• Non ci sono risultati.

Dal caos al cosmo

Nel documento Simboli della fine (pagine 59-73)

P

roprio la presenza di lacerazioni sempre più dolenti e marcate, che attraversano uno stesso mondo frammentato in comunità diverse entro la

societas globale, chiama a sé la necessità,

espressa da autori come Edgar Morin, di ristabilire, nell’universo tecnologico e gra- zie a esso, la relazione simbolica uomo- cosmo1. L’opera di Kiefer costituisce an-

che un responsabile richiamo al significato cosmico dell’esistenza. L’acosmismo è una colpa dell’uomo che è modernamente scaduto quanto a mitopoiesi simbolica. Il cosmo risulta per parte sua indifferente a questa caduta. La scommessa – come già si diceva – diviene così una, terribile,

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

assoluta, e del tutto poietica e artistica: o si apprende a simbolizzare in un modo nuovo o la partita è perduta per sempre. E nessuno, ma davvero nessuno –  oltre a noi – è davvero interessato ai suoi esiti e ai nostri destini2. I simboli odierni della

confusione simbolica che nutrono l’imma- ginario antiutopico sono dunque simboli della fine del tempo, come fine del nostro tempo, storicamente e non solo. La fine della natura è, a ben vedere, la fine della nostra natura, quella con cui stabiliamo una relazione di interazione e dipendenza. La qualità simbolica espressa dalla natura dipende dalla sua interazione con la spe- cie umana, mentre di per sé la sua vita è indipendente da questa interazione. Esi- ste dunque, come già si ricordava all’ini- zio, una natura indifferente dopo e prima della nostra natura, che reca entro di sé le proprie potenzialità simboliche, memo- ria di un’arte primigenia, insita nell’evo- luzione della vita – come ci ha ricordato

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

Winfried Menninghaus3 –, che ci precede

e ci farà seguito. Quelle che chiamiamo fine del tempo e devastazione della natura sono preoccupazioni e angosce antropi- che: il genitivo oggettivo rivela in realtà il buio che sta calando su di noi. Le de- terminazioni universali mettono in campo una catastrofe cosmica che è di fatto sol- tanto o perlopiù umana. Sono determina- zioni oggettivistiche di un tempo della fine che riguardano noi, e noi soltanto. Espri- mono l’angoscia (ma potrebbero anche generare la speranza) di un tempo nuovo che può riguardare noi e noi soltanto. O nessun soggetto più. Ma per modificare l’atteggiamento e così il corso delle cose, bisogna uscire dal solipsismo e rinunciare all’eredità cancerosa di un umanesimo che ha guardato all’uomo come al centro asso- luto, attingendo nuovamente allo schema mitopoietico e inventivo sotteso a ogni tecnologia ben al di là dei suoi destini per- versi.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

C’è dunque molto di vero nell’idea diffusa che ne vada del cosmo e non di noi soltanto. Tutto questo si connette alla necessità, lasciata emergere prima, di curvare il tempo, di produrne un as- setto non lineare ma, per così dire, tran- sitivo, che consenta di recuperare lo scompenso attraverso un modello di- verso di simbolizzazione. Questa cur- vatura del tempo – sulla quale Kiefer insiste – è l’indice essenziale della ne- cessità cui l’arte risponde: quella di risi- tuare l’uomo nel flusso delle narrazioni che lo stanno disperdendo, di riassegnar- gli simbolicamente un luogo nel cosmo. Di tutto questo Kiefer è quanto mai con- sapevole, come testimoniano opere quali

Das Geviert (fig. 5), ispirate a Martin

Heidegger, a quella quadratura che tiene insieme il cielo e la terra, i divini e gli umani, creando e circoscrivendo lo spa- zio al quale siamo assegnati grazie all’in- tersecarsi di riferimenti cosmici. In quanto

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

l’arte risponde a questa necessità di rico- smizzazione, essa costituisce nuovamente il centro classico, il fulcro di una cultura. L’arte ci persuade inoltre del fatto che la responsabilità storica è una responsabi- lità cosmica. Si può forse camminare così con minori preoccupazioni sulle macerie del passato, sull’immane, rovinoso disa- stro evocato da Walter Benjamin nelle

Tesi di filosofia della storia, e diventare

più consapevoli della metafora dell’An- gelo: sospinto da un vento avverso egli attraversa un panorama di rovine e vuole probabilmente guidarci al di là del tempo conosciuto, in direzione di una salvezza cosmica inedita che sarà più patrimonio della specie umana che del cosmo stesso. Torniamo così alla questione dell’iden- tità. Si tratta di assegnare il luogo; e tutto questo dipende da un’elaborazione crea- tiva e mitopoietica che induca a elaborare progetti a breve scadenza, simboli dome- stici – come l’arte di Banksy – che spin-

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

gano a rivolgere a terra uno sguardo ormai terrorizzato da un mondo ideale troppo caratterizzato da un’inafferrabile trascen- denza. È la fine degli universali.

Note

1 Cfr. E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano, Cortina, 2015.

2 È un tema sul quale si sofferma tra l’altro il bestseller di Alan Weismann, Il mondo senza di noi, Torino, Einaudi, 2008.

3 Cfr. W. Menninghaus, La promessa della Bel- lezza, Palermo, Aesthetica, 2013, cap. V, pp. 187- 193.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

VII.

Rovine

S

iamo dunque paradossalmente, di nuovo, in ascolto del fascino delle ro- vine. Rovine tardo-moderne, neppure tanto melanconiche. Rovine catafratte o ro- vine come catacresi del senso. Per un verso l’immenso bulimico commercio con il pas- sato in imago produce reperti erratici, cita- zioni che attraversano la pubblicità e la moda quasi naufraghe in un mare magnum nel quale hanno scarsissime possibilità di essere riconosciute per quello che davvero sono. Si pensi per esempio alla famosa frase conte- nuta nella Prefazione di Così parlò Zarathu-

stra: «Bisogna avere ancora un caos dentro di

sé per partorire una stella danzante», finita su innumerevoli t-shirt in un’estate catalana.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

Difficile davvero dire se decontestualiz- zare in questo modo sia il male assoluto. Si tratta a questo proposito di decidere se sia- no in gioco detriti o rovine, e cioè fram- menti ancora dotati di un indice di senso che invitano a lavorare nuovamente su di loro. In quest’ultimo caso, volendo varcare un po’ avventurosamente la soglia, avremmo un’immensa occasione di nuove possibili simbolizzazioni. Per riprendere l’insegna- mento di Ricœur in La metafora viva, si trat- terebbe di decidere se abbiamo ancora a che fare con una «metafora viva», cioè con invenzioni linguistiche che si sono aperte a significazioni nuove. È un’ipotesi che non va scartata. Più in generale, abbiamo forse dinanzi a noi un’enorme, ambigua occa- sione di risemantizzare macerie immense di sensi passati e trasfigurati dalle immagini che costituiscono un ambiente culturale e una sorta di nuovo humus vitale. Potrebbe trattarsi di una possibilità, forse ironica, di curvare il tempo seguendo l’indicazione

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

di Kiefer. La dimensione romantica delle rovine si estenderebbe così a un cosmo di nuove rovine tardo-moderne.

Ma non sono solo le tradizioni a cam- biare e a modificarsi a seconda dei loro

media. Dobbiamo fare anche, drammatica-

mente, i conti, ben lo sappiamo, con una nuova iconoclastia. È quanto ci ricorda Salvatore Settis in Cieli d’Europa1. Quella

iconoclasta – rammenta Settis – è una pul- sione antichissima inscritta nella tradizione ebraica, nel cristianesimo orientale, nelle forme più radicali della Riforma, per venire sino a oggi. Prescindendo dai vincoli teolo- gici che dettano un orientamento di questo genere, si può riconoscere all’iconoclastia, quando non si trasforma in furia devastante, una sorta di funzione fisiologica. Da una parte, spazzando il campo dai lasciti del passato, essa prepara l’avvento del nuovo: le rovine predispongono il terreno a nuovi edi- fici, hanno un valore funzionale proprio nel loro aspetto malinconico. Dall’altra, bisogna

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

riconoscere che, dinanzi al consumo buli- mico di immagini che la contemporaneità ci impone, siamo tutti obbligati a una sorta di igiene iconoclasta. L’oblio è d’obbligo, come insegna il Nietzsche della seconda Conside-

razione inattuale, quando l’immaginazione

viene sovrastata da lasciti sovrabbondanti. Bisogna aggiungere, come Settis ci ram- menta, che l’iconoclastia, insita nelle tre religioni del libro (ebraismo, islam e cri- stianesimo), non è mai assoluta e conosce notevoli eccezioni. In ogni caso, per venire alla storia recente, essa è spesso incline, come testimonia l’abbattimento delle sta- tue di Mussolini, di Stalin o di Saddam Hussein, a evocare la potenza ormai venuta meno di un dittatore decaduto per aprire il cammino a nuovi simboli e valori. Ben di- versamente vanno le cose quando si tratta di opere d’arte. Lo testimonia il caso dei Buddha di Bamiyan, i quali, quasi a dar se- guito al loro tragico destino, hanno visto

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

amplificarsi la loro fama dopo la loro di- struzione con la dinamite.

Quello che è in gioco quando si parla di iconofilia e di iconoclastia è la nostra re- lazione con la memoria culturale: il vero e proprio fondamento della nostra identità. Siamo per larga parte fatti di ciò che ricor- diamo. E di ciò che dimentichiamo. La me- moria si determina via via coniugando pre- senze e assenze. Il Rinascimento – come rammenta ancora Settis – è l’esempio eminente di tutto questo. L’obsolescenza dell’antico è la condizione della sua ripresa in un momento inaugurale del mondo mo- derno. La tradizione occidentale assume così un andamento ritmico e per altro fisiologico: le interruzioni consentono il prodursi del nuovo. Il rinnovarsi della tradizione produce nuove identità nel reiterato paragone con l’antico. Un’iconoclastia moderata va dun- que ritenuta normale, in quanto orienta lo strutturarsi fisiologico della tradizione.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

È la nuova iconoclastia a preoccupare Settis più di ogni altra cosa. E non si tratta solo del terrorismo, i cui attacchi criminali e feroci insanguinano il nostro ubiquo pre- sente in ogni parte del mondo. Abbiamo in realtà a che fare con un terrorismo anche più sottile: si tratta di una logica del mer- cato, perversa, che misura tutto sul parame- tro della performance economica, dimentica di ciò che accende o spegne l’esistenza dei singoli. In questo quadro le opere belle non vengono considerate produzioni umane do- tate di un valore universale, bensì qualcosa di superfluo che può essere distrutto nel nome di una logica performante che tutto invade: la bellezza si adatta a diventare un

brand succube delle leggi del mercato. Que-

sto fa dimenticare che la bellezza è in realtà un principio fondamentale dell’ethos pub- blico. La tutela della bellezza è un principio di democrazia, di eguaglianza tra cittadini che sono tutti parimenti responsabili del pa- trimonio che è stato loro affidato. La bel-

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

lezza in questo senso può diventare princi- pio quanto mai influente di un nuovo ethos inclusivo e condiviso sotto i Cieli d’Europa. Una nuova, laica, democratica religione della bellezza si presenta in questo contesto come principio influente dell’integrazione culturale anche dei migranti. Abbiamo in- fatti a che fare con un patrimonio della memoria che solo in quanto plastico può essere condiviso. La bellezza è d’altronde indissolubilmente connessa alla creatività, e quest’ultima al legittimo desiderio di fe- licità, intesa come eudaimonía, come senso della realizzazione di sé stessi. Come ricor- dava Paul Klee, la sola vera funzionalità è la vita, e non c’è economia che possa crescere desertificando l’esistenza dei singoli e quella delle comunità. In breve, solo una logica mitopoietica potrebbe essere, paradossal- mente, davvero performativa; o meglio, per dirla con Paul Klee, è la vita il modello della più alta funzionalità.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

Note

1 Cfr. S. Settis, Cieli d’Europa. Cultura, creati- vità, uguaglianza, Milano, Utet, 2017, in partico- lare, per quanto riguarda i temi dell’iconofilia e dell’iconoclastia, pp. 11-36.

copyright © 2018 by

Società editrice il Mulino,

Bologna

VIII.

Nel documento Simboli della fine (pagine 59-73)

Documenti correlati