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D A B ERLINO A G INEVRA : LA DISTENSIONE VISTA DA R OMA

Sommario: 1. Le reazioni italiane alla Conferenza di Berlino e alle nuove mosse sovietiche contro la ratifica della CED 2. Dal fallimento della CED all’istituzione dell’UEO: la posizione di Roma sul riarmo tedesco e sull’equilibrio di forze in Europa 3. Il governo italiano ratifica gli accordi di Parigi 4. Rapporti Est – Ovest e distensione: la posizione di Roma si consolida negli incontri al vertice 5. La conferenza di Ginevra e l’analisi dei diplomatici italiani sui rischi della “stabilizzazione distensiva”

Le reazioni italiane alla Conferenza di Berlino e alle nuove mosse sovietiche contro la ratifica della CED

La sessione ministeriale atlantica del dicembre 1953 si concluse con l’unanime convinzione che la politica sovietica non avesse affatto modificato i suoi obiettivi finali di conquista ma soltanto optato per un mantenimento dello status quo per il periodo necessario a risolvere le varie problematiche legate alle questioni interne, al rapporto con i Satelliti e al divario quantitativo del suo arsenale atomico nei confronti degli Stati Uniti. Partendo da simili premesse è più che mai lecito ritenere che gli Stati occidentali non pensassero sinceramente di poter risolvere in modo positivo neanche una delle questioni sul tavolo alla conferenza di Berlino, giudizio avvalorato oltretutto dalle dichiarazioni della maggior parte degli stessi rappresentanti occidentali. Essi infatti se da un lato non mancarono di evidenziare con soddisfazione il merito dei Paesi membri della NATO nell’aver convinto Mosca a partecipare al vertice, dall’altro sottolinearono ancor più energicamente che l’accettazione dei sovietici avrebbe potuto essere solo un’ulteriore mossa all’interno della più ampia strategia della distensione, che mirava ad affievolire i contrasti internazionali per alimentare le divisioni tra gli Stati del blocco avversario257.

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Soprattutto gli Stati Uniti non sembrarono mai nascondere il loro scetticismo sui possibili successi della conferenza, anzi Dulles parve manifestare una certa sicurezza proprio nel fallimento del vertice. Secondo alcuni studiosi, il fatto che la conferenza di Berlino fallisse non era visto da Dulles solo come una possibilità più che concreta, ma anche come un auspicio. Egli infatti avrebbe così ottenuto il risultato di mantenere la tensione ad alti livelli, cosa che a sua volta avrebbe rafforzato la compattezza della NATO, rinvigorito gli sforzi militari degli alleati, e soprattutto permesso la continuazione del principio base della politica

Nonostante simili rischi la conferenza di Berlino rimaneva comunque per l’Ovest – come dichiarato anche dal Presidente del Consiglio italiano Pella – la realizzazione di un desiderio da tempo espresso, ossia quello di incontrare direttamente i sovietici per spingerli a fare delle reali concessioni o a scoprire irrimediabilmente il proprio gioco.

Alla luce di tali considerazioni i governi occidentali si resero ben presto conto che uno dei principali problemi da affrontare sarebbe stato rappresentato dall’opinione pubblica dei loro stessi Paesi, trepidante per la convocazione di un simile incontro fin dalla prima apertura di Churchill258. Non a caso in un colloquio con Rossi Longhi il rappresentante francese Alphand dichiarò che a suo avviso la problematica principale per le potenze alleate sarebbe stata quella di preparare adeguatamente l’opinione pubblica occidentale affinché Mosca non potesse far cadere propagandisticamente su di esse la responsabilità di un insuccesso molto probabile259.

Alla vigilia del vertice di Berlino, come auspicato proprio dall’Italia260, venne convocata una riunione dei rappresentanti permanenti al Consiglio NATO per illustrare agli alleati le linee generali di condotta che i tre grandi avrebbero seguito davanti ai sovietici. L’esposizione, accolta con una sostanziale concordanza di vedute, si concentrava, per ciò che riguardava la Germania, nell’insistere sul principio delle libere elezioni come premessa alla costituzione di un governo unitario tedesco in grado di negoziare il trattato di pace; per quanto concerneva l’Austria sul principio della partecipazione dei rappresentanti di Vienna alle discussioni circa il definitivo assetto austriaco; in merito alla sicurezza europea sull’opposizione a probabili proposte russe di sistemi di garanzia basati su patti bilaterali tra Mosca e le altre nazioni europee presentate in sostituzione della CED e della NATO. Qualora le posizioni alleate e quelle sovietiche si fossero rivelate inconciliabili, Parigi, Londra e Washington avrebbero ripiegato sulla formulazione di una solenne dichiarazione in cui asserire che la Germania, vincolandosi alla Comunità Europea di Difesa, si assumeva l’impegno di non procedere ad alcuna azione di forza individuale261. Il punto di vista italiano, esposto già in parte dal Presidente del Consiglio alla sessione atlantica di dicembre, durante la quale Pella si era soffermato sulla questione tedesca e sulla necessità di continue consultazioni tra alleati prima e durante la conferenza, venne

americana verso la Germania, ossia quello di procedere al suo inserimento nel sistema occidentale non tanto in funzione antisovietica quanto piuttosto per controllarla direttamente. Kolko, J. e G., I limiti della potenza americana. Gli Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954 Einaudi, Torino, 1975, p. 871 e seg.

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Non a caso infatti la diplomazia italiana definì il discorso del Primo ministro britannico come creatore del “mito corrosivo” ASMAE A.P. URSS 1953 b. 1253 bis Documento della DGAP “Prima della Conferenza di Berlino” 22 gennaio 1954

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ASMAE T.s.n.d. n. 428 da Rossi Longhi a MAE, Parigi 13 gennaio 1954

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Vedi ad esempio l’intervento di Pella alla sessione atlantica di Parigi del dicembre 1953

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ribadito dall’ambasciatore Rossi Longhi dietro precise indicazioni del ministro Piccioni. Roma concordava perfettamente con la posizione francese sia sull’opportunità di non fissare alcuna data di chiusura della conferenza, sia sull’importanza di tenere costantemente informata l’opinione pubblica occidentale sulle reali intenzioni del Cremlino, avvertì inoltre gli altri membri del Patto Atlantico della possibilità che da parte sovietica venisse proposto un allargamento dell’incontro a tutti gli Stati interessati alla sicurezza europea: in tal caso gli occidentali non avrebbero dovuto assolutamente lasciarsi trovare impreparati262. Proprio la sicurezza europea si sarebbe dimostrata il reale banco di prova delle intenzioni sovietiche secondo la diplomazia italiana, che però mentre da una parte suggeriva di offrire a Mosca formule più ampie possibili di garanzie collettiva, purché compatibili naturalmente con le esigenze della Comunità atlantica ed europea, dall’altra invitava a mantenere su questo tema “un atteggiamento comune di grande prudenza. E’ infatti difficile sottrarsi all’impressione che l’URSS intenda restare potentemente armata e aggrappata a quanto possiede, tentando di indebolire la difesa dell’Occidente senza fare concessioni sostanziali; che essa voglia approfittare ulteriormente del miglioramento delle sue posizioni in Oriente mantenendosi sulla difensiva in Europa; che infine essa miri a [..] produrre un indebolimento dell’alleanza occidentale”263.

Più ferma apparve invece la posizione di Washington, secondo cui un orientamento del tutto originale da parte sovietica in merito alla sicurezza europea sarebbe stato da escludere, anche perché se si fosse dovuto “trattare su un nuovo pezzo di carta [sarebbe stato] meglio non farne niente”264.

La conferenza tra i quattro ministri degli esteri di Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si aprì ufficialmente a Berlino il 25 gennaio 1954 e fin dal primo

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Simili avvertimenti erano giunti a Roma da parte dell’ambasciatore Di Stefano, il quale in un suo rapporto prevedeva come più che possibile una tale mossa sovietica. L’ambasciatore statunitense Bohlen, invece, proprio durante una sua conversazione con Di Stefano, dichiarò di attendersi maggiormente una proposta del Cremlino mirante a ottenere un sistema di patti bilaterali di mutua assistenza con i diversi Paesi europei e facenti tutti capo a Mosca. ASMAE T.s.n.d. n. 842 Di Stefano a MAE, Mosca 23 gennaio 1954. In realtà, come si sarebbe appreso dalla proposta di Molotov del 10 febbraio, entrambe le previsioni non si rivelarono del tutto corrette anche se assolutamente esatto rimaneva il fine sovietico indicato da entrambi gli ambasciatori: “estromettere gli Stati Uniti dagli affari europei”.

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ASMAE T.s.n.d. n. 5/N da Piccioni a Rossi Longhi, Roma 28 gennaio 1954 e A.P. URSS 1953 b. 1253 bis Tel. n. 73/C da MAE a Rossi Longhi, Roma 19 gennaio 1954

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Evidentemente a Washington si temevano soprattutto nuove irrealizzabili proposte sovietiche miranti più ad alimentare fini propagandistici che a intavolare fruttuose conversazioni. Di natura del tutto diversa erano invece le principali preoccupazioni francesi, incentrate specialmente sul timore che gli ultimi “rallentamenti” da parte del Cremlino nella fase di preparazione della conferenza mal celassero l’obiettivo sovietico di prolungare indefinitamente tale fase di preparazione in modo da giungere a giugno senza aver ancora iniziato la conferenza, per portare la situazione “agli estremi limiti entro cui la corda della CED può ancora tendersi senza spezzarsi” ASMAE T.s.n.d. n. 509 da Quaroni a MAE, Parigi 15 gennaio 1954

intervento di Molotov, il quale proponeva un ordine del giorno che sostanzialmente rovesciava quello impostato dagli occidentali, ci si rese conto dei rischi che i tre alleati correvano: primo tra tutti ripetere gli errori di Palais Rose e perdersi in interminabili discussioni di tipo procedurale. Fu per questo che Dulles, Eden e Bidault, pur dichiarandosi in disaccordo con la proposta sovietica che poneva in primo piano l’esame delle misure da adottare per rimuovere la tensione internazionale e la convocazione di una conferenza a cinque con la Repubblica Popolare Cinese, relegando solo al secondo e al terzo punto il confronto sul problema tedesco, legato alla discussione dei mezzi atti a garantire la sicurezza di tutti gli Stati europei, e la questione del trattato di Stato austriaco, dimostrarono la loro buona volontà e accettarono l’ordine del giorno del ministro russo265. Proprio mentre nella capitale tedesca si decidevano i futuri sviluppi della distensione internazionale, l’Italia viveva una grave crisi interna generata da lotte di potere in seno alla DC, che determinarono le dimissioni del Presidente del Consiglio Pella266 e portarono al conseguente tentativo di Fanfani di formare un nuovo governo monocolore democristiano, il quale però non ottenne la fiducia del Parlamento e generò così una situazione ancora più instabile267.

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Tutti gli ambienti occidentali considerarono di grande importanza, soprattutto ai fini tattici, un simile atteggiamento dei tre, i quali “mediante un misto di fermezza e di condiscendenza” riuscirono “a evitare la preventiva e pericolosa battuta d’arresto sulle questioni di procedura e la non meno pericolosa discussione sulle questioni connesse con il punto I dell’ordine del giorno.” ASMAE A.P. URSS 1953 b. 1253 bis Tel. n. 1312/282 “Rapporto del Consolato Generale di Berlino sull’andamento della Conferenza”, Berlino 1 febbraio 1954

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I motivi del logoramento dei rapporti tra Pella e la segreteria del partito vennero individuati soprattutto nella politica nazionalista intrapresa dal Presidente del Consiglio durante la fase più acuta della crisi triestina (comportamento che allarmò soprattutto De Gasperi e Scelba) e nel tentativo, non certo velato, di trasformare il suo governo “d’affari” in un governo politico vero e proprio. Del resto gli equilibri interni alla DC stavano lentamente ma inesorabilmente mutando e la segreteria del partito aveva iniziato un graduale spostamento a sinistra, dove Fanfani aveva organizzato una nuova corrente chiamata “Iniziativa democratica”. Vedi ad esempio Kogan, N. Storia politica dell’Italia Repubblicana Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 89-90

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Nonostante la crisi governativa fosse stata provocata principalmente da motivazioni legate alla politica estera del Paese, ossia la questione giuliana, il discorso programmatico di Fanfani affrontò soprattutto problemi sociali ed economici relegando quelli relativi alla politica estera a margine, limitandosi a ribadire la fedeltà italiana alla comunità atlantica ed europea. A questo proposito va sottolineato che, a differenza del suo predecessore, Fanfani non dichiarò che la ratifica della CED sarebbe stata condizionata dalla soluzione del problema di Trieste, né che questa avrebbe agevolato la ratifica dei Trattati sulla Comunità Europea di Difesa, semplicemente si limitò a trattare i due problemi in maniera completamente separata.Naturalmente nel suo discorso al Parlamento Fanfani non mancò di esprimere la propria opinione anche in relazione alla conferenza dei quattro che si era aperta il giorno prima: “Si svolge a Berlino un incontro verso il quale convergono le preghiere e le speranze dei popoli. Il Governo è sicuro di interpretare le ansie e la volontà di tutto il popolo italiano nel formulare i suoi voti per il successo della conferenza di Berlino. Successo che non può evidentemente dipendere da una confusione di idee e di propositi, ma deve poggiarsi sulla possibilità di un onesto negoziato che peraltro non comporti rinuncia né agli ideali democratici né all’unità che costituiscono il patrimonio dell’Occidente. Per quanto ci riguarda, al conseguimento di detta unità intendiamo contribuire sempre più coscientemente.” Discorso di Fanfani al Parlamento, 26 gennaio 1954 in “Esteri” n. 2, 31 gennaio 1954, p. 25. Vedi anche “R.I.” n. 5, 30 gennaio 1954, p. 89-90

Le difficoltà italiane vennero interpretate, soprattutto dalle potenze alleate, in misura ancor più grave di quanto in realtà non fosse, facendo presagire un pericoloso spostamento degli equilibri verso sinistra. Specialmente da parte statunitense non si mancò di sottolineare l’instabilità del sistema parlamentare italiano e la difficoltà, uscito di scena un leader di grande carisma come De Gasperi, di tenere unite forze politiche tanto disparate. Particolarmente interessanti si rivelarono poi i collegamenti che gli esperti del Dipartimento di Stato e del Pentagono iniziarono a effettuare con la contemporanea conferenza di Berlino: infatti alcuni credevano che la crisi italiana sarebbe stata fortemente influenzata dai risultati del vertice in Germania poiché “finché esisterà in Europa l’illusione che Mosca abbia intenzione di rinunciare alla politica di espansione imperialistica seguita in questo dopoguerra, la coalizione di centro non potrà né rafforzarsi né allargare la sua base in modo da offrire una stabile maggioranza a un governo democratico.” Secondo altri, invece, sarebbe stata addirittura la stessa conferenza a essere messa a rischio dagli sviluppi della crisi italiana: infatti se l’Italia avesse continuato ad apparire così debole e divisa, avrebbe potuto spingere Mosca a non ricercare un accordo con gli occidentali ma a servirsi dell’Italia stessa come l’anello debole del blocco atlantico, da forzare per raggiungere i suoi obiettivi di sfaldamento della NATO e della CED268.

Fu lo stesso De Gasperi a intervenire contro l’esagerato allarmismo d’oltreoceano, ammettendo che il voto del 7 giugno aveva sì causato degli attriti tra i partiti democratici e per questo non si trovava una maggioranza stabile, ma che ciò non significava affatto che il Paese si sarebbe gettato “in braccio al comunismo” né tanto meno, per quanto spiacevole fosse, si trattava di una situazione relativa solo all’Italia269.

A rasserenare gli animi degli alleati, certo non completamente esenti da colpe nella difficile situazione italiana, basti pensare solo alla gestione del problema triestino, contribuì notevolmente la formazione del nuovo governo centrista presieduto da Mario Scelba, composto dagli “antichi alleati” democristiani, socialdemocratici e liberali, con

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“La crisi italiana preoccupa Eisenhower” in “La Stampa” 31 gennaio 1954. Tra i numerosi articoli allarmistici della stampa statunitense va segnalato soprattutto quello di Reston sul “New York Times” del 13 gennaio 1954, nel quale non solo si accusava il governo italiano di immobilismo economico e sociale nonché di incapacità di utilizzare i numerosi aiuti americani, ma si prospettava addirittura una revisione generale della politica degli Stati Uniti verso Roma, colpevole di mostrare una endemica debolezza nei confronti dei comunisti. Non va del resto dimenticato che i malumori statunitensi erano stati originati, come precedentemente osservato, già dall’esito elettorale del giugno 1953 e che nei mesi successivi non erano certo mancati messaggi particolarmente allarmistici dall’ambasciatore Luce sulla situazione italiana e addirittura su una possibile presa del potere da parte comunista attraverso i canali democratici. Su tutti FRUS 1952-1954, vol. VI, n. 753 “Memorandum by the Ambassador in Italy” Roma, 3 novembre 1953, p. 1631 e seg.

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l’appoggio esterno dei repubblicani e la netta opposizione socialcomunista contro “l’odiato” ex ministro degli interni.

Nonostante fosse interamente concentrata sulla grave crisi vissuta in quelle settimane dal governo italiano, la stampa nazionale non mancò di dedicare ampio spazio alle varie sedute della conferenza che si svolgeva a Berlino270: “La Stampa” ad esempio la apostrofò come “un’occasione da non perdere”, durante la quale, sebbene probabilmente non si sarebbe potuta raggiungere la soluzione del problema tedesco, si sarebbe comunque potuta migliorare la situazione internazionale attraverso particolari compromessi, come la prosecuzione delle già iniziate “conversazioni atomiche” tra Mosca e Washington o un avviamento di normali relazioni commerciali tra Est e Ovest271.

Fin dai primi confronti sulla questione tedesca i quattro ministri dimostrarono di non volersi allontanare dalle già note posizioni, avanzando gli occidentali un piano che prevedesse come primo passo libere elezioni in tutto il territorio, rifiutandolo i sovietici, non ancora pronti a correre un simile rischio: emergeva ancora una volta l’assoluta inconciliabilità dei diversi punti di vista.

In questa atmosfera piuttosto tesa il 10 febbraio il ministro Molotov propose contemporaneamente un progetto per la neutralizzazione della Germania e un trattato allo scopo di salvaguardare la pace in Europa, anche se il testo presentato lasciava pensare più a un piano volto a raggiungere la sicurezza del solo blocco orientale che a una concezione collettiva. L’accentuato tono contro l’Alleanza Atlantica e soprattutto contro la CED, che avrebbe sancito l’impossibilità di riunificare la Germania e di concludere con essa un trattato di pace, lasciavano d’altronde pochi dubbi sui reali obiettivi di Mosca: ottenere lo scioglimento del Patto Atlantico ma soprattutto contrastare la formazione della Comunità Europea di Difesa e il conseguente riarmo tedesco. Il ministro sovietico, sottolineando le difficoltà incontrate dai sei Paesi per ratificare la CED e le garanzie esclusivamente verbali offerte a Mosca qualora essa fosse stata effettivamente realizzata, proponeva il suo progetto come unica alternativa per uscire da una simile impasse e citava l’esempio del trattato inter-americano come esperienza da seguire anche in Europa.

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Potrebbe sembrare paradossale ma chi dedicò lo spazio maggiore alla riunione di Berlino, spesso con un articolo in prima pagina ogni giorno, fu la stampa cosiddetta d’opinione e non quella ufficiale dei partiti di sinistra (“Avanti!” ad esempio rilegò i resoconti della conferenza sempre in ultima pagina, eccezion fatta naturalmente per la proposta avanzata il 10 febbraio da Molotov di un trattato di sicurezza collettiva che si guadagnò la massima visibilità).

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“La Stampa” 24 gennaio 1954. L’articolo di Salvatorelli pubblicato alla vigilia delle conversazioni a quattro, in realtà non giudicava impossibile neanche un accordo sulla riunificazione tedesca, considerata un passo fondamentale verso la pacificazione fra i due blocchi, a patto però che Stati Uniti e Gran Bretagna si rendessero conto dell’indispensabilità, per raggiungere un simile successo, del concorso sovietico, che certo mai sarebbe potuto arrivare a favore di una Germania armata all’interno dello schieramento occidentale.

Il piano Molotov prevedeva in sostanza che le parti si sarebbero impegnate a non stipulare alcun accordo e a non aderire ad alcuna alleanza in contrasto con il trattato di sicurezza, l’art. 1 affermava inoltre che tale trattato era aperto a tutti i Paesi europei a prescindere dal loro sistema sociale. Esso avrebbe compreso perciò i due Stati tedeschi su un piano di parità escludendo però gli Stati Uniti (ai quali era offerta, al pari della Repubblica Popolare Cinese, un posto da osservatori), che avrebbero dovuto allontanare di conseguenza dall’Europa le proprie forze armate272.

Nessuno fu sorpreso, di fronte a tali condizioni, dell’energico rifiuto dei tre ministri occidentali, che apostrofarono frettolosamente la proposta sovietica come “una specie di moderna dottrina Monroe per l’Europa”273.

Analoghe reazioni negative vennero espresse immediatamente anche dal governo italiano, il quale continuava a ritenere la CED il mezzo più efficace per contribuire alla sicurezza europea, poiché essa avrebbe regolato una volta per tutte il problema del riarmo tedesco. Non vi erano infatti, secondo Roma, che due alternative alla realizzazione della Comunità Europea di Difesa: una avrebbe comportato la neutralizzazione della Germania, l’altra un suo riarmo unilaterale. La prima sembrava a dir poco di impossibile attuazione, la seconda avrebbe determinato la rinascita della tanto temuta Wehrmacht e una costante minaccia ai Paesi confinanti con il territorio tedesco. “L’integrazione militare prevista dalla CED [rappresentava] dunque il superamento dei contrasti fra i Paesi singoli, essendo la difesa

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