-ralmente: anzi, un discorso scientificamente rigoroso e metodologicamente ag-giornato, condotto però con una prosa appassionata e scintillante, che rendono godibilissime le varie argomentazioni e attirano il lettore all’interno dello scon-tro militare certo, ma soprattutto politico e culturale, tra il nipote del Barbarossa e i pontefici (Gregorio IX in particolare).

Nella primavera estate del 1231 Federico II emana, dalla dieta di Melfi, il codice legislativo del regno di Sicilia, il Liber Constitutionum (noto anche come Costituzioni di Melfi). Diviso in tre libri, contiene alcune centinaia di norme, alcune dal sapore di grande novità. Papa Gregorio IX risponde in maniera assai addolorata: non c’è bisogno di léggi nuove, ma solo di applicare bene quelle già esistenti, ogni nuova legislazione è di per sé «scandalo».

Le aspettative di un titolo così accattivante sono pienamente soddisfatte dalla lettura del volumetto, che affronta argomenti di diritto medievale all’interno di problematiche strettamente filologiche, con profondità ermeneutica ma conte-stuale scioltezza espositiva. Si tratta di un testo breve (circa 130 pagine), diviso in tre parti, nelle quali lo studioso affronta la questione della tradizione del Liber Constitutionum.

Il Liber è, sin da subito, andato incontro alle alterazioni nella tradizione tipi-che della testualità giuridica, e già immediatamente al momento della diversifi-cazione tra il tempo di promulgazione e quello di entrata in vigore. Infatti dopo che le Constitutiones furono inviate in tutte le province del Regno, occorse, na-turalmente, del tempo per approntare le molte copie necessarie. In questa prima operazione iniziò la produzione di varianti che contribuiranno a fare del Liber un testo incerto e travagliato. A ciò si aggiunga un secondo elemento: Federico II, sull’esempio giustinianeo, integrò e rettificò più avanti il Liber con nuove norme, le nouae constitutiones o Nouellae. Tutto ciò contribuì a dare vita, oltre alla enorme varianza di lezioni, frutto di una trasmissione cosiddetta ‘attiva’, a quelle che possono essere considerate delle varianti in qualche modo ‘redazionali’: il che ha causato sostanzialmente il mancato consolidamento del Liber in quello che potrebbe essere considerato un testo ‘originale’.

Zecchino sottolinea bene la difficoltà, talvolta, di percorrere, nella edizione critica, la sola strada lachmanniana. Ed è del resto ben noto e metodologicamen-te correnmetodologicamen-te il fatto che, in taluni casi, la constitutio metodologicamen-textus non può essere sempre e solo meccanica, ma sono necessarie, e questo del Liber è un esempio emble-matico, conoscenze e competenze dei contenuti profondi del testo che devono aiutare l’editore nella scelta delle lezioni.

L’‘intrigo’ filologico al quale fa riferimento il sottotitolo (si tratta della Parte III del volumetto, pp. 318-321), parte dall’osservazione di tre differenti varianti attestate nella paradosis in un punto preciso (ma fondante) del Liber: I.38.1 De ordinatione magistri iustitiarii et eius officio:

…de nostro gremio noua iura producimus, presente nell’editio prin-ceps napoletana del 1475 curata da Francesco Del Tuppo (e nel codice Palermo, Biblioteca Comunale, QQ.H.24);

…de naturae gremio noua iura producimus, presente nella (scarsa) tra-dizione manoscritta superstite ed accolta dall’editore critico per i Monumenta Germaniae Historica del Liber (Constitutio-nes et Acta, II, Supplementum, Hannover 1996), Wolfgang Stürner;

…de ueterum gremio noua iura producimus, lectio singularis tramandata dal codice della Biblioteca Comunale di Palermo (2.QQ.A.66).

Si tratta di tre varianti che possono essere considerate, da un punto di vista strettamente filologico, adiafore (anche se la terza viene per vari motivi subito messa da parte). La adiaforicità - secondo metodo - mette qui il filologo di fron-te alla responsabilità di una scelta non meccanica ma da effettuare medianfron-te iudi-cium. Ed è qui che viene il colpo: «l’unica strada per giungere all’individuazione dell’originale è quella di approfondire i significati delle due lezioni e verificarne, successivamente la compatibilità col più ampio contesto letterale e, ancor più, storico e culturale» (p. 240).

In altre parole, laddove non può arrivare la meccanicità della ricostruzione ecdotica, o gli altri strumenti tradizionali a disposizione del filologo per la constitu-tio textus (usus scribendi, lecconstitu-tio difficilior, etc.), non riescono ad arrivare nemmeno le

‘semplici’ competenze di storico (sia pure di grande storico) di Wolfgang Stürner.

É necessaria, per un testo come le Constitutiones, anche – forse soprattutto – la competenza dello storico del diritto. Stürner sceglie, probabilmente perché lezione della maggior parte dei manoscritti da lui usati, la variante naturae (nel senso di di-ritto naturale?). A parere però di Zecchino, la lezione da preferire è quella de nostro gremio. Tale scelta infatti modifica in maniera totale il senso tutto dell’affermazione espressa dal testo: l’imperatore ritiene di sua stretta afferenza lo ius condendae legis, e la metafora del nostrum gremium configura in maniera plastica l’idea federiciana del sovrano come faber del diritto nel proprio Stato. In questo senso, peraltro, la lezione de naturae gremio non potrebbe spiegare lo ‘scandalo’ evocato da papa Gregorio IX (1227-1241) alla notizia della promulgazione delle Costituzioni; e l’accusa all’arci-vescovo di Capua, Giacomo, di aver funto da vile calamus scribentis di Federico che si accingeva all’odiosa operazione di fondare nova iura. Il gremium naturae, infatti, avrebbe inteso che le leggi sono ‘partorite’ dal grembo della natura, lasciando dun-que ancora al pontefice il ruolo di difensore del diritto naturale e divino.

E Zecchino riesce a individuare anche movente e cronologia di quella che a questo punto non può essere considerata una variante adiafora (naturae), ma una vera e propria corruttela volontaria. Sostituire naturae a nostro è spia di un interesse politico e ideologico ben preciso: cancellare ogni traccia di conflitto tra Regnum e Sede Apostolica. E una tale temperie culturale è tipica, in Italia meridionale, dell’età angioina, e soprattutto della prima età angioina. E non è un caso che tutti i più importanti testimoni manoscritti del Liber risalgano esattamente a questo periodo storico. La damnatio memoriae di Federico II pas-sa anche attraverso uno strumento filologico come l’errore volontario nella trascrizione di una sola parola di un testo (già Pietro Giannone diceva che i giuristi angioini avevano «malmenato» il testo della Costituzione).

E Zecchino prospetta ulteriori novità sulla costituzione del testo del Liber Constitutionum così come realizzata da Stürner, e sarà interessante seguirle al momento della pubblicazione.

Teofilo De Angelis

Choir Stalls in Architecture and Architecture in Choir Stalls, Edited by