• Non ci sono risultati.

D AL TRIBUNALE AL P ARLAMENTO (1973-1975): LA COSTRUZIONE DEL “ CASO ABORTO ” COME “ AFFAIRE

DIFFUSO

.1 ―T U T TE VOL E VAN O T U T T O‖

Mentre la politica italiana sembra deliberatamente ignorare quel nodo fondamentale verso la modernità e la dignità dei cittadini rappresentato dalla richiesta di una revisione completa della legislazione sul corpo delle donne che si è resa evidente a seguito del processo Pierobon, loro – le donne- prima di ogni riconoscimento giuridico, i diritti che chiedono decidono con urgenza di ―metterli in pratica‖. E questo avviene non solo attraverso le manifestazioni di piazza, che pure sono momento determinante che apre i confini tematici del discorso politico e moltiplica gli attori sulla scena (e l‘aborto è il primo tema ―delle donne‖ che le piazze le riempie davvero), ma anche attraverso ragionamenti e cambiamenti che avvengono internamente al movimento delle donne. A partire dalla metà del decennio – attorno al 1974- si assiste alla diffusione e trasformazione di molti gruppi, nati sulla scia del sessantotto e che avevano diffuso la pratica dell‘autocoscienza, in gruppi denominati ―di self help‖, che combinano ora l‘analisi sul ―sé‖ alla scoperta del corpo e alla pratica dell‘aborto con modalità di autogestione. Scrive in proposito Eleonora Cirant:

―La lotta contro l'aborto clandestino, è stata una lotta a tutto campo, di certo non liquidabile con l'idea di rivendicare e ottenere un "diritto". Parlare pubblicamente di aborto ha significato innanzitutto una radicale messa in discussione della sessualità e dei rapporti tra uomo e donna, nel personale e nel politico (…). Parlare pubblicamente di aborto ha portato con sé anche la reinvenzione del pubblico, la costruzione di nuove istituzioni dal basso, attraverso l'apertura dei consultori autogestiti, dei centri di medicina delle donne e delle cliniche in cui si effettuavano gli aborti con il nuovo metodo dell'aspirazione importato dalla Francia. Ha significato tutto questo insieme, perché, in quegli anni, ―tutte volevano tutto‖244.

119

Se da un lato la forza di volontà delle donne ―fa accadere le cose‖ e permette loro di ―prendersi i luoghi‖ (le piazze) e –a dispetto di una legge che ancora non c‘è- di appropriarsi di una ―pratica‖ che ―salva loro la vita‖, dall‘altro però tutto questo si svolge nel perdurante silenzio della politica dei partiti, ad eccezione delle azioni pubbliche dei radicali, unici a tentare di aprire un dibattito che, dopo il ―fallimento‖ del caso Pierobon, sembra non riuscire a trovare nessun reale punto di visibilità e di forza verso le istituzioni. Nel febbraio del 1975 finalmente la svolta arriva: una sentenza della Corte Costituzionale, la n.27, dichiara incostituzionali gli articoli del Codice Rocco che riguardano la ―pena di aborto‖ e obbliga tutti gli attori del discorso ad un nuovo ragionamento. I partiti sono chiamati ad una forzata ―discesa in campo‖: sull‘aborto ora bisogna decidere.

.2. LA VE RIT À C ONTR O L A L E G G E

Nel 1973 i giudici di Padova avevano fatto di tutto affinché il processo contro Gigliola Pierobon rimanesse un unicum irripetibile, circoscritto alla vicenda di una singola persona -caso estremo, eccezionale ed eccezionalmente sfortunato. In ogni modo era stato impedito agli avvocati difensori di utilizzare procedure innovative, portare a conoscenza della società civile la realtà di tantissime altre donne che in Gigliola si riconoscevano perché come lei costrette a trasgredire la legge. Fu un processo d‘altri tempi quello che si svolse a Padova, senza contraddittorio, né interrogazione diretta dell‘imputata, come era allora la prassi del processo penale245 (―volevano farmi dire che avevo visto il diavolo‖, ripeterà spesso la Pierobon). Ed esemplare fu anche la sentenza: attraverso la desueta formula del ―perdono giudiziale‖ i giudici, con un atto di magnanimità, cancellavano la pena, lasciando tuttavia intatta la ―colpa‖, sancita dal codice penale. Anche la stampa – sia locale che nazionale- che aveva mostrato se non altro curiosità per il caso, a due settimane dai fatti aveva lasciato la presa e nessun quotidiano faceva più cenno alla vicenda.

Dal punto di vista del movimento femminista, se il processo era stato difficile da controllare, la gestione del ―dopo processo‖ si rivelava ora un ―problema‖ ancora più spinoso. Il processo Pierobon aveva avuto il merito di essere il primo ―evento‖ gestito dalle donne come fatto politico, momento apicale per un

245 M. De Cecco, Storia dello Stato italiano dall'Unita a oggi, Roma, Donzelli, 1995.

120

movimento246 che era appena nato e in particolare per Lotta Femminista, il gruppo che aveva fatto propria la causa di Gigliola e la sosteneva nel difficile percorso pubblico di denuncia. Tuttavia, ciò che avvenne, a procedimento concluso, fu il rivelarsi di un‘insanabile frattura tra le due anime che fin dall‘inizio avevano convissuto all‘interno del movimento, cioè quella che puntava verso un‘attività politica basata sul confronto-scontro con le istituzioni e col sociale e quella che assumerà invece, nel tempo, posizioni sempre più critiche verso azioni politiche orientate all‘esterno. A rendere problematiche le cose, anche il fortissimo impatto emotivo che ebbe la lunga e difficile costruzione e ―gestazione‖ del caso sulle singole vite di chi vi aveva lavorato: ―Fu il momento più alto. Dopo niente fu più come prima. Ci dividemmo‖, scrive Sandra Busatta attivista di Lotta femminista247.

―… in quest‘occasione del processo abbiamo fatto una fatica enorme a far percepire alle altre donne che quello era –comunque- un argomento grossissimo per tutto il movimento (…). Mi ricordo una riunione (…) gente ne era venuta tanta (…) e pareva proprio che se ne fregassero, che considerassero questa cosa (il sostegno al processo) come una ―pensata pubblicitaria‖ di Lotta Femminista (…) che noi volessimo ―cavalcare la tigre‖ (…) e ho poi il ricordo -fisico quasi- di quando a Padova le milanesi che ci criticavano erano però venute a manifestare per Gigliola intorno al tribunale (…) allora mi sono proprio inferocita, perché durante il viaggio di ritorno avevano detto: ―Ah, ma allora questa è una cosa grossa, è una cosa che è arrivata sui giornali‖248.

La proposta della difesa, che aveva tentato di trasformare il caso nell‘affaire Pierobon, non aveva fatto breccia né sui giudici, né sulla stampa: presso l‘opinione pubblica non solo non si era riusciti a porre la questione ―aborto‖ all‘ordine del giorno, ma nemmeno a sollecitare un dibattito sulla validità giuridica di leggi come questa, infrante pubblicamente da migliaia di persone ogni giorno. Un tema che andava al di là della questione in sé e che- in quel momento- vedeva riflettere attivamente quasi soltanto un partito, il partito radicale.

Tuttavia, se lo si considera all‘interno del contesto italiano di quel momento - un settantatre ―caldo‖ sotto molti aspetti, economico, politico e soprattutto sociale – e dell‘ancor più peculiare contesto veneto, in cui andavano maturando tensioni e situazioni che avrebbero segnato profondamente gli anni successivi- è possibile

246 E‘ sempre un problema usare le parole correttamente, in particolare la parola ―movimento‖ perché non è mai chiaro se si indica uno specifico gruppo o in generale l‘insieme dei gruppi femministi che caratterizzano la scena sociale negli anni settanta. In questo caso si intende quell‘embrione di movimento femminista che ―sostiene‖ nel 1973 la causa di Gigliola, in particolare il gruppo di Lotta Femminista.

247 Testimonianza di Franca Busatta in A.M. Zanetti, Le ragazze di ieri, Marsilio, Venezia, 2000, p.98.

248 A. R. Calabrò - L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso ricerca e documentazione nell'area lombarda, Milano, FrancoAngeli, 1985, p. 280.

121

notare come il ―caso Pierobon‖ abbia rappresentato comunque un forte elemento di rottura, una breccia nell‘immobilismo politico e nei vecchi e stereotipati modi di affrontare pubblicamente la questione femminile, quel ―corpo riproduttivo delle donne‖ del quale – esclusi gli approfondimenti e le analisi dei gruppi femministi- non si riusciva sostanzialmente a dire nulla di sensato. L‘irrompere, anche se per poco tempo, sulla scena mediatica del ―caso‖ contribuisce in modo decisivo a far sì che, tra il 1975 e il 1978, il tema aborto entri nell‘agenda politica dei partiti249. Dal momento in cui finisce del processo ci vorranno due anni ancora per giungere ad una svolta, due anni di maturazione non solo e non tanto del movimento delle donne, che comunque attraverso il caso Pierobon aveva compiuto un percorso di maturazione significativo, ma soprattutto della società civile e della classe politica.

La data del 1975 è unanimemente indicata come ―nuovo inizio‖ del discorso sul corpo delle donne; è in quell‘anno che l‘affaire mancato nel 1973 ritorna a farsi dispositivo di costruzione di uno spazio pubblico del dialogo su di esso, non in un‘aula di tribunale questa volta, ma nell‘aula del Parlamento, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale che costringe la classe politica e le istituzioni a reagire. Si tratta di un ―fatto di legge‖ che diventa vero e proprio punto di svolta e che non avrebbe potuto verificarsi se la storia di Gigliola Pierobon fosse rimasta, come tante altre, segreta, se l‘orrore della sua storia di clandestinità non avesse colpito in qualcuno le corde profonde dell‘indignazione. Il ―processo di rottura‖ teorizzato da Vergés rispecchia alcune delle caratteristiche già note dell‘affaire volteriano, riproducendo il tipico meccanismo di capovolgimento per cui è la legge, e non più l‘imputato- ad essere sotto accusa. Scrive Vergés:

―Nessuna Verità con la maiuscola può realmente emergere da un processo, poiché più importante dei fatti è sempre l‘uomo e quell‘uomo sfugge alle lenti offuscate dei nostri giudici, alla logica binaria degli interrogatori‖250.

Può tuttavia capitare che, se anche l‘affaire non si compie appieno nel momento del processo, se fallisce cioè la costruzione di un sapere ampio intorno al fatto in questione, un certo tipo di cambiamento comunque si produca. Il perché lo spiega lo stesso Vergés, rispondendo alla domanda di un giornalista: se l‘ex presidente americano George Bush fosse ipoteticamente messo sotto processo, gli

249 E. Baeri, Il protagonismo femminile negli anni settanta, in

http://www.societadellestoriche.it/allegati/all_1142591538_marzo_2006.pdf 250 J. Vergés, Strategia del processo politico, p. 53.

122

viene chiesto, si potrebbe parlare in quel caso di ―processo di rottura? Risponde l‘avvocato:

―Se questo processo avesse luogo non sarebbe un vero processo di rottura, poiché l‘azione dell‘imputato corrisponde al sentire dell‘intero Occidente‖251.

E‘ possibile quindi trovarsi di fronte ad un caso che provoca una ―rottura‖, cioè pone le basi per un cambiamento anche se esso non ha le caratteristiche codificate dell‘affaire (e vice-versa, un affaire può avere luogo in un ambiente che è già di per sé favorevole e quindi non essere decisivo sostanzialmente per il cambiamento di visione e di giudizio su quel tipo di problema). Alla luce di questo, è chiaro che l‘affaire Chevalier non ha prodotto una vera e propria ―rottura‖ rispetto al ―sentire sociale‖, ma ha piuttosto sancito un‘avvenuta maturazione, una continuità di idee che vedeva già legate la società civile, l‘opinione pubblica, i giudici e la difesa, a dimostrazione di un‘esigenza collettiva di cambiamento che ormai era pronta a realizzarsi. Viceversa, il caso italiano insiste su un terreno del tutto nuovo: il processo si muove in uno scenario ostile, in forte contrasto rispetto al sistema di valori condiviso e rispetto all‘ordine istituzionale vigente, mantenendo sempre una corrispondenza inversa rispetto al sentire della società e dei giudici, rimanendo fino all‘ultimo non in linea con il sentire dell‘Opinione Pubblica (con la maiuscola, cioè l‘opinione del potere, della classe dirigente che i media e la stampa soprattutto veicolano verso la massa dei lettori formandone il sentire comune)252. In questo suo porsi trasversalmente al ―sapere di senso comune‖, il caso Pierobon rappresenta un forte elemento ―di rottura‖ per l‘Italia degli anni settanta rispetto alla concezione dei diritti e delle relazioni tra i sessi. Anche se la sentenza di Padova non assolve l‘imputata, anche se il caso cade nel dimenticatoio senza suscitare l‘indignazione che dovrebbe. La sentenza di perdono giudiziale con cui si conclude il processo non lascia d‘altronde spazio a qualsivoglia forma di continuazione del ragionamento nell‘immediato.

Le fratture provocate dal caso all‘interno dello stesso movimento femminista -anche quelle- necessitano di un certo tempo per essere metabolizzate, sanate, trasformate. L‘affaire si compie quindi non nello spazio del processo, ma nel tempo lungo del dibattito politico che segue. Come sostiene Vergés, se si è voluto trattare

251 Intervista a Jacques Vergès di Frédéric Franck, Spoleto 10 luglio 2009, in

http://www.festivaldispoleto.com/2009/interno.asp?id=55&id_dettaglio=449.

252 G. Bechelloni, Cultura e ideologia nella nuova sinistra materiali per un inventario della cultura politica delle riviste del dissenso marxista degli anni Sessanta, Milano, Edizioni di Comunita, 1973, p. 418-420.

123

come ―materia penale‖ quella che invece è per prima cosa una ―questione politica‖, alla fine sarà in ambito politico che dovrà essere risolta253. E‘ infatti in quella sede che si riesce a ricreare -anche se in minima parte- la condizione in cui a Bobigny era stata messa Marie- Claire: non sotto la lente del giudizio, ma protagonista di una atto d‘accusa verso la società, verso la politica, verso la legge.

Nel contesto italiano, senza l‘apporto di media capaci di suscitare intorno al caso interesse vero e non solo curiosità, e senza una stampa nazionale disposta ad assumere l‘onere dell‘informazione, le dinamiche di diffusione del sentimento di immedesimazione/indignazione non hanno luogo, non funzionano in modo generalizzato. Pochi conoscono il caso al di fuori della ristretta cerchia delle donne che sostengono la causa e al di fuori di alcuni partiti, come quello radicale, impegnato fin dall‘inizio del decennio n254ella battaglia per i diritti civili. La parola inascoltata delle donne che reclamano attenzione e ascolto non riesce a varcare il muro del palazzo di giustizia di Padova e pur tuttavia, riesce ad essere dalle stesse donne mantenuta viva e a dilatarsi nello spazio temporale di un quinquennio, consegnando la sua indignazione al tempo lento della politica attraverso un percorso che si potrebbe definire di ―affaire diffuso‖255 e che si concretizza due anni dopo – nel 1975- con un‘altra sentenza, quella della Corte Costituzionale.

.3 OPIN ION E PU B B L IC A E OPIN ION E P U BB L IC A

Il concetto di opinione pubblica (con la minuscola) porta con sé storicamente sia il significato di ―ciò che pensa la gente‖ -misurabile empiricamente ad esempio attraverso un sondaggio- sia un significato più ―narrativo‖ di ―esternazione di un‘opinione riassuntiva di tutte le opinioni da parte di qualcuno che ne ha facoltà‖ - un ―uomo di stampa‖ ad esempio256, in questo caso definibile come Opinione Pubblica (con la maiuscola). Se questo secondo significato appare più descrivibile (è possibile cioè individuare con relativa facilità il ―portatore di opinione‖, chi lo manda e a chi si rivolge, per dirla con parole semplici), nel primo caso non è invece

253 J. Vergés, Strategia del processo politico, cit., p. 86; G. Bechelloni, Cultura e ideologia nella nuova sinistra, cit., p.420. 254 Il concetto di ―resistenza fino a che le cose non cambiano‖: è ciò che caratterizza l‘imputato-tipo di Vergés, che resiste fino a che non si rovescia la scena ed è il concetto che sottende alla riuscita degli obbiettivi dei movimenti, che resistono nel loro ―essere contro il sistema‖ fino a che il loro ordine delle cose non fa breccia ( G. Bechelloni, Cultura e ideologia nella nuova sinistra, cit. p. 418).

255 La similitudine è con il concetto di ―femminismo diffuso‖ (cfr: Dal movimento femminista al femminismo diffuso, cit.)

256 E. Landowski, L‟opinione pubblica e i suoi portavoce, in La società riflessa, Saggi di socio-semiotica, Roma, Meltemi, 1999, p.86-103.

124

semplice arrivare a conoscere veramente ―cosa pensa la gente‖, difficoltà così profonda da indurre a considerare valida l‘opinione di Pierre Bordieu, secondo il quale ―l‘opinione pubblica non esiste‖, cioè a dire che non è possibile dare una risposta univoca alla domanda ―che cosa pensa la gente‖, poiché, se anche viene ricercato l‘appoggio dei dati empirici raccolti attraverso i sondaggi per rispondere con relativa precisione alla domanda, la fedeltà ai dati non è per definizione fedeltà alla realtà257..

Per definire il concetto che più interessa in questo contesto, cioè quello di Opinione Pubblica, intesa come ―portatrice dell‘opinione del potere‖ e come ―traduttrice di quell‘opinione presso la gente/la massa‖, si può utilizzare la proficua metafora che fornisce il teatro antico: se la scena è occupata da chi è al potere e gli attori sono gli attori del teatro della politica, l‘Opinione Pubblica interpreta allora la funzione di coro, cioè di chi giudica, contrappunta, interpreta, traduce a favore di quell‘elemento terzo rappresentato dal ―pubblico‖, dalla gente che assiste. Scena (potere, cioè partiti di governo), coro (mediatore, interprete, cioè stampa e media), pubblico (ricettore passivo, cioè gli spettatori, la società civile) sono quindi i tre elementi da considerare.

Di questi, il coro non solo ha la funzione di spiegare/tradurre per il pubblico cosa avviene sulla scena ma, con commenti e osservazioni, ha la possibilità di influenzare gli attori, modificando addirittura il loro comportamento su quella scena. Il coro è dunque elemento di cerniera abilitato ad imporre la sua lettura dei fatti (e quindi indurre l‘opinione del pubblico) e anche a suggerire un pensiero o un comportamento al potere258. Il coro/stampa non è quindi solo un portavoce che informa e produce narrazione trasparente259 e il rischio di questa posizione di cerniera, è che esso possa essere vice-versa indotto dalla scena del potere a riprodurre per il pubblico solo ciò che si vuole sia riprodotto. E‘ il caso di un‘informazione di parte, lottizzata, schierata, con il chiaro obbiettivo di indurre presso il pubblico una certa visione delle cose e non un‘altra. Riportando questo meccanismo al concreto della relazione potere politico/stampa/società civile, ed in più inserendola nel contesto italiano degli anni settanta rispetto al tema dell‘aborto, vediamo chiaramente come sulla scena si collochino i partiti di governo e come il

257 P. Bordieu, L'opinione pubblica non esiste, in A. Boschetti (a cura di), La rivoluzione simbolica di Pierre Bordieu, Venezia, Marsilio Editore, 2003, p. 154-173.

258 L‘esempio che porta Landowski è il seguente: ―Il ministro della Giustizia dichiara di essere contro la pena di morte e tuttavia di essere conscio che è necessario mantenerla in vigore poiché l‘opinione pubblica è favorevole ad essa‖ (E. Landowski, L‟opinione pubblica e i suoi portavoce, cit., p. 35).

125

coro sia rappresentato da ―portavoce della scena‖. Stampa e media hanno il compito non tanto di informare ma di formare su questo argomento il pensiero della gente260.

In questa filiera di passaggi, il pubblico ha la parte del recettore passivo e quindi ―quel che pensa la gente‖ non è noto261 e ancor di più se l‘argomento è ―la vita quotidiana e i diritti delle donne‖, non ancora istituzionalmente né politicamente ―legittimato‖ ad essere oggetto di discussione da parte della ―scena del potere‖e quindi non interessante per la costruzione di opinione da parte del coro/stampa da somministrare al pubblico/società civile, non è rilevante che il pubblico abbia su di esso un‘opinione e -in caso l‘avesse- non è rilevante per il potere che questa sia nota.

Il tema ―corpo delle donne‖ – ormai non più ignorabile- viene dunque lasciato galleggiare nella vasta area della cosiddetta ―opinione non pubblica‖, cioè di quell‘insieme di sapere che, per diverse ragioni, non entra a far parte dell‘Opinione Pubblica ufficialmente sostenuta; pur costituendo tema di interesse per la società civile, di fatto esso non compare sulla scena e non è commentato dal coro, entra a far parte solo delle discussioni che avvengono nelle aree più marginali dello spazio pubblico del discorso. Per analizzare questo terreno tematico che ancora sfugge alla categorie interpretative di scena/coro/pubblico usate fino ad ora, si può tentare di considerare il sistema della produzione/trasmissione del ―sapere‖ su un certo argomento come scomponibile in ―attori in campo‖ cioè in ―chi pensa/dice cosa‖, individuando in questo modo attori che non sono ancora nella cerchia di interesse della ―scena‖, come ad esempio le donne e i giovani, due categorie di osservazione della società degli anni settanta che impongono fermamente di considerare (tutto il) quotidiano come parte determinante del racconto e della sua interpretazione (è il concetto di ―quotidianizzazione della storia‖ come esigenza di non scartare nulla, di considerare tutto importante262) e che costringe a leggere le macro-questioni sociali come ―intreccio di storie personali inscindibili dai singole vicende dei corpi di ognuno‖. E se i corpi sono quelli delle donne, sono loro le uniche a parlare in

Documenti correlati