Nel 1918 viene rappresentata per la prima volta l’opera teatrale che segnerà l’apice del successo di Rosso di San Secondo, ovvero Marionette, che passione!. La grande fortuna, tanto di critica quanto di pubblico, di questo testo durante la fine degli anni Dieci e la prima metà degli anni Venti contribuisce a mettere fin da subito in evidenza una categoria molto particolare dei personaggi di Rosso, categoria che risulterà emblematica nella sua carriera tanto di drammaturgo quanto di scrittore in prosa e che troverà numerose e diverse declinazioni, in particolare in questi stessi anni della sua giovinezza. I personaggi che si muovono sulla scena sono in realtà dei simboli, delle astrazioni, marionette di legno che si muovono a scatti e che tuttavia risultano «nati da una vitalità sincera e sentita», venendo ad essere, pur nella loro forma di meri simboli, un’efficace rappresentazione di quella compagnia di “sbandati”, di «naufraghi della vita» che popola le pagine sansecondiane. Avvinghiati dal «malessere troppo impacciante della loro coscienza» come dagli invisibili fili di vuoti fantocci, non riescono a trovare pace per il proprio animo, tormentati da «leggi sardoniche e ironiche» e soprattutto dal peso dei propri sentimenti, che restano nel loro
petto «come ingombri che non possono andare né in su né in giù».1 Nel precedente capitolo
si è già avuto modo di vedere come l’invenzione che porta Rosso a trionfare sui palcoscenici di tutta Europa abbia in realtà avuto una sua origine nella breve novella Acquerugiola, che già abbozza tanto le figure dei personaggi quanto l’ambientazione dell’ufficio postale in cui si svolge la malinconica vicenda. In queste pagine Rosso attribuisce loro vari nomi: gli «sperduti nel mondo», i «senza-casa», i «vagabondi», gli «spostati», gli «stravaganti», i «randagi della vita», «anime fiacche»; tutti appellativi che riconducono ad una medesima matrice, quella di personaggi estranei al vivere comune, isolati dalla società umana e, soprattutto, in preda a un costante «stato di sperdimento, di
1
F.TOZZI, «Marionette, che passione!», «Giornale del Mattino», 26 maggio 1918, ora in ID., Pagine critiche, Pisa, Ets, 1993, pp. 199-200.
solitudine, di angoscia» che Ruggero Jacobbi, accostandosi alla terminologia hegeliana, definisce con il termine di «alienazione».2
Rosso ci narra come nella maggior parte dei casi in queste figure domini un senso di rassegnazione al proprio destino, ma la sua attenzione di narratore preferisce concentrarsi, sia in questa novella sia nel resto della sua produzione, su quei casi “anomali” in cui essi, nel bene o nel male, trovano la forza di agire in prima persona, o per cercare di uscire dal proprio carcere oppure, fallendo, per sprofondare ancora di più. I numerosi testi sansecondiani ci presentano varie “gradazioni” di questa tipologia di personaggi ed Acquerugiola sembra porsi sui gradini più bassi, intessendo una vicenda che lo stesso narratore non esita a definire estremamente «degradante», ovvero caratterizzata dall’abbandono di quella «veste di esterna dignità» che conferisce almeno l’apparenza della normalità per sprofondare con una «facilità raccapricciante» in una penosa spirale discensiva: la disperazione li spinge infine a cercare conforto nella compagnia dei propri simili, ma l’io narrante, appartenendo allo loro stessa «specie», sa che si tratta di un grave errore che potrà portare solo ulteriore dolore ed odio per se stessi e per gli altri, se non anche sconfinare nella tragedia. Nelle ultime righe della novella Rosso ci propone inoltre, per bocca dell’anonimo io narrante, una precisa definizione dei cosiddetti «stravaganti», ovvero coloro che «avendo perduto la norma schietta in cui si compone armoniosamente la
vita della maggioranza, affidano la loro esistenza all’arbitrio».3 Difficile non riconoscere in
queste parole diversi altri protagonisti della narrativa sansecondiana, i quali per Sipala vanno a costituire una tipologia di personaggio degna di essere collocata «nell’album delle grandi famiglie della letteratura otto-novecentesca» al fianco dei vinti di Verga, degli inetti di Svevo, degli indifferenti di Moravia, degli stranieri di Camus.4 Tramite l’indagine su questo tipo di caratteri, Rosso tende a «portarsi sui bordi estremi dell’alterità ove si incontra l’anomalia, della passione che deborda in spasimo e mancanza, della diversità che sovverte il convenzionale (...), del conosciuto verso un altrove», mentre la sua scrittura si appropria di un «timbro particolare: il suo è un abitare lo spostamento, la soglia, pronto a condurre i propri passi scrittori nello spazio dell’insolito, del destino, del discontinuo,
2 R.J
ACOBBI, Introduzione a P.M.ROSSO DI SAN SECONDO, Teatro, vol. 2, a c. di R. Jacobbi, Roma, Bulzoni, 1975, p. 12.
3 P.M.R
OSSO DI SAN SECONDO, Acquerugiola, in ID., Ponentino, cit., p. 46.
4
P.M.SIPALA, Appunti sulla narrativa di Rosso di San Secondo, in Borgese, Rosso di San Secondo, Savarese. Atti dei convegni di studio, a c. di P.M. Sipala, Roma, Bulzoni, 1993, p. 270.
privilegiando la temporalità del momento (il presente) e la sospensione semantica e simbolica degli oggetti».5
Verso la fine degli anni Dieci notiamo un mutamento sempre più netto nella narrativa di Rosso che, come si è già avuto modo di osservare, si sposta dall’ambito lirico-elegiaco all’adozione di strutture narrative più convenzionali. In merito a questo, e a come di conseguenza cambi il modo di atteggiarsi dei personaggi sansecondiani, Adriano Tilgher in un articolo del ’22 arriva peraltro alla conclusione che essi in realtà «non sono mai caratteri, ma proiezioni lirico-simboliche di momenti dell’animo del poeta. Le vicende che corrono fra loro non sono mai intrecci e situazioni, nè mai pretendono di essere presi alla lettera, ma sempre mirando a qualcosa che è al di là della loro esteriorità e materialità». Di conseguenza, «sotto un’apparenza narrativa l’arte di Rosso è sempre essenzialmente astratta e lirica».6
Il caso più emblematico di personaggio che risponde alle sopracitate caratteristiche tipiche dell’universo degli «stravaganti» è quello dell’io narrante de La fuga, il romanzo d’esordio e non a caso quello di maggior successo di Rosso, ed in cui la critica a lui contemporanea ebbe a individuare grandi potenzialità. Le Elegie e le brevi novelle di Ponentino sembrano essere una prova generale per il tema del narratore tormentato, vagabondo, distaccato dalla società del suo tempo e insieme colmo di un’amara ironia che talvolta lo sostiene e talvolta non risulta essere altro che un ennesimo fardello. Il ritratto di quest’anonimo personaggio che emerge dai primi capitoli rientra infatti pienamente nei termini posti da Acquerugiola, presentandoci una figura la cui esistenza sembra svolgersi su un piano di realtà diverso rispetto a quella della gente comune, un uomo dallo «spirito insoddisfatto, sempre teso verso plaghe ignote, sempre tormentato dalla ricerca vana d’un significato nelle cose vuote e scintillanti».7 Il girovagare nelle deserte strade notturne, l’avere come unico “confidente” e compagno un gatto, l’essere scisso tra una volontà di isolamento e la necessità invece di «sfiorare il gomito alla umanità che passa»: tutto ciò delinea fin da subito la peculiarità del protagonista, anticipando di conseguenza l’anomalo svolgersi del romanzo stesso, che di tale peculiarità è emanazione e compimento. Egli stesso si definisce «strambo», ed allo stesso tempo è contento di non essere dall’altra parte
5 F.D
I LEGAMI, Un viandante della notte, cit., p. 12.
6 A.T
ILGHER, Rosso di San Secondo e il superamento del dramma borghese, cit., p. 60.
7
A.MOMIGLIANO, «La fuga» di Rosso di San Secondo, in «Giornale d’Italia», 26 maggio 1927, ora in ID., Impressioni di un lettore contemporaneo, Milano, Mondadori, 1928, p. 225.
della barricata, ovvero un «saggio», poiché «per i primi forse c’è il rimedio, ché possono a furia di cure guarire, ma qual rimedio per i saggi?».8 Di fatto il romanzo si sviluppa in piena coerenza con questa premessa, tanto che lo spunto che dà avvio alla vicenda vera e propria è un casuale incontro con degli sconosciuti, riprendendo quindi il motivo dell’arbitrio che secondo il narratore di Acquerugiola costituisce la principale forza motrice dell’esistenza degli «stravaganti»: «Eh via, imboccatene una, non credo che la vostra sorte cambierà per questo!»,9 dice egli ai signori Stürm subito prima di intessere un ironico monologo interiore sulla possibilità che esista un mondo in cui ogni minima scelta conduca a grandi cambiamenti nella propria vita. Rispettando la strutturazione ciclica del romanzo, una situazione analoga si ritrova nel finale, in cui un altro incontro improvviso e inaspettato sconvolge nuovamente la vita del protagonista. Basta un solo sguardo a Pepita e alla sua gente che il passato viene immediatamente abbandonato, gettato dalla finestra assieme alle monete, all’orologio, all’anello nuziale. È per lui una reazione istintiva, inseguendo un richiamo atavico, e allo stesso tempo una volontà di lasciarsi trascinare via, in una virata repentina in cui «si riconosce il timbro di illogica instabilità e di psicologia anarcoide tipico
dei personaggi sansecondiani».10
L’aspetto più evidente della personalità del narratore di questo romanzo è pertanto quello che si esprime nel titolo stesso, ovvero quella tendenza irrefrenabile a spostarsi da un luogo fisico ad un altro in cerca di una possibilità di “salvezza” o di cambiamento che egli condivide, come si è avuto modo di vedere nel capitolo precedente, con molti altri personaggi sansecondiani (per tacere della biografia del suo autore). La “fuga” quindi non costituisce solo un espediente (di cambiamento, da parte dei personaggi) o uno strumento narrativo da parte di Rosso, ma giunge ad essere elemento costitutivo di loro stessi, a caratterizzarli, in quella che Sipala definisce «un’esigenza esistenziale»11 e che secondo
Barsotti tende a configurarsi come una vera e propria «categoria psicologica»,12 sintomo e
allo stesso tempo conseguenza della loro situazione interiore.
La fuga è anche il luogo, come si è avuto modo di vedere nel capitolo precedente, entro cui si articola la tematica della contrapposizione tra quelle che sono considerate due diverse, ed opposte, categorie antropologiche, gli uomini del Sud e quelli del Nord. Buona parte dei
8 P.M.R
OSSO DI SAN SECONDO, La fuga, cit., p. 40.
9 Ivi, p. 39. 10 A.B
ARSOTTI, Rosso di San Secondo, cit., p. 42.
11
P.M.SIPALA, Appunti sulla narrativa di Rosso di San Secondo, cit., p. 268.
personaggi sansecondiani si ritrova infatti a dover lottare con le caratteristiche che questa dicotomia mette a confronto, personaggi che appaiono come figli della loro terra, di un retaggio culturale, ma soprattutto sociale ed umano che sembra condizionarli, creare delle figure fisse. Il Nord vede l’uomo che «sublima le pulsioni grazie ad una programmazione coerente dell’esistenza», vede ergersi «la Mente, l’Animo virile e prometeico che lotta per domare la Natura e trasformarla in Salute», mentre dall’altro lato c’è il Corpo, che vaga in
una «notturna mescolanza (...) tra buio angoscioso e solarità consolatoria».13 Calendoli
ritiene che il richiamo esercitato dal Nord, con i suoi ambienti e i tratti caratteriali dei suoi abitanti, su Rosso si spieghi come una «attrazione misteriosa ed in parte indecifrabile di un contrario simbolico, opponendosi al quale egli cerca di fissare la propria sfuggente identità
di uomo del Sud governato irrazionalmente dall’istinto»,14 mentre lo stesso Rosso,
intervenendo in prima persona sulla questione della classificazione in questo senso dei suoi personaggi nel già citato Esodio a Una cosa di carne, precisa: «Ordunque non sono i miei «nordici» gli uomini del Nord propriamente: sono, piuttosto quelli che, in ogni paese, in ogni contrada, credettero l’albergo della vita uno stabile palazzo fabbricato per i loro comodi di pingui proprietari, e, con pedantesca presunzione, pensarono di sottomettere ed assoggettare lo spirito umano alle teorie più convenienti alle loro materialistiche vedute (...) Ma di tali uomini – non v’è chi non lo veda – traboccano anche le apriche contrade del Sud;
mentre il vero Nord si riscatta in una moltetudine di anime sospirose d’azzurro e di sole».15
Nonostante la critica sembri accordare la predilezione all’anonimo protagonista del romanzo del 1917, un analogo percorso di abbandono della terra natale era già stato affrontato nelle Elegie a Maryke. Sebbene il timbro dei due testi risulti differente (lirico ed, appunto, elegiaco, il primo; ironico e a suo modo più realistico il secondo) è facile instaurare uno stretto rapporto tra i due personaggi. In primis è sostanzialmente impossibile vederli distinti dal loro autore: a partire dalla già citata evocazione autobiografica del viaggio olandese e dalla pregressa situazione di disagio che probabilmente li accompagna da tempo all’inizio della loro vicenda, non si può non vedere in essi l’ombra di Rosso di San Secondo. I testi, dal canto loro, non fanno nessuno sforzo per nasconderlo: entrambi i
13 P.P
UPPA, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, in La letteratura italiana, vol. 9 – Il Novecento – Tomo II, Milano, Garzanti, 1987, p. 772.
14 G.C
ALENDOLI, La formazione culturale di Rosso di San Secondo, in Rosso di San Secondo nella cultura italiana del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, p. 15.
15 Citato in F.F
protagonisti non hanno un nome (elemento che sembra porli su un piano differente da tutti gli altri personaggi, quasi si configurassero come un tramite tra il mondo “reale” – e di rimando anche il lettore – e quello della finzione narrativa) ed entrambi non hanno un vero e proprio passato, dei trascorsi che li caratterizzino come personaggi “a sé stanti”. L’io delle Elegie sembra nascere sulla stessa spiaggia in cui prende avvio la narrazione, incapace di ricordare come sia giunto fin lì; quello de La fuga ricorda solo un’esistenza precedente pressocchè vuota, in cui vaga come un sonnambulo perennemente inappagato e senza alcuno scopo. Se il primo sembra vivere in una «culla», confortato dalla presenza salvifica dell’amata fino alla separazione finale, il secondo compie, o meglio, cerca di compiere, un percorso di crescita. All’apparenza perciò il testo parrebbe configurarsi come un Bildungsroman, ma nella parte finale del romanzo diventa chiaro che non c’è stata una vera e propria Bildung, e che probabilmente il suo verificarsi non è mai stato effettivamente possibile. Il protagonista non trova la risposta definitiva che stava cercando e tutto ciò che viene narrato si configura piuttosto come una tappa tra le tante di un percorso di vita che è probabilmente destinato a rimanere irrequieto e vagabondo ancora a lungo.
Nelle vicende di entrambi gli io narranti persiste un continuo senso di abbandono, di rassegnazione (oppure, chissà, di effettiva volontà) a lasciarsi trascinare via come da un’onda (non a caso l’immagine del mare è ricorrente nella geografia sansecondiana). Il cantore di Maryke lascia che la propria anima malata venga curata dalla fanciulla e dall’ambiente naturale che li circonda, il “fuggiasco” romano in ben due occasioni si lascia trasportare via da un luogo all’altro dagli stranieri appena incontrati. Da un lato quindi il movimento della loro fuga sembra originarsi dal loro stesso disagio interiore, dall’altro persiste la necessità di lasciarsi guidare, di trovare una sorta di punto fermo, una possibilità di guarigione, non importa se ciò significa cambiare strada per tre volte nel giro di pochi mesi, inseguendo prima gli Stürm, poi Brunilde Trymer ed infine Pepita (ma è la conclusione solo del romanzo, non del percorso esistenziale che vi si inquadra).
Nel romanzo successivo, La morsa (pubblicato nel 1918),16 lo schema dei personaggi
inizia a mutare, presentandoci per la prima volta all’interno di una narrazione lunga un protagonista con una propria identità stabilita e, di conseguenza, un nome, Dionisio Solchi. Da notare che si tratta anche dell’ultimo protagonista maschile dei romanzi di questi anni in quanto, come vedremo, l’interesse di Rosso si sposterà in seguito sulle figure femminili, le
quali andranno ad animare la sua produzione da La mia esistenza d’acquario a La donna che può capire, capisca. La struttura della narrazione, rispecchiando questo cambiamento, risulta pertanto assai dissimile da quella delle Elegie e dalla Fuga, adottando una visuale in terza persona con narratore onnisciente ed eliminando ogni apparato lirico ed intimistico. A differenza dei suoi predecessori, Dionisio risulta essere fin dalle primissime pagine del testo un personaggio “concreto”, con suoi precisi trascorsi e un contesto sociale ben definito. Vengono presentati quindi i suoi legami (quei legami che sostanzialmente mancavano agli io narranti dei primi libri di Rosso di San Secondo, i quali possono “fuggire” senza – almeno all’apparenza – lasciarsi alcunché alle spalle) ovvero la sua famiglia (nella persona della sorella che vive assieme a lui) e la sua professione. Questi elementi sembrerebbero porre Dionisio lontano dalla famiglia degli «stravaganti», ma l’introduzione ci presenta subito un elemento discordante che, non a caso, viene addirittura esplicitato sulla targa del suo studio: «Dott. Dionisio Solchi / medico-chirurgo / Consultazioni: dalle 6 alle 8 antimeridiane e dalle 8 alle 9 pomeridiane. / Così che il passante (...) non poteva fare a meno di riflettere che il dottore o era tanto occupato durante la giornata da non aver più bisogno di clienti, o era invece il tipo più strano del mondo se pretendeva che questi si levassero alle quattro del mattino per giungere a casa sua alle sei, oppure venissero per consulto la sera quando ordinariamente ci si veste per andare a teatro».17 Si vede quindi fin dall’inizio Dionisio “rompere” con le consuetudini imposte dalla società, rifiutando, anche solo per una questione minore e tuttavia significativa, di adeguarsi ad un modello a lui estraneo: «Se mi vogliono, si levino presto, oppure rinunzino al teatro. Io, per conto mio, mi levo presto e non vado a teatro». Le sue giornate si concentrano solo sulle sue ricerche, non lasciano alcuno spazio per altri interessi, almeno fino alla comparsa di Dorina. Anche quest’ultima si configura come una sorta di stacco rispetto alla figura completamente salvifica di Maryke o a quella costruita solo su immagini positive di Liesbeth. Distinguendo un percorso almeno in parte inedito, in questo caso sarà proprio Dorina la causa principale della “morsa” in cui si trova stretto Dionisio e che provocherà quindi la sua fuga al Nord. Il romanzo descrive un itinerario di evoluzione dei due protagonisti, poiché entrambi all’inizio della vicenda sembrano dimorare in una sorta di limbo, di non-vita, destinato a spezzarsi nel momento del loro incontro. La sera in cui Dionisio accorre a casa di lei per curare la figlia malata viene considerata da Dorina come
17 P.M.R
il momento di una nuova nascita per la bambina («Mi pare che mi sia nata adesso, la nostra bimba!»),18 ma in realtà la donna proietta sulla figlia quello che è accaduto a lei, essendo giunta, assieme a Dionisio, a una “rinascita”, a partire dalla quale le cose le appariranno sotto un’altra luce. Non si tratta, inoltre, di un mutamento relativo solo alla loro interiorità, ma anche di una rottura dell’ordine e della stabilità delle relazioni sociali, essendo la donna già sposata. «Così, alle prestabilite leggi morali, il sospiro di Dorina, che sempre più lo avvolgeva, consacrato dalla testimonianza della piccola inferma presente, contrapponeva un altro ritmo morale colto nei rapporti di colore e di profumo tra le rose bianche rosse gialle del giardino, e il verde delle foglioline, le campanule turchine pendule nell’aria tremante contro il turchino del cielo, e i toni cangianti dei calici teneramente innamorati
dell’opale venato all’orizzonte». 19 Ricorrendo (come spesso accade in Rosso) a
emblematiche immagini naturali, Dionisio esprime già un senso di contrasto tra le «leggi» e le convenzioni che tendono ad incatenarlo ed un mondo più libero e puro.
Dionisio e Dorina emergono pertanto come da un bozzolo, assaporando sensazioni mai provate prima, l’uno sempre chiuso nel suo studio e l’altra trattata come una bambola ibseniana dal marito. A una “nascita” di questo tipo non può che seguire una fase di transizione prima di raggiungere quella sorta di “maturità” che si determina infatti solo nei capitoli finali del romanzo. Di conseguenza, nella prima parte abbondano i riferimenti all’infanzia e le raffigurazioni dei due amanti come «due bimbi sperduti che si siano
ritrovati per le vie del mondo»20 o come «due monelli felici».21 In particolare tali immagini
sono riferite a Dorina, la cui condotta all’inizio della loro relazione ha spesso connotati egoistici infantili («Ella s’era alzata e stringeva i pugni, batteva i piedi, come una bambina