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4.2 L’ambizione rivoluzionaria

4.2.1 Dall’oppressione alla libertà: la rivoluzione simbolica

Il collettivo della libreria di Milano non limita la questione della libertà alla riflessione sui modi possibili in cui liberarsi dalla condizione di oppressione. Non è tanto la liberazione da quanto la libertà di che interessa queste femministe. La libertà è interpretata come facoltà e capacità di fondare nuove forme di associazione politica, diverse e indipendenti da quelle esistenti. In questo progetto rivoluzionario la differenza sessuale rappresenta la possibilità del nuovo, perché è nella differenza e non nella contrapposizione all’esistente, né nel deside- rio di rivalsa all’interno del mondo dato, che può nascere una donna libera.

Le donne milanesi, come abbiamo visto, rilevano come all’inizio del loro percorso femminista sia accentuato “il tema dell’oppressione femminile e come, per contro, non vi si esprima un pensiero rivolto alla realtà se non per quello che riguarda lo stato di subordina- zione dei confronti dell’uomo” (NCD 36). Questa enfasi del ruolo di vittime è stato il risul- tato – oltre che, ovviamente, dell’oppressione di genere esistente - della pratica dell’autocoscienza che, come abbiamo detto, “va bene ma non basta” (NCD 39), perché, nelle parole delle milanesi, “ci rende consapevoli, ma non ci dà in mano strumenti, non ci fa sviluppare un potere contrattuale nella trasformazione del sociale, ma solo consapevo- lezza e rabbia” (ibid.). La pratica dell’autocoscienza è una “pratica politica a termine” per- ché se “aveva tolto la differenza di essere donna dalla posizione di essere detta, l’aveva messa nella posizione di parlare da sé” (ibid.), non produceva però strumenti politici di li- bertà legati al mondo e alla realtà. Questa procedura rendeva uguali tutte le donne, metten- do spesso tutte sullo stesso livello di miseria e impediva l’emergere delle loro differenti progettualità di vita e delle possibilità reali di modificare il mondo a loro vantaggio. In que- sto modo veniva negata l’esistenza al sesso femminile – esisteva solo una “situazione fem- minile”, con la quale nessuna si identificava veramente. Racconta il collettivo che:

“Vinceva l’immagine della donna oppressa; i rapporti liberi fra donne non avevano fi- gura sociale; era perpetuata la miseria del sesso femminile. Naturalmente era la rappre- sentazione astratta ad essere misera. Nella realtà le donne si differenziavano con pro-

getti, desideri, bisogni molto diversi. Si riferivano l’una all’altra con modalità svariate, non riducibili alla reciproca identificazione, si regolavano di conseguenza, si definiva- no fuori dalla rappresentazione astratta, si riconoscevano fra loro per essere donne mute, scriventi, analfabete, passive, ambiziose.” (NCD 74,75)

“Quello che mancava è un’alternativa all’icona della donna come vittima” (FAF 142), sinte- tizza Zerilli. Il femminismo, avvolto e schiacciato dalle dinamiche del vittimismo, tendeva a cadere dunque nella logica del risarcimento non perché tutte si sentissero perennemente oppresse, ma perché mancava un simbolo di libertà femminile. Era assente un’autorizzazione simbolica del desiderio femminile che perciò si sentiva in permesso di emergere solo nella sua forma negativa. Le milanesi si sono allora decise per un “lavoro po- litico al simbolico”, perché ciò che mancava al femminismo italiano non era l’esperienza di libertà, ma la sua rappresentazione simbolica. A causa di questa mancanza, l’esperienza di libertà risultava sempre oltre il raggiungibile e non poteva essere utilizzata come risorsa per innovazioni future. La rappresentazione simbolica è centrale per evitare che vengano de- scritti i problemi di una categoria di donne –quelle più svantaggiate – e presentati come ti- pici della situazione di tutte.

”Nel simbolico femminile subalterno dire l’oppressione sofferta era dire l’essenziale del sesso femminile” (NDC 119), “non donne in carne e ossa, desideranti e giudicanti, ma figure del sesso femminile oppresso e come tali giustificatrici del femminile tutto”(NCD 120), e questo andava modificato, perché aveva un effetto immobilizzante e limitante e non portava alla liberazione delle donne. Si è scelto perciò di impegnarsi per una “necessaria modificazione simbolica” che consisteva nel “privilegiare, rispetto alle critiche e alle accuse verso la società, per quanto fondate, la rappresentazione della libertà femminile” (NCD 124). Questa necessità si trae da lunghi anni di esperienza di lotta che hanno dimostrato che “se l’esperienza femminile non si traduce in forme sociali libere, questo si deve al fatto che le donne entrano nella società senza avere né l’idea né il modo di esserci con la forza della propria sessualità. Vi entrano come un sesso perdente” (NCD 125). In questo modo esse non conoscono la libertà, ma solo la richiesta di riparazione al torto subito. Le milanesi puntano tutto sulla traduzione sociale concreta del desiderio di libertà femminile, poiché “finché una donna chiede riparazioni, qualunque cosa ottenga, non conoscerà mai la liber- tà” (NCD 156).

Il traguardo ambizioso del collettivo è quello di seguire una politica sul leitmotiv della libertà invece che su quello delle ferite, sul desiderio di un “di più” piuttosto che sull’uguale situazione di oppressione comune a tutte le donne (FAF 143). Riassumono le autrici:

“Da una parte, abbiamo detto, c’era la posizione di vedere nelle donne un gruppo sociale oppresso bisognoso di rappresentanza, portatore di rivendicazioni, oggetto di interventi ri- solutivi, almeno in parte, dei suoi problemi. Dall’altra, invece, le donne sono un sesso che vuole darsi esistenza, linguaggio, efficacia nei rapporti sociali, a partire dalla sua originaria differenza e nella sua vivente singolarità, per cui ciascuna donna, due donne, alcune donne in rapporto fra loro devono prendere direttamente la parola trovando esse stesse il mezzo di tradurre i contenuti della propria esperienza in contenuti sociali, senza mediazione ma- schile.

Per le donne che sostenevano questa posizione, escludere la mediazione maschile non si- gnificava più escludere ogni forma di mediazione. Esse si erano ormai rese conto che la differenza femminile, per esistere nel mondo, per non essere più oggetto muto di interpre- tazioni e azioni altrui deve produrre da sé le forme della sua mediazione.” (NCD 86,87)

La libertà di agire delle donne è stata rinnegata perché ritenuta debole rispetto a un’idea di libertà assoluta, oppure è stata vista attraverso lo sguardo della sovranità: la libertà di una o di poche contro quella di molte. Mancavano figure femminili capaci di mediare tra i deside- ri delle donne e la realtà. Questa mediazione con la sfera pubblica non doveva più essere rappresentata da un uomo, cioè da un’autorità maschile che aveva confinato le donne nella logica del risarcimento e della rivalsa. “Bisognava dare il massimo di autorità ai mezzi in- ventati dal movimento delle donne – essenzialmente, i rapporti liberi fra donne – e fare del- le donne stesse una fonte di autorità, per la differenza femminile la sua fonte di legittimità in ogni senso del termine” (NCD 87). La libertà della donna nasce allora da una creazione di un mondo non più segnato al maschile, bensì da un mondo fatto di rapporti liberi tra donne in spazi politici creati appositamente, in cui le donne agiscano e discutano – cioè, arendtianamente, facciano politica -, esponendosi nella loro specificità in una comunità di donne eguali, ma diverse, altrettanto libere, desiderose e capaci di valorizzarsi.