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Il De reditu suo: un viaggio alla ricerca di un’identità socio-culturale

La lettura del De reditu suo, anche per il lettore moderno, non può che andare oltre la superficie del resoconto di viaggio. L’idea che ci siamo fatti, analizzando l’opera, è che il poeta si serva dello strumento del viaggio per ricostruire tutta una serie di elementi, letterari e culturali, capaci di disegnare i tratti tipici di un’identità. Quell’identità che il poeta rivendica per sé e per quelli che facevano parte del suo steso gruppo sociale, destinatari principali, forse unici, della sua opera. Un’identità che tanto più urge ribadire quanto più essa si vede in pericolo, in un momento di epocali trasformazioni, tanto per l’impero romano quanto per tutti i gruppi sociali che fino ad allora vi avevano vissuto. Per questo motivo riteniamo opportuno, prima di passare alla dimostrazione della tesi appena esposta, alcune precisazioni storico cronologiche sull’identità del poeta e del poema. Per capire il senso profondo del De reditu suo è infatti necessaria una preliminare collocazione storico cronologica tanto del poeta quanto dell’opera1.

Tutto ciò che sappiamo di Rutilio lo dobbiamo al De reditu suo, unica sua composizione ad essere giunta fino a noi. Anche se il miglior manoscritto, V, e l’editio princeps, nel presentare il nome dell’autore, danno la sequenza Rutilius Claudius Namatianus2, è verosimile che il nome esatto fosse Claudius Rutilius Namatianus, poiché il gentilicium Claudio, all’epoca di Rutilio, era sentito come praenomen. Rutilio era originario della Gallia, come si può dedurre da 1, 20. Quando incontra Vittorino (1, 496), Rutilio afferma di avere, attraverso di lui, già un assaggio della sua patria (1, 510). Si potrebbe concludere che Rutilio fu di Tolosa, ma, come rileva Wolff3, questa sarebbe forse un’interpretazione troppo letterale del testo. Verosimilmente Rutilio nacque intorno al 370. Veniva da una famiglia di proprietari terrieri della Narbonense ed il suo ritorno, forse, è motivato proprio dalla necessità di constatare lo stato dei suoi possedimenti personali, in una regione che aveva subito invasioni e devastazioni. È probabile anche che, in seguito ai rivolgimenti di cui fu oggetto, la regione dovesse subire una divisione delle terre. Nonostante l’origine provinciale Rutilio, come il suo parente Palladio (1, 208-210), fece degli studi tradizionali a Roma. Il poeta, in effetti, mostra

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Per un’introduzione generale all’opera si veda Fo A., 1992, pp. V-XXVII; Wolff. É., 2007, pp. VII-XCIX e annesse bibliografie. Per il testo dell’opera seguiamo Wolff. É, 2007 ma si vedano anche le edizioni con testo e commento di Doblhofer E., 1972-1977; Fo A., 1992; Castorina E., 1967; Mazzolai A., 1990-1991.

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La soprascritta del codice V recita: ex fragmentis Rutilii Claudii Namatiani de reditu suo e Roma in Galliam

Narbonensem. Da questa didascalia si deduce anche il titolo del poema, sul quale non ci sono certezze.

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64 una buona conoscenza della letteratura classica1, anche se non abbiamo sicurezza che conoscesse il greco. Secondo Doblhofer2, infatti, le allusioni omeriche del De reditu suo erano topiche a quell’epoca e non implicano che Rutilio avesse avuto una lettura diretta dell’Iliade e dell’Odissea. Come per la gran parte degli uomini del suo tempo, il livello culturale garantì a Rutilio una brillante carriera. Fu magister officiorum (1, 563), probabilmente nel 4123, e praefectus Urbi (1, 155-160) per pochi mesi nel 414, come dimostrato da Chastagnol4. Rutilio, come altri suoi contemporanei, non ebbe un cursus honorum senatoriale di tipo tradizionale5. Il poeta, infatti, ebbe un cursus burocratico, poiché, prima della prefettura urbana, ricoprì soltanto incarichi di corte. Per quanto riguarda la datazione del poema, il dibattito è stato vivace e, ancora oggi, non c’è una data che riscuota il consenso generale. Si è tentato di datare il poema sulla base di 1, 135-1366, versi nei quali il poeta afferma di affrontare il suo viaggio nel 1169° anno dalla fondazione di Roma. Il problema, tuttavia, è che non sappiamo su quale calendario Rutilio si basasse. Se si ipotizza che alla base del calcolo rutiliano ci sia stato il calendario varroniano, il quale poneva la fondazione di Roma al 754 a. C., allora dovremmo collocare il viaggio al 416. In effetti la proposta dello Scaligero, che identificava proprio nel 416 l’anno del viaggio, venne accolta nel tempo da molti studiosi: Zumpt7, Vessereau8, Vollmer9, Ussani10. Tuttavia, già nel 1928,

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Per le letture di Rutilio cfr. Wolff É., 2006. Secondo Wolff nessuna delle allusioni rutiliane implica una lettura diretta dell’Iliade e dell’Odissea: 1, 195 è un passo mediato da Ovidio; 1, 449 il passo deforma singolarmente il testo omerico; 1, 291-292 insieme a 1, 382 e 1, 525-526 sembrano più che altro espressioni proverbiali. 2

Cfr. Doblhofer E., 1972-1977, t. I p. 49-51. Secondo Tissol, 2002, p. 439, i riferimenti ad Omero sono in ogni caso mediati da riferimenti a predecessori appartenenti alla tradizione latina. In generale, per i rapporti di Rutilio con la cultura greca si veda Alfonsi L., 1954; Boano G., 1948.

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È probabile, infatti, che Rutilio vada identificato con quel Namatius a cui è indirizzato il testo del Codex Theodosianum VI, 27, 15 del 7 Dicembre 412.

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Cfr. Chastagnol A., 1968, p. 271-73. Lo studioso ha dimostrato che la prefettura di Rutilio è stata molto breve, successiva al 27 maggio e precedente al 17 settembre 414. Chastagnol infatti rileva che, anche se la prefettura urbana di Rutilio non è attestata che dal suo poema, essa può essere facilmente collocabile. In effetti Rutilio dice di essere stato il predecessore immediato del suo amico Albino. Questo permetterebbe di datare a colpo sicuro la prefettura di Rutilio all’estate del 414, proprio tra il 27 maggio ed il 17 settembre. Il 17 settembre infatti Albino è già in funzione. A quella data gli fu inviata una costituzione relativa alla navigazione cfr. Codex

Theodosianum, 13, mentre Fl. Annius Eucharius Epiphanius 7 era ancora praefectus Urbi il 27 maggio del 414.

Cfr. Jones A. H. M. e Martindale J. R., PLRE, t. II, p. 771. 5

Cfr. Chastagnol A., 1960, p. 449, il quale cita i quattro prefetti degli anni 395-398 (da Andromachus a Felix), Longianius nel 401-402, Peregrinus Saturninus tra il 403 e il 405.

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Rutilio, I, 135-136 quamvis sedecies denis et mille peractis / annus praeterea iam tibi nonus erat, <<benché,

compiuti sedici volte dieci, e mille anni, ancora il nono già per te volga alla fine>>, secondo la traduzione di Fo

A., 1992, p. 11. 7

Cfr. Zumpt A.–W., 1837, ch. III. 8

Cfr. Vessereau J., 1904, p. 253, sgg.

9 Cfr. Vollmer F., in Pauly-Wissowa, RE, s. v. Rutilius Claudius Namatianus, I A I, 1914, coll. 1249-54. 10

65 1928, Carcopino1 ritenne opportuno riesaminare la questione. Lo studioso francese ricorda giustamente che l’anno olimpico non corrispondeva a quello romano. L’anno olimpico, infatti, andava da Giugno a Luglio, mentre quello romano partiva a Gennaio. L’anno romano, dunque, seguendo la cronologia olimpica, si trovava così spezzato in due. In tal senso, qualora Rutilio avesse adottato l’era varroniana, dovremmo fissare il viaggio al 416, ma, qualora invece si fosse servito dell’era dei Fasti, dovremmo fissarlo al 417. Inoltre, come proposto da Lana2, poteva darsi il caso di un erroneo utilizzo della cronologia varroniana, che che comporterebbe uno spostamento della data del viaggio al 4153. Non potendo, dunque, datare il viaggio sulla base di 1, 135-136, si è tentato di farlo sfruttando altri passi del poema4. Nessuno di questi, tuttavia, è risultato decisivo. Non garantendo una interpretazione univoca, non hanno consentito una soluzione definitiva del problema della datazione del viaggio. Diversa la strada tentata da Cameron5. Lo studioso, sulla scia di Dufourcq6 e Courcelle7, inizia la sua dimostrazione mettendo in relazione il De Reditu suo con con il De civitate dei. Alcune sezioni dell’opera di Rutilio dimostrerebbero una lettura ed un riferimento diretto all’opera di Sant’Agostino. I libri 1-3 del De civitate dei sono stati pubblicati nel 412, i libri 4-5 nel 414/415, i libri 6-7 nel 416. Se nel De reditu suo Rutilio fa riferimento anche agli ultimi libri del De civitate dei, vuol dire che l’opera è stata composta dopo il 416. Rutilio in 1, 398 (victoresque suos natio victa premit), sembrerebbe confermare quest’ultima ipotesi, riprendendo il fr. 42 dell’opera perduta di Seneca, De superstitione. Il passo si trova citato nel De civitate dei (6, 11), unica fonte a tramandarcelo: usque eo sceleratissimae gentis consuetudo convaluit, ut per omnes iam terras recepta sit: victi victoribus leges dederunt. Secondo Cameron, Rutilio non avrebbe potuto leggere direttamente Seneca, in quanto autore <<most unfashionable>> presso i circoli letterari della tarda antichità, soprattutto dopo la stroncatura che aveva ricevuto da Frontone e Gellio. Seneca, inoltre, era visto di cattivo occhio presso i pagani come Rutilio, a causa della buona

1 Cfr. Carcopino J., 1928. 2

Cfr. Lana I., 1961, pp. 11-60 e 85-104. 3

Errori di calcolo di questo tipo sono rilevabili, ad esempio, in un contemporaneo di Rutilio quale Orosio, che colloca il sacco di Roma (Agosto del 410) nell’anno 1164° di Roma e la liberazione delle Gallie (fine del 414) nell’anno 1168°.

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Ecco i passaggi sfruttati ai fini della datazione del viaggio: le Chelae (1, 184); l’occidua Plias (1, 186); il rumore degli applausi che Rutilio ritiene proveniente dal Circo e dai teatri (1, 201-204); la celebrazione della festività in onore di Osiride (371-376); la prefettura di Rufio Volusiano (1, 415 sgg.).

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Cfr. Cameron Al., 1967. 6 Cfr. Dufourcq A., 1905. 7

66 considerazione di cui godeva presso i cristiani. Il De superstitione, poi, era tra i libri senecani meno adatti a stare nella biblioteca di un pagano vecchio stampo. Cameron, poi, riesaminando gli elementi sfruttati sia da Carcopino che da Lana per le rispettive datazioni, arriva a datare l’opera al 417. Per quanto riguarda il contesto storico, Cameron ritiene inaccettabile l’idea che Rutilio non avrebbe potuto più, dopo gli accordi del 416, definire <<perfidi>> e <<sacrileghi>> i Goti, a causa del trattato che con loro Onorio aveva stipulato. Si trattava, secondo lo studioso, di un trattato di convenienza che non poteva cancellare l’odio covato in anni di devastazioni e violenze. D’altra parte spesso Rutilio si esprime in controtendenza rispetto ad Onorio, come nel caso dei Giudei. Onorio, infatti, aveva perseguito una politica stranamente tollerante nei loro confronti. Lo stesso si può dire per gli attacchi ai monaci e per l’entusiasmo che Rutilio manifesta nei confronti delle feste Isiache a Faleria e per il suo paganesimo in generale. Alcuni versi, inoltre, dimostrerebbero che è proprio dopo il 416 che Rutilio ha scritto la sua opera. I versi 1, 139-44, ad esempio, farebbero riferimento alla rinascita di Roma e al momento della vendetta sui Goti, mentre i versi 1, 145-54 e 1, 29-30 alluderebbero ad un periodo di pacificazione dopo i disordini e le distruzioni dovuti alle invasioni. Nonostante siano passati pochi anni dal sacco di Roma, non deve stupire l’ottimismo di Rutilio, dovuto proprio alla recente sconfitta dei Goti del 4161. Secondo Corsaro2, tuttavia, la posizione di Cameron sembra avere il carattere di una <<apodittica petitio principii>>. Non è possibile, infatti, secondo lo studioso italiano, che un letterato di vasta cultura come Rutilio si imponesse un’autocensura nei confronti di un autore pagano come Seneca, per poi mostrarsi aperto nei confronti della letteratura cristiana di Sant’Agostino. Corsaro ricorda, inoltre, che l’ideologia rutiliana è costituita in una certa misura di elementi dello stoicismo senecano. Inoltre, anche le argomentazioni di carattere storico sarebbero facilmente controvertibili. Un ulteriore contributo al dibattito sulla datazione del viaggio è stato dato dalla scoperta dei nuovi frammenti ad opera di Mirella Ferrari nel 19733. I versi ricavati dai frammenti, infatti, pur molto lacunosi, hanno aggiunto nuovi elementi utili. Nel fr. B, infatti ai vv. 9-16 si allude al consolato di Costanzo,

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Courcelle P., 1948, p. 82 rileva come l’<<optimisme étonnant>> sia una delle caratteristiche principali del De

reditu suo. Lana I, 1961, p. 164 rileva al contrario <<una visione fondamentalmente pessimistica dell’impero>>.

2 Corsaro F., p. 33. Lo studio di Corsaro è utile anche per una ricapitolazione su tutte le questioni di datazione cui abbiamo accennato sopra; in particolare si vedano pp. 7-53.

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Nella successiva trattazione non ci occuperemo dei frammenti. I frammenti sono editi con traduzione e commento in Wolff É, 2007 ; Fo A., 1992. Per un approfondimento sulla questione si veda Ferrari M., 1973, 12- 13 e 15-30 (con foto dei frammenti); AA. VV., 1975.

67 cioè Flavius Constantius, il futuro imperatore Costanzo III. Costanzo fu console tre volte: nel 414, nel 417 e nel 420. I più ritengono che Rutilio alluda al consolato del 417 e integrando, con Tandoi1, al fr. B 9 sec<undis>, intendono al fr. B 14 <<ritorni il già raddoppiato onore>>. Tandoi supporta la propria integrazione asserendo che la grande stima qui di mostrata da Rutilio nei confronti di Costanzo presuppone che questi sia un personaggio di grande rilievo. Questo dato si accorda bene con una data prossima al 417, quando Costanzo, in seguito al trattato stipulato con Vallia, acquistò la fama di salvatore dell’impero. Il viaggio dunque sarebbe da collocarsi nel 417, come avevano pensato Carcopino e Cameron. Di questo avviso è Wolff secondo il quale << la mention du consulat bis de Constantius confirme en effet la datation de 417>>2. Lana3, tuttavia, anche alla luce dei frammenti continua a sostenere la data del 415, ritenendo che al fr. B 9-14 si alluda al primo consolato di Costanzo, quello del 414. Il fr. B 9 andrebbe integrato sec<utis> e il fr. B 14 andrebbe inteso <<ritorni, ormai raddoppiato, l’onore>>. Secondo Lana, infatti, è poco probabile un augurio per il terzo consolato, in un momento in cui Costanzo, già insignito del titolo di patricius, si era aperto le strade del trono, attraverso le nozze con Galla Placidia, celebrate proprio il 1 gennaio del 417. Inoltre gli elementi descrittivi che traspaiono dai frammenti farebbero pensare ad un Costanzo nel pieno delle attività belliche non al Costanzo venuto ormai a patti con Vallia, attraverso il trattato del 416. Come rileva Corsaro, i meriti di Costanzo non potevano essere che <<quelli conseguiti sul campo per la liberazione della Gallia>>4. Il Costanzo del 417 assomiglierebbe proprio all’odiato Stilicone, che aveva fatto del tatticismo politico la sua arma principale. Con il trattato di Vallia, tramonterebbe definitivamente il sogno, espresso da Rutilio in 1, 141, di vedere i barbari definitivamente annientati. Corsaro5 aggiunge anche un altro elemento che farebbe propendere per una datazione più alta. Rutilio decide di mettersi in viaggio in un periodo prossimo a quello del mare clausum. Approssimativamente dal 11 novembre al 10 marzo la navigazione veniva vietata o, quanto meno evitata, a causa dei rischi comportati dalle cattive condizioni meteorologiche. La fretta di partire, anche in un periodo sfavorevole, impone che le invasioni siano un fatto recente. Se fossero passati già

1

Cfr., Tandoi V. in AA. VV., 1975, p. 18 e n. 12. 2

Cfr. Wolff É., 2007, p. XXI. La pensa allo stesso modo anche Paschoud F., 1978, p. 319.

3 Cfr. Lana I., in AA. VV., 1975, pp. 11-16. Sulla questione si vedano anche Castorina E., in AA. VV., 1975, p. 16; Corsaro F., 1981, pp. 37 sgg.; Frassinetti P., 1980, pp. 54 e 58; Bartalucci A., 1979-80, pp. 404 sgg. La tesi di Lana è stata di recente ripresa da Brocca N., 2005, pp. 171-184.

4 Cfr. Corsaro F., 1981, p. 44. 5

68 due o tre anni, non avrebbe avuto più senso affrontare i rischi di una navigazione autunnale, solo per guadagnare qualche mese. Le parole di 1, 29 indicherebbero lo scopo del ritorno di Rutilio: supervisionare la ricostruzione di elementi urbanistici basilari. Si parla, infatti, di ricostruire casae pastorales1. Un progetto così modesto risponderebbe a delle esigenze immediate e non sarebbe compatibile con un tempo di attesa di due o tre anni. In realtà il motivo reale del ritorno di Rutilio non emerge con chiarezza dal poema. Wolff2, ad esempio, trova strano che Rutilio senta la necessità di partire in fretta, in un periodo, come abbiamo già detto, proibitivo per la navigazione, per poi attardarsi in soste “turistiche”3. Per quanto riguarda le ragioni del ritorno, lo stesso Wolff pensa che il compito di Rutilio possa essere stato quello di contribuire agli sforzi di ristabilimento dell’ordine compiuti in Gallia da Costanzo e, in particolare, che abbia potuto fare da supervisore all’opera di divisione delle terre, permettendo così l’istallazione dei Visigoti in Aquitania, conformemente al trattato di Vallia del 4164. La Sivan5 pensa invece che Rutilio si sia recato ad Arles, all’assemblea provinciale annuale, restaurata da Costanzo, la cui prima riunione ebbe luogo nel 4186. L’analisi della Sivan ritorna anche sulla questione della datazione. Secondo la studiosa, il generale ottimismo che si può leggere nel De reditu suo, anche nel frammento B, non può essere collocato nel 415 quando i Goti erano insediati in Gallia ed altri barbari imperversavano per la Spagna. Il v. 19 del fr. B, in cui si fa riferimento a qualcosa che Costanzo avrebbe ricevuto dai nemici, alluderebbe alla loro sottomissione e potrebbe avere senso solo dopo il 416, anno del foedus di Vallia, che rese i Visigoti alleati di Roma, così da poterli sfruttare contro gli altri barbari.

Come risulta evidente dal dibattito appena delineato per sommi capi, la datazione del viaggio di Rutilio rimane, per molti versi, non perfettamente definibile. Le date più probabili restano quella del 415 e quella del 417. Quello che invece risulta abbastanza definito è il contesto in cui l’opera si colloca. Abbiamo a che fare con un membro dell’aristocrazia gallica

1 Alfonsi L., 1955, sottolineando il valore politico, più che personale, del viaggio di Rutilio, parla di <<missione

diplomatica>>, puntando l’attenzione proprio sui versi 1, 29-30, nei quali si espliciterebbe il compito più

concreto della missione.

2 Cfr. Wolff É., 2007, p. XI. Una simile osservazione è già in Sivan H. S., 1986, p. 522 <<Though he left somewhat

precipitately, Rutilius seemed have been in no great hurry to reach home, for he stopped on the way to visit friends and relatives and to pay homage to worthy sights>>.

3 Cfr. 1, 249-276 visita alle Thermae Taurinae; 1, 541 sgg. visita a Pisa. 4

L’idea era già in Della Corte F., 1980. 5

Sivan H. S., 1986.

6 C’è da dire che la Sivan identifica in Arles la città di cui si parla nel fr. B del De reditu suo, mentre la maggior parte degli studiosi pensa che si tratti di Albenga.

69 che ricoprì ruoli politici di primo piano, visse a Roma e, a pochi anni dal sacco della città eterna, scrisse un poema in cui raccontò del suo ritorno nella sua terra natale, la Gallia, una regione dell’impero recentemente devastata dalle invasioni dei Goti.

Dopo aver collocato nello spazio e nel tempo Rutilio e la sua opera, passiamo a definire le coordinate più propriamente letterarie del De reditu suo. Un primo problema da porsi riguarda quella che potremmo definire la modalità di composizione dell’opera. Come abbiamo già anticipato, una prima lettura dell’opera rivela un’impostazione cronachistica, quasi da diario di bordo, che potrebbe far pensare ad una composizione estemporanea, in itinere. Questa fu l’idea di Vessereau1, secondo il quale il poema presentava una serie di caratteristiche che facevano propendere per una sua composizione in itinere, una sorta di diario scritto giorno per giorno: l’uso costante dell’indicativo presente; la mancanza di collegamenti fra le diverse digressioni e fra gli episodi; la precisione con cui vengono descritti molti particolari; epiteti che corrispondevano ad impressioni immediate. A questa tesi controbatteva però Pichon2, secondo il quale l’uso del presente è un espediente dello stile che serve a dare vivacità al racconto. La giustapposizione delle parti non proverebbe che esse sono state composte isolatamente. Rutilio seguirebbe l’ordine dei giorni come Livio quello degli anni. La precisione dei dettagli, poi, non è caratteristica solo delle opere scritte in maniera estemporanea. La forma artificiosa del poema, inoltre, insieme alla fattura classica della metrica dimostrerebbero che il De reditu suo è un opera che ha richiesto un certo tempo di ripensamento ed elaborazione. La tesi del Pichon è stata accettata dalla quasi totalità degli studiosi. Nell’introduzione all’edizione Vessereau-Préchac3, infatti, a distanza di circa trent’anni dalla prima edizione di Vessereau, è possibile leggere un giudizio in linea con quanto esposto dal Pichon. La composizione perfetta di alcuni brani, come l’invettiva contro Stilicone, la purezza straordinaria della lingua, la perfezione classica dei distici, le preziose allitterazioni, l’abile utilizzo di pezzi presi in prestito dai poeti classici e le perifrasi ricercate, fanno pensare ad un <<travail de cabinet>>, ferma restando l’intenzione di Rutilio di dare alla sua opera <<l’allure d’une brillant improvisation>>. Strettamente connessa alla

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