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Mosella e De reditu suo: viaggio e riaffermazione della propria identità culturale

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Academic year: 2021

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Introduzione

La notte del 27 Giugno 363 muore l’imperatore Giuliano, colpito nel corso della battaglia contro i Persiani. Decise di non nominare un erede, dimostrando così di non voler cedere al principio della successione dinastica. I comandanti militari, trovandosi a subire il duro assedio nemico, decisero di eleggere in fretta e furia Gioviano, ma il nuovo imperatore morì il 17 febbraio del 364 ed il suo regno durò soltanto otto mesi. L’élite militare e civile, riunita a Nicea, si trovò a dover ripetere le operazioni dell’anno precedente e questa volta optò per Valentiniano, un ufficiale pannonico da poco promosso al grado di tribuno di una delle scholae palatine. Non proveniva da famiglia appartenente alla nobiltà, dal momento che suo padre era stato un contadino che da semplice soldato era riuscito a diventare comes rei militaris. Furono probabilmente proprio queste oscure origini a determinare in Valentiniano un atteggiamento ostile all’aristocrazia senatoria ed agli intellettuali pagani, come dimostrato dalla vicenda di Massimino, feroce persecutore del ceto senatorio romano e nominato dall’imperatore Vicarius Urbis Romae. Valentiniano, cercando di favorire le alte cariche del comitatus, stabilì nuove regole circa l’ordine di precedenza nel Senato e nel Concistoro. Pose, infatti, sullo stesso piano i magistri equitum et peditum e gli ex prefetti del pretorio e della città. Ebbe, invece, molta attenzione per i ceti umili, come dimostrato dalla considerazione che ebbe per l’ufficio del defensor civitatis, che aveva lo scopo di tutelare la plebe dagli abusi dei potenti. D’altra parte, stando alle parole di Ammiano, Valentiniano <<bene vestitos oderat et eruditos et opulentos et nobiles>> (30.8.10). Poteva, tuttavia, vantare una grande esperienza come soldato e amministratore. Il 28 marzo del 364 Valentiniano nominò suo fratello Valente secondo Augusto. Ai primi di agosto Valentiniano e Valente si divisero la giurisdizione dell’impero: al primo sarebbe spettata la prefettura delle Gallie e dell’Illiriciana, al secondo la prefettura d’Oriente. Questa ripartizione, dovuta principalmente alle preoccupazioni destate dalla pericolosa situazione del confine renano-danubiano, spianava la strada ad una definitiva separazione tra le due partes, che divenivano così due imperi veri e propri. Ad Ovest Valentiniano dovette fronteggiare gli Alamanni, sull’alto corso del Reno, ed inviare Teodosio, padre del futuro imperatore Teodosio I, in Britannia, poiché l’isola veniva ripetutamente attaccata da Sassoni, Pitti e Scoti. Ad Est Valente dovette, invece, affrontare alcune manovre interne, come quella di Procopio o quella di Teodoro. Per quanto riguarda le pressioni provenienti dall’esterno, va ricordato che

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2 intorno al 375 cominciò quell’avanzata degli Unni che, per almeno un cinquantennio, avrebbe determinato la direzione delle migrazioni delle tribù germaniche. Conseguenza diretta della pressione unna fu la sconfitta che l’esercito romano subì da parte dei Goti il 9 agosto del 378 ad Adrianopoli. L’imperatore Valente morì in battaglia. Valentiniano, invece, era già morto nel 375 e gli era succeduto il figlio Graziano. Quest’ultimo, sotto l’influenza di Decimo Magno Ausonio, abbandonò la politica antisenatoria del padre, ponendo fine alla stagione delle persecuzioni processuali e permettendo il rientro degli esiliati ed il recupero dei beni confiscati ai figli dei condannati a morte. Il temuto Massimino venne processato e giustiziato nel 376. Dopo la morte dello zio Valente, Graziano decise di richiamare dalla Spagna, dove si era recato in volontario esilio, Teodosio, figlio dell’omonimo magister equitum di Valentiniano caduto in disgrazia e condannato a morte nel 375. A Teodosio, proclamato Augusto il 19 Gennaio del 379, venne affidata la prefettura d’Oriente. Graziano, infatti, si era reso conto di non poter amministrare da solo tutto l’impero. Il 3 Agosto 383 Teodosio concluse un patto con i Goti che avrebbe garantito un periodo di relativa tranquillità. Veniva fatta tuttavia una concessione che, seppur vantaggiosa nel breve termine, a lungo termine si sarebbe rivelata disastrosa: i Goti avrebbero potuto combattere come alleati al comando dei loro capi e non di ufficiali romani. Per quanto riguarda la politica religiosa, il 27 Febbraio del 380 Teodosio promulga il cosiddetto editto di Tessalonica, in base al quale il credo niceno diventa religione ufficiale dell’impero. Teodosio è anche il primo imperatore che, dopo la proclamazione ad Augusto non ha assunto il titolo di Pontifex maximus. Questo nuovo clima religioso allontana Graziano dalle politiche filo senatorie, al punto che, nel 382, ordina di rimuovere l’altare posto davanti alla statua della Vittoria, dopo che vi era stato ricollocato da Giuliano in seguito alla prima rimozione da parte di Costanzo II nel 357. Proprio in seguito alla rimozione operata da Graziano ebbe luogo la famosa disputa fra Simmaco, esponente di spicco del ceto senatorio, e Ambrogio. Quest’ultimo ebbe la meglio. L’altare sarà poi ricollocato al suo posto da Eugenio nel 393, per poi essere definitivamente rimosso da Teodosio nel 394, in seguito alla battaglia del Frigido. Nel 383 Magno Massimo venne proclamato Augusto dalle truppe della Britannia. Massimo discese nella Gallia, mentre Graziano tentava la fuga verso l’Italia. Venne intercettato a Lugdunum e ucciso il 25 Agosto del 383. Teodosio in un primo momento accettò l’usurpazione, accontentandosi di limitare alla sola Gallia il campo d’azione di Massimo. Tuttavia, quando quest’ultimo varcò le Alpi e occupò la corte di Aquileia, Teodosio

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3 lo raggiunse e lo sconfisse. Massimo si consegnò al vincitore ma venne trucidato dai soldati il 28 Agosto del 388. Gli ultimi anni del regno di Teodosio videro, almeno per Occidente, uno spostamento di potere in favore del clero. Vennero dichiarati definitivamente illeciti i culti pagani e il 24 febbraio del 391 si vietò l’ingresso nei templi, anche soltanto per visitare le opere d’arte. Teodosio, che aveva fino ad allora deciso di risiedere a Milano, nel 391 prese la via di Costantinopoli, mentre Valentiniano II, fratello di Graziano e figlio di Valentiniano I e Giustina, ormai ventenne, rimase in Gallia, ma morì strangolato poco dopo, il 15 maggio 392. Alla morte di Valentiniano II, Arbogaste cercò la via dell’usurpazione, attraverso la figura di Flavio Eugenio, appoggiato nell’operazione dalla nobiltà senatoria più tradizionalista, Simmachi e Nicomachi in testa. Eugenio e Arbogaste giunsero in Italia e abbracciarono la causa dei pagani. La guerra civile fu inevitabile: le truppe di Teodosio e quelle di Arbogaste e Eugenio si scontrarono lungo il Frigido, un affluente di sinistra dell’Isonzo. Eugenio fu ucciso il 6 settembre 394, mentre Arbogaste si diede la morte due giorni dopo. Da segnalare il fatto che tra le truppe di Teodosio si trovassero Alarico, con ventimila uomini al suo comando, e Stilicone. Entrambi saranno indiscussi protagonisti delle successive vicende dell’impero. La vittoria di Teodosio rappresentò anche la sconfitta definitiva del paganesimo e l’affermazione del cristianesimo, tanto nella parte orientale quanto in quella occidentale. L’impero fu per l’ultima volta unito sotto il comando di un unico imperatore, ma per poco: Teodosio morì di malattia il 17 gennaio del 395. L’imperatore, prima di morire, aveva nominato augusti i figli, Arcadio nel 383, Onorio nel 393. Tuttavia, alla sua morte questi avevano rispettivamente diciotto e undici anni. Proprio a causa della loro giovane età, Teodosio li aveva affidati al magister utriusque militiae Stilicone, un semibarbaro di origine vandalica, di provata fedeltà e che nel 384 aveva sposato Serena nipote e figlia adottiva di Teodosio. Stilicone dovette combattere la tendenza germanofoba con un atteggiamento conciliante nei confronti dell’aristocrazia senatoria. Tuttavia, alcuni provvedimenti, come quello che consentiva di riscattare la fornitura di tirones con una cifra non molto alta in denaro, causarono un impoverimento del numero degli effettivi chiamati a difendere i confini della pars Occidentis. Nel primo periodo della reggenze stiliconiana, Alarico cominciò a svolgere quel ruolo ambiguo che caratterizzerà costantemente la sua strategia, approfittando degli attriti tra Stilicone e la corte orientale, dove Arcadio subiva le manovre di Rufino. Con l’assassinio di quest’ultimo (27 novembre 395), frutto probabilmente dell’accordo tra Stilicone ed Eutropio, l’eunuco nuovo favorito di Arcadio, le cose non

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4 cambiarono molto. Se nel 395 Stilicone ricevette l’ordine di rinunciare all’attacco finale contro i Goti di Alarico, la stessa situazione si ripeteva nel 397, occasione in il re dei Visigoti veniva nominato magister militum per Illyricum, mentre Stilicone veniva dichiarato hostis publicus. Nelle manovre segrete di Eutropio va forse ricercata anche la causa della rivolta, sempre nel 397, di Gildone il comes Africae. Dopo i fatti del 397, Stilicone cambiò atteggiamento nei confronti di Alarico, con il quale stipulò un foedus nel 399 che impegnava i Goti a non violare i confini tra la prefettura illirica e la Pannonia. Tuttavia, Alarico il 18 novembre del 401 si diresse con tutto il suo popolo verso l’Italia. Il comandante dei Goti aveva probabilmente percepito in Oriente una rinnovata tendenza antibarbarica, come dimostrato dalla vicenda di Gaina, il magister utriusque militiae che il partito antibarbarico capeggiato da Aureliano cacciò da Costantinopoli nel 400. Alarico pose sotto assedio Aquileia per poi dirigersi verso Milano, mentre Stilicone era impegnato in Rezia a respingere attacchi di tribù alane e vandale. Tra febbraio e marzo del 402 Stilicone giunse a Milano, costringendo Alarico ad una fuga verso la Gallia. Tuttavia, il generale vandalo lo raggiunse nella zona di Pollenzo. Il 6 aprile del 402 iniziava la battaglia di Pollenzo che si doveva concludere con una vittoria piena dei romani. Alarico violò il patto stabilito dopo la sconfitta e costrinse Stilicone ad un nuovo attacco nell’estate del 402 presso Verona. Anche questa volta ci fu una vittoria romana. Tre anni più tardi l’Italia fu invasa dall’ostrogoto Radagaiso che aveva reclutato Germani di varie tribù. Stilicone fu costretto ad arruolare alani, goti, unni e persino schiavi. Fu così possibile sconfiggere gli invasori sotto le mura di Fiesole nei pressi di Firenze. Radagaiso fu fatto prigioniero e giustiziato il 23 agosto del 406. Intanto a nord la situazione diventava sempre più complessa ed il 31 Dicembre del 406 orde di barbari (Alani, Vandali, Svevi) superarono il Reno e penetrarono in Gallia, lasciandosi dietro una lunga scia di devastazione. Anche Treviri fu presa e distrutta. A questo si aggiunsero le lotte intestine dovute agli usurpatori sorti nella Britannia, il più pericoloso dei quali si dimostrò Flavio Claudio Costantino, il quale riuscì ad affermarsi anche in Gallia. Nel frattempo Alarico, approfittando della situazione, occupò i passi delle Alpi Giulie, chiedendo un riscatto di quattromila libbre d’oro. I consiglieri della corte di Onorio ritennero oltraggiosa la richiesta, mentre Stilicone, considerando le poche forze militari a disposizione, riteneva giusto trattare. La decisione fu affidata alla Curia che approvò il pagamento di quattromila libbre d’oro. Intanto, nel 408 moriva Arcadio e la propaganda antistiliconiana iniziò ad insinuare che Stilicone volesse imporre il figlio Eucherio sul trono, scalzando il piccolo Teodosio II. Il 13

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5 agosto del 408, mentre Onorio passava in rassegna i reparti romani a Pavia, i soldati si gettarono sui più alti funzionari fedeli a Stilicone. Il generale vandalo si recò a Ravenna, rifugiandosi in una chiesa, cercando di evitare lo scontro armato con Onorio. Stilicone fu, tuttavia, tratto con l’inganno fuori dalla chiesa ed ucciso il 22 agosto del 408. Un cieco furore antibarbarico poneva fine alla politica di Stilicone, che sulla scia di Teodosio, aveva ritenuto necessaria una barbarizzazione dell’esercito, soprattutto alla luce del deficit demografico della parte occidentale dell’impero. L’odio antibarbarico andò, però, ad ingrossare le fila di Alarico, presso il quale si rifugiarono molte milizie germaniche. Il re dei Visigoti, con le nuove forze a disposizione, nel 408 avanzò un’altra richiesta di denaro. In seguito al rifiuto, invase l’Italia e giunse alle porte di Roma, mentre l’imperatore si rifugiava a Ravenna. Il Senato deliberò di concedere ad Alarico cinquemila libbre d’oro, trentamila d’argento ed altri doni. Il re dei Goti si recò in Etruria da dove iniziò la sua trattativa con Onorio. Prima chiese di rinnovare il foedus stipulato qualche anno prima con Stilicone, poi, visti i tentennamenti della corte, mal consigliata dal nuovo magister officiorum Olimpiodoro, avanzò pretese sempre più esose. I negoziati non andarono a buon fine ed Alarico marciò una seconda volta su Roma, costringendo il Senato ad eleggere un nuovo imperatore, Prisco Attalo, il quale era praefectus Urbi dal novembre del 409. Alarico intendeva intraprendere una spedizione in Africa, ma Attalo si opponeva, manifestando così il timore che molti senatori avevano per i loro latifondi africani. Da una parte la fame e la carestia, dall’altra le collusioni di Alarico con elementi pagani o ariani fecero sì che qualcuno, il 24 agosto del 410, aprisse la porta Salaria ai Goti assedianti. Questi ultimi ricavarono un grande bottino oltre ad un prezioso ostaggio, Galla Placidia, figlia di Teodosio il grande e sorella dell’imperatore Onorio. I Goti, da Roma, si diressero verso Sud. Avrebbero voluto passare in Sicilia e, da lì, raggiungere le coste nordafricane. Una tempesta nello stretto di Messina distrusse la flotta di Alarico, che nel dicembre 410 moriva di malattia. A questo punto ai Goti non restò che ritornare a nord verso la Gallia, sotto la guida di Ataulfo cognato di Alarico. Intanto Flavio Costanzo, magister militum, e Ulfila, magister equitum, raggiungevano e sconfiggevano in Gallia l’usurpatore Costantino, il quale veniva ucciso nel 411. A breve distanza dalla vicenda di Costantino, un altro usurpatore veniva acclamato, Giovino, questa volta proveniente dalla Germania Secunda. Questi era sostenuto, oltre che dall’aristocrazia locale, anche da Franchi, Alani, Burgundi. Costanzo e Ulfila preferirono rinunciare alla battaglia e ritirarsi in Italia. Tuttavia, quando i Goti giunsero in Gallia entrarono presto in contrasto con Giovino e per

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6 Claudio Postumo Dardano, prefetto delle Gallie, non fu difficile attrarli dalla parte del legittimo governo di Ravenna. Ad Ataulfo venne promesso un rifornimento annuale e la possibilità di stanziarsi in alcune province della Gallia. Giovino, assediato a Valenza, fu costretto ad arrendersi e venne giustiziato nel 413. Tuttavia, la rivolta del comes Africae Eracliano impedì ai romani di consegnare i rifornimenti annonari promessi ai visigoti di Ataulfo, i quali tentarono di prendere Marsiglia, ma furono respinti dal Bonifacio, il comandante della piazzaforte. Dal 414 Costanzo, sbarazzatosi ormai degli usurpatori, poté affrontare i Visigoti con più decisione, costringendoli a ritirarsi di nuovo in Aquitania. Tuttavia, agli inizi del 414 Ataulfo celebrò il suo matrimonio con Galla Placidia, dimostrando così chiaramente la propria ostilità nei confronti di Costanzo, il quale rispose con la strategia della terra bruciata, costringendo i goti a recarsi al di là dei Pirenei. Nell’agosto del 415 Ataulfo venne ucciso dal suo scudiero Evervulfo. Gli successe Sigerico che venne ucciso dopo appena una settimana di regno. Alla fine del 415 venne proclamato re Vallia, il quale accetto le condizioni di pace offertegli da Costanzo. I Visigoti avrebbero ricevuto seicentomila modii di grano e, con la promessa di riceverne ogni anno un quantitativo altrettanto grande, sarebbero passati al servizio dell’imperatore come federati. Nel 416 Galla Placidia fu restituita ad Onorio. Il 1 gennaio 417 Onorio e Costanzo assunsero assieme il consolato. Con l’aiuto dei Visigoti venne di nuovo sottomessa gran parte della penisola iberica, dove si trovavano Vandali ed Alani. I Visigoti, dopo aver sgomberato la Spagna, si stabilirono nel Sud-Ovest della Gallia, in Aquitania. Nel 415 Esuperanzio, un generale di Costanzo, aveva represso le rivolte bagaudiche nella regione a nord della Loira, permettendo così di riallacciare i contatti con la Britannia. L’opera restauratrice di Costanzo fu ammirata e gli spianò la strada verso una carriera ancora più brillante. Nel gennaio del 417 sposò Galla Placidia, nel 420 divenne console per la terza volta e l’8 febbraio del 421 fu proclamato secondo Augusto, accanto ad Onorio. La sua ascesa fu tuttavia interrotta dalla morte, che giunse improvvisa il 2 settembre del 421.

Ai poli estremi del segmento di storia romana appena tracciato si trovano le vicende di Decimo Magno Ausonio e Rutilio Namaziano. Il primo nel 365 venne convocato dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri, per svolgere il ruolo di precettore di suo figlio Graziano, futuro imperatore a sua volta. Il poeta ebbe probabilmente l’occasione di accompagnare Valentiniano in una delle sue campagne militari lungo il confine renano. Il ritorno da una di queste missioni fornì forse lo spunto per la scrittura della Mosella, poema

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7 che narra brevemente il tragitto da Bingen a Neumagen, per poi soffermarsi sulla descrizione del fiume Mosella e della regione circostante. Rutilio Namaziano, invece, nato in Gallia intorno al 370, si recò in giovane età a Roma per proseguire i suoi studi. Fu magister officiorum nel 412 e praefectus Urbi nel 414, probabilmente soltanto per pochi mesi. L’unica sua opera poetica che sia giunta fino a noi, il De reditu suo, narra del viaggio di ritorno che Rutilio intraprese, probabilmente nel 415 o nel 417, da Roma alla Gallia. Il testo è giunto mutilo, ma dai frammenti ritrovati nel 1973 da Mirella Ferrari emerge anche Flavio Costanzo e, probabilmente, anche la sua opera restauratrice in Gallia, di cui abbiamo parlato. Sarà interessante rilevare, dunque, come due narrazioni di viaggi, a distanza di cinquant’anni l’una dall’altra, oltre ad essere pienamente inserite nelle vicende dell’epoca, presentino affinità, non soltanto a livello espressivo, ma anche tematico e concettuale. L’analisi della Mosella e del De reditu suo e, infine, un confronto fra le due opere saranno materia dei successivi capitoli dell’elaborato.

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La Mosella di Ausonio: il viaggio come pretesto.

<<Il passaggio alla futilità che caratterizza l’inizio della letteratura latina nell’età degli Antonini si dimostrò, per almeno un paio di secoli, fuori dell’area più propriamente cristiana, una scelta irreversibile … Ausonio, il poeta latino più notevole, più fecondo e più elegante del IV secolo prima di Claudiano, vive completamente e con piena soddisfazione, nel regno di futilità instaurato dopo la svolta>>1, così La Penna bollava e, in un certo senso, destinava ad un giudizio aprioristicamente negativo gran parte della produzione poetica tardo antica, compreso Ausonio. Sempre La Penna aggiungeva che <<non giova a capire e a valutare giustamente la Mosella isolarla, come eccezionale nell’opera di Ausonio: non solo lo stile e la cultura letteraria sono quelli che troviamo negli altri suoi opuscoli, ma va tenuto fermo che essa rientra pur sempre nella funzione ludica della sua poesia>>2. Secondo lo studioso, infatti, non è possibile parlare di un realismo di Ausonio. La Mosella si inserirebbe a pieno titolo nel genere encomiastico e questo spiegherebbe perché paesaggi ormai in decadenza vengano esaltati nella loro prosperità e ricchezza. Insomma il realismo di Ausonio sarebbe filtrato attraverso modelli letterari, più che derivare da una concreta esperienza dei luoghi. È interessante rilevare, tuttavia, come lo stesso La Penna, qualche pagina dopo, senta la necessità di correggere in parte il tiro ed affermare che << all’interpretazione, talora un po’ ingenua, ma non sempre deformata, dell’opera di Ausonio come autobiografia di un intellettuale gallico del IV secolo non dobbiamo sostituire l’immagine di un’opera come costruita solo sulla letteratura e per il lusus letterario>>3. Una posizione dunque di equilibrio che, a mio avviso, può essere paradigmatica di tutta la storia della critica che ha operato sul testo ausoniano. Effettivamente, terminata la lettura della Mosella, è facile, quasi normale, trovarsi di fronte ad un’impasse esegetica: dover scegliere tra due diverse e, per certi versi, opposte, analisi del poemetto e, in base alla scelta operata, orientare tutta la successiva analisi. La scelta da fare, e che spesso la critica ha fatto, è quella tra poema impegnato e disimpegnato. Il problema è appunto quello sollevato dall’analisi di La Penna: dover scegliere tra una Mosella prodotto di un lusus tipico di un momento letterario, oppure una Mosella

1 La Penna A., 1993, p. 731. 2 La Penna A., 1993, p. 735. 3 La Penna A., 1993, p. 740.

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9 portatrice di significati più profondi, che vanno al di là del semplice gioco letterario fine a se stesso.

È importante, a nostro avviso, premettere che categorie come quelle di “impegno” e “disimpegno” sono tipiche del nostro tempo e che, per quanto ci si provi, non è possibile applicarle in maniera acritica ad epoche così lontane e così diverse, come quella in cui fu composta la Mosella. Il dovere di uno studioso dovrebbe essere quello di cercare di comprendere cosa un testo vuol dire, prima di tentare di classificare, magari utilizzando categorie anacronistiche, come quelle appena citate. La Mosella, pur mantenendo quelle caratteristiche di ridondanza, artificiosità, erudizione a tutti i costi e sofisticati giochi letterari, non è, a nostro avviso, né un puro gioco letterario, espressione di disimpegno cortigiano, né poema impegnato. Si tratta, più verosimilmente, di un’opera che, nel bene e nel male, è testimonianza di un’epoca e di un’ideologia, pur rimanendo confinata nei limiti del gusto letterario del suo tempo.

La prima cosa da fare per una più consapevole interpretazione è un inquadramento spazio-temporale1. Decimo Magno Ausonio nacque intorno al 310 a Bordeaux. Nella città natia fu insegnante per un trentennio, a partire dal 334, prima come grammaticus e poi come rhetor. Sempre a Bordeaux fu decurione, cioè membro del senato municipale e poi console2, cioè probabilmente duumviro. Verso il 364 la svolta nella vita e nella carriera del poeta: venne chiamato dall’Imperatore Valentiniano I al palazzo di Treviri in qualità di educatore di suo figlio Graziano. Nel 375 divenne quaestor sacri palatii. Da quando Graziano salì al trono, nel 375, Ausonio acquistò sempre più potere, al punto da divenire console nel 379. Nel frattempo aveva fatto in modo che tutti i suoi familiari acquistassero cariche ed onorificenze3. Tale posizione di privilegio durò fino al 383, quando Graziano fu ucciso a Lione dall’usurpatore Massimo. I quadri dirigenti furono azzerati ed Ausonio se ne tornò a Bordeaux, dove rimase fino alla sua morte avvenuta probabilmente intorno al 394. Il primo dato che emerge, e che va tenuto presente nell’analisi della Mosella, è che Ausonio fu uomo sì di scuola, professore per trent’anni, ma anche di potere, un uomo pienamente dentro le dinamiche politiche del suo tempo. La seconda cosa da rilevare è che la Mosella fu scritta proprio negli anni in cui il poeta si trovava alla corte di Treviri, come emerge chiaramente dal

1 Per un’introduzione generale alla vita di Ausonio ed al suo ambiente si veda Pastorino A., 1971, pp. 11-70; Green R. P. H., 1991, pp. XXIV-XXXII.

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Cfr. Ordo Urbium Nobilium, 167-68 (citiamo dall’edizione Green R. P. H., 1999).

3 Per un’analisi dettagliata della cronologia del cursus honorum di Ausonio e dei suoi familiari si veda Grilli A., 1982, pp. 141-42.

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10 testo. Nell’opera sono disseminati vari riferimenti alla realtà contemporanea che ci permettono di inquadrare la Mosella nel suo tempo. Tuttavia, se alcuni punti fermi rimangono, la questione della precisa datazione dell’opera rimane in parte aperta, non essendoci accordo tra i critici. Vediamo quali sono gli elementi di cronologia che si possono derivare dal testo e quali sono i nodi problematici per quanto riguarda la sua precisa datazione. La composizione dell’opera si collocherebbe tra il 368, data delle campagne militari cui Ausonio farebbe riferimento al v. 423, e il 375, data della morte di Valentiniano I, che dal testo risulta ancora in vita. Una datazione più precisa può ottenersi tenendo in considerazione ulteriori elementi. Al v. 450 l’espressione Augustus pater et nati fa pensare ad un periodo successivo alla metà del 371, quando nacque Valentiniano II, probabilmente sottinteso nel plurale nati (i figli di Valentiniano, cioè Graziano e appunto Valentiniano II). Ulteriore elemento di cronologia relativa deriverebbe dall’identificazione del personaggio misterioso che si cela dietro l’elogio dei vv. 409-4141. Vi sono stati nel tempo vari tentativi di identificazione: Bappo (Seeck), Sextus Petronius Probus (Boecking e Hosius), Maximinus (Ville de Mirmont). In tempi più recenti Green2 si sente di affermare che Ausonio nel passo è stato volutamente ambiguo, ha voluto tutelarsi, lasciando nel dubbio la reale identità del personaggio misterioso, un po’ come aveva fatto Virgilio nell’Ecloga 4. Ciò non toglie che, secondo lo studioso, il personaggio abbia una concreta identità che corrisponderebbe a quella di Probo, che fu console nel 371. L’Epistola 9 (Green) fu inviata da Ausonio durante o poco prima del consolato di Probo. Le similitudini testuali tra l’epistola ed il passo della Mosella, nonché la promessa che nell’epistola stessa Ausonio fa a Probo di un futuro panegirico (che si identificherebbe, dunque, con i vv. 409-414 della Mosella), confermerebbero l’identificazione. Probo, tenendo presente il testo dell’epistola, si sarebbe potuto identificare nel personaggio elogiato ai vv. 409-414, nonostante l’ambiguità del testo. Tuttavia, proprio per il fatto che i versi in questione non erano espliciti, tutti i notabili di corte, ascoltando o leggendo il testo, avrebbero potuto ritenere se stessi oggetto dell’elogio. La Mosella avrebbe seguito, a non molta distanza di tempo, l’epistola e si collocherebbe, dunque, intorno al 372/373. Non sono mancate obiezioni e tentativi di ridefinire le

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Riportiamo il testi di Ausonio Mosella 409-414: quique caput rerum Roma, populumque patresque, / tantum

non primo rexit sub nomine, quamvis / par fuerit primis: festinet solvere tandem / errorem fortuna suum libataque supplens / praemia iam veri fastigia reddat honoris / nobilibus repetenda nepotibus.

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11 coordinate cronologiche del poema. La Sivan1, ad esempio, oltre a criticare la data di composizione del poema, arriva a ipotizzare una doppia redazione, una alta, collocabile intorno al 368, e una bassa, da collocare verso la fine del regno di Valentiniano I. Secondo la studiosa, i vv. 420 sgg. sarebbero collocabili in un periodo prossimo al 368. In base a delle discrepanze con Ammiano 27.10.1, si potrebbe dedurre che nel passo della Mosella Ausonio non faccia riferimento alla decisiva battaglia di Solicinium, ma a qualche battaglia precedente, meno decisiva, ma comunque vicina al 368. La speranza di future vittorie, espressa al v. 426, si accorderebbe bene a questo primo periodo in cui Valentiniano lanciò per la prima volta battaglie al di là del limes renano. Questa parte di poema sarebbe stata composta, dunque, in un primo momento, mentre una seconda parte, quella dal v. 438 in poi, sarebbe stata composta molto dopo. Infatti al v. 451 Ausonio cita il suo consolato, che, come abbiano già detto, ottenne solo nel 379. Inoltre al v. 450 Ausonio non potrebbe riferirsi a Valentiniano II, nato da poco, come sua maxima cura. Ausonio non fu mai precettore di Valentiniano II, ma se anche avesse nutrito speranze in tal senso, secondo la Sivan, questo non sarebbe potuto accadere prima del 377. Ci sarebbe poi tutta un’altra serie di elementi che farebbero pensare ad una doppia redazione del poema. Ai vv. 422-26 Ausonio enfatizza quanto siano recenti le vittorie imperiali oltre il Reno (quelle del 368), ma al v. 439 il poeta descrive se stesso come antico ospite della regione belgica; ai vv. 456-57 Ausonio afferma che i castra sono ormai divenuti horrea, ma questa visione difficilmente corrisponderebbe alla cronologia delle attività di Valentiniano lungo la frontiera di Nord-Est. Quanto al personaggio misterioso dei vv. 409-414 la Sivan prima nega, con una serie di legittime argomentazioni, che si possa trattare di Probo, ma poi cede all’agnosticismo, lasciando intendere che la questione dell’identità del personaggio sia destinato a rimanere un mistero insolubile. Al di là della solidità delle argomentazioni, quello che è importante, a nostro avviso, nell’ipotesi della Sivan è la motivazione che la studiosa vede dietro la doppia redazione dell’opera. Nel 367 Valentiniano, gravemente malato, fece un’operazione anomala: innalzò il figlio Graziano al rango di Augusto, aprendo la strada ad una successione dinastica. Graziano aveva allora solo nove anni. Appena si fu rimesso, Valentiniano lanciò su larga scala una spedizione che avrebbe dovuto alimentare una speranza di una decisiva vittoria contro gli Alamanni, che dal 364 andavano minacciando il confine di Nord-Est. La nuova dinastia aveva bisogno di credito a livello militare ed un poema che elogiasse le

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12 frontiere tranquille, in un periodo in cui tranquille non erano, poteva essere d’aiuto. Così anche l’insistente riferimento alla pace andrebbe visto come intenzionale velo sopra una realtà che di fatto era di guerra permanente. Una volta cacciato il nemico e costruite linee di fortificazione lungo il confine, la Mosella sarebbe stata messa da parte, per poi avere, verso la fine del regno di Valentiniano, una seconda circolazione, ma in una forma diversa da quella originale. Ecco dunque che una questione di datazione si incrocia con la spinosa questione della tradizione delle opere ausoniane. Se è vero infatti, come rileva anche la Sivan, che un processo di revisione, prima della pubblicazione di un’opera composta in un periodo precedente, sembra essere stata una forma abbastanza regolare del metodo di lavoro ausoniano (la Sivan cita il caso di Technopaegnion), è anche vero che, nella storia della tradizione del testo ausoniano, la Mosella occupa un posto del tutto particolare. La tradizione manoscritta ausoniana si fonda su quattro famiglie di codici: Z (questa famiglia è chiamata w da Schenkel e Green), comprende numerosi manoscritti del XIV e XV secolo, il migliore dei quali è il Leidensis Vossianus Q 107, conosciuto come Tilianus (T); V, famiglia che prende il nome dal suo testimone più importante il Leidensis Vossianus Latinus 111 del IX secolo (V); P, famiglia che consiste principalmente nel Parisinus Latinus 8500 del XIV secolo; Excerpta, famiglia così chiamata dall’incipit dei due manoscritti migliori (incipiunt excerpta de opuscoli Decimi Magni Ausonii) 1. La Mosella rientra nella quarta famiglia2. Il poema è infatti presente in tutti i codici della famiglia degli Excerpta, escluso il Parisinus Latinus 4887 (del XII secolo): il Sangallensis (G) del X secolo; il Bruxellensis 5369/73 (B) del secolo XII; il Vaticanus Reginensis 1650 (V = X) del secolo X; il Rhenaugiensis 42 (R) o Turicensis del XII secolo. La Mosella è presente anche nella famiglia Z: si trova infatti nel Laurentianus 51, 13 (L) trascritto da Alessandro Verrazzano nel 1490. Il Laurentianus è una copia del Magliabechianus I 6, 29 (M) del secolo XIV appartenente a Z e giunto a noi senza i fogli comprendenti la Mosella e l’ Epistula Symmachi. Infine l’opera si trova nell’Harleianus 2578 (F) del secolo XV, anch’esso copia del Magliabechianus, ma inferiore al Laurentianus per i numerosi errori e lacune, che lo rendono inutile ai fini della consitutio textus. Poiché la presenza della Mosella in Z si spiega facilmente come conseguenza di una contaminazione,

1

L’uso di classificare di classificare i codici ausoniani in quattro famiglie risale a Peiper ed è rimasto fino a Green, anche se c’è chi, come Mondin ad esempio, ritiene che le ultime tre famiglie possano essere accorpate in una silloge (V=Y) in base ad una presunta origine comune, cfr. Mondin L., 1993.

2

Per un’analisi della tradizione manoscritta della Mosella ed una proposta interpretativa, circa la sua particolare posizione all’interno della tradizione manoscritta ausoniana cfr. Scafoglio G., 2009, ed annessa bibliografia.

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13 gran parte degli studiosi è concorde nel ricondurre il poemetto esclusivamente agli Excerpta. La famiglia degli Excerpta trasmette opere disomogenee e non è chiaro il motivo per cui questa si sia formata. Emerge, dunque, un dato importante: la Mosella, nonostante sia probabilmente il capolavoro ausoniano, non si trova che in un’unica famiglia della tradizione manoscritta, in più il poema non fu molto probabilmente inserito in nessuna delle edizioni autoriali degli Opuscola di Ausonio. Essa circolò quasi sicuramente in autonomia. Proprio partendo dal dato della sua particolare tradizione manoscritta, Scafoglio parla di destinazione provinciale1. La circolazione autonoma della Mosella sarebbe il riflesso di una scelta volontaria di Ausonio, fondata sulle caratteristiche stesse della materia trattata nell’opera, che sarebbe rivolta ad un pubblico selezionato in partenza, quello dei provinciali. L’esaltazione della Gallia Belgica e, dunque, della nuova capitale Treviri innescherebbe una aemulatio, una rivalità con Roma, fino ad allora Caput Mundi. Una rivalità che farebbe della Mosella un prodotto artistico destinato principalmente ai provinciali della Gallia. Anche l’erudizione geografica di cui il poema è intriso, con il suo richiamo ai luoghi della provincia, andrebbe in questa direzione. Per quanto non dimostrabile in termini oggettivi, questa interpretazione della tradizione manoscritta solleva già delle questioni che saranno centrali, a nostro avviso, nell’interpretazione globale del poema. È innegabile, infatti, che, all’interno del poema, la Gallia assume una posizione centrale, mentre Roma e la penisola italica sembrano ridursi a referenti mitico-letterari. Si attua, in un certo senso, un capovolgimento, per cui Treviri diventa centro, mentre Roma periferia. Altra questione da mettere in evidenza e da tenere presente, quando si parla, come fa la Sivan, di una doppia versione della Mosella, è quella legata al problema delle varianti d’autore. Se è vero che il metodo di lavoro ausoniano ha fatto sì che, per una parte della sua opera, gli studiosi potessero rilevare nella tradizione tracce di successivi ritocchi e conseguente possibilità di varianti autoriali, è pur vero che proprio la Mosella sembra sfuggire a tale prassi del poeta e non mostrare segni della presenza di varianti nella tradizione2. L’ipotesi della doppia redazione della Mosella troverebbe dunque un’evidente difficoltà nella storia della tradizione del testo ausoniano.

1 Cfr. Scafoglio G., 2009. 2

Così per Green, editore cui facciamo riferimento. Cfr. anche Cavarzere A., 2003, il quale, pur non essendo d’accordo con alcune scelte editoriali di Green e con il suo scetticismo rispetto alla questione delle varianti d’autore, afferma che la Mosella non risulta nell’elenco di opere trasmesse con varianti nella zone di intersezione dei due insiemi di codici rappresentati dalle raccolte V e Z. Ritiene, dunque, che la Mosella ci sia pervenuta attraverso una via del tutto autonoma rispetto al restante corpus degli Opuscola ausoniani, che questa via conduca ad un singolo archetipo, e che non ci siano in questa tradizione, né possano esserci, tracce evidenti di rielaborazione da parte di Ausonio.

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14 Gran parte delle argomentazioni della Sivan appaiono, se non soggettive, quanto meno controvertibili. Saranno infatti contestate in un successivo articolo di Green1, il quale ribadisce l’unicità della redazione del poema e una datazione collocabile intorno al 371 o poco dopo. Nonostante ciò, l’idea della doppia redazione non è stata abbandonata dagli studiosi, ma portata avanti, seppure con delle modifiche, ad esempio dalla Shanzer2. La studiosa complica il quadro, poiché, a differenza della Sivan, identifica il personaggio misterioso dei vv. 409-414 con Petronio Probo. Almeno per questa sezione, dunque, avremmo il 371 o poco dopo come terminus post quem. Tuttavia il v. 451, con il suo rifermino al consolato, deve essere per forza successivo al 378/9, ma potrebbe essere un’aggiunta successiva, dal momento che l’intera sezione dei vv. 449-453, alludendo a Valentiniano I ancora vivo, non può essere successiva al 375. La Shanzer, al di là degli elementi di cronologia, afferma un altro dato importante nell’analisi dell’opera ausoniana: non si può essere sicuri della partecipazione effettiva di Ausonio alle campagne del 368. Un motivo in più, dunque, per non vedere nella Mosella un “reportage” di guerra né un manuale geografico. Altro elemento per una datazione dell’opera, almeno di una sua parte o di una sua prima redazione, all’anno 371 o giù di lì, sarebbe rilevabile, secondo la Shanzer, da un confronto della Mosella con l’Oratio 2 di Simmaco, pronunciata quasi sicuramente alla corte di Treviri e datata con certezza al 1 Gennaio del 370. La vicinanza di temi tra le due opere ed una fitta rete di allusioni dimostrerebbero che fu Ausonio a prendere spunto dall’orazione di Simmaco e a comporre la Mosella, quasi cogliendo una sfida lanciata dall’oratore romano. Simmaco, tuttavia, l’avrebbe invitato a celebrare il Neckar, un fiume al di là del Reno e luogo di battaglie, mentre Ausonio avrebbe risposto con la celebrazione di un fiume ad Ovest del limes, la placida e pacifica Mosella. Anche questo dato, al di là della sua dimostrabilità, porta con sé tutta una rete di significati non marginali nell’interpretazione del testo. Una nuova prospettiva viene offerta da Luca Mondin3, il quale interpreta i vv. 409-414 come un elogio a Massimino. Questo personaggio, dipinto a tinte fosche da Ammiano4, fu praefectus annonae nel 368 o forse nel 369. In quel periodo Roma era sotto la giurisdizione di Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio, suocero di Petronio Probo. Massimino si trovò fortuitamente a capo di una sanguinosa inchiesta giudiziaria che

1 Green R. P. H., 1997. 2

Cfr. Shanzer D., The date and literary context of Ausonius's Mosella : Valentinian …, 1998; Shanzer Danuta, The

date and literary context of Ausonius' Mosella : Ausonius …, 1998, pp. 284-305.

3 Mondin L., 2003. 4

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15 coinvolse numerosi membri dell’aristocrazia senatoria, accusati di svariati crimini: adulterio, magia, lesa maestà. La fortuna di Massimino fu forse la malattia di Olibrio, il quale passò al lui le pratiche processuali, che, a voler credere ad Ammiano, furono condotte da Massimino con estrema ferocia. Per la sua intransigenza fu premiato da Valentiniano, che gli concesse maggiori poteri e la carica di Vicarius Urbis Romae. Le attività processuali di Massimino si interruppero solo nel 371, quando venne chiamato a corte da Valentiniano. Ausonio avrebbe tessuto, un po’ per cautela un po’ per utilità personale, l’elogio di questo sanguinario homo novus, di oscure origini pannoniche (in un certo senso come lo stesso imperatore Valentiniano), ormai estremamente influente, perché molto apprezzato dall’imperatore. Si comprenderebbe così, dunque, perché Ausonio non avesse offerto all’amico Simmaco copia della Mosella. L’elogio del fosco personaggio non sarebbe certo risultato gradito ad un membro dell’aristocrazia senatoria romana, il quale, tra l’altro, non mancherà di rallegrarsi alla notizia della morte di Massimino1.

Questa breve disamina dei problemi legati alla datazione e alla tradizione del testo ausoniano dimostra come la Mosella sia tutt’altro che un’arcadia senza tempo e senza luogo. Il poema si presenta invece pienamente inserito nelle vicende del suo tempo. Esso risulterebbe incomprensibile senza tener conto delle giuste coordinate spazio temporali. Come vedremo infatti, nonostante nell’opera risulti evidente il dominio della letterarietà sulla realtà, tanto la storia personale di Ausonio, quanto i continui richiami nel testo ad una storia viva e presente, fanno sì che la Mosella non possa essere ridotta ad un divertimento letterario fine a sé stesso, ad un idillio rassicurante. Dietro la pacificazione intravediamo le tensioni e le ideologie di una provincia del tardo impero. La letterarietà mitiga, sublima e, forse, rende evanescente la realtà, ma non la cancella del tutto.

Se, come abbiamo appena affermato, non ci troviamo di fronte ad un gioco letterario tout court, si impone la necessità di un’interpretazione globale del poema che miri ad enuclearne i temi fondamentali, al fine di cogliere, se non un’unica intenzione poetica, almeno alcune idee dominanti, la cui espressione, nella volontà di Ausonio, avrebbero dovuto costituire lo scopo dell’opera. Pioniere nell’interpretazione del poema in chiave politica fu Marx2 nel 1931, il quale interpretò la Mosella come un poema scritto per ordine di Valentiniano ed immaginò una supervisione diretta dell’imperatore durante la composizione dell’opera. La

1

Cfr. Cfr. Simmaco Ep. 10.2.3 che si rallegra della morte di Massimino, definito persecutore dei nobiles e ferox

incubator iudiciorum.

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16 Mosella, dal suo punto di vista, sarebbe stato un inno ed avrebbe avuto lo scopo di rafforzare nei Galli la fiducia nella solidità della frontiera renana ed, in generale, nella potenza dell’impero. La prospettiva politica è stata in seguito seguita da molti altri, anche se con visioni più raffinate e meno meccaniche, abbandonando ad esempio l’idea di una committenza e supervisione diretta dell’imperatore alla stesura dell’opera. In tal senso vanno gli studi di Ternes1, che vede nel paesaggio della Mosella e nella regione di Treviri l’esempio di una perfetta riuscita provinciale. Lo splendido paesaggio mosellano offrirebbe un modello sul quale fondare una futura politica di romanizzazione delle regioni a ridosso o al di là del Reno, sempre minacciate dalle pressioni dei barbari. Una politica di integrazione sarebbe la risposta alla pressione proveniente dall’esterno. Differente la posizione di Martin2, che non vede nella Mosella un’opera di propaganda, bensì il frutto della personale ispirazione ausoniana. Ausonio, al ritorno dalla campagna germanica avrebbe sentito come la valle della Mosella non fosse in alcun modo barbara, ma pienamente greco romana. Il poeta avrebbe voluto, dunque, esprimere le proprie sensazioni in maniera retorica, ma sincera. Roberts3, invece, enfatizza il concetto di limes: il fiume sarebbe una metafora dei limiti che non vanno superati. Il compimento di un limes vero e proprio dipenderebbe dal mantenimento di un equilibrio tra unità e diversità, così come avviene nei fenomeni di riflessione, fenomeni che unificano attraverso assimilazione, mentre mantengono rispetto per ciò che è separato. Sul piano politico una graduale assimilazioni avrebbe avuto più verosimilmente successo con le tribù non romanizzate della frontiera renana rispetto agli schemi della conquista militare. In anni più recenti Scafoglio4 vede espressa nella Mosella un’ideologia pacifista ed anti-militarista, priva di reale coscienza storica, che trova rappresentazione nell’armonia della natura e nella civiltà provinciale, tranquilla e operosa. Altre interpretazioni, pur non abbracciando la prospettiva meramente politica, sembrano comunque dare spessore ideologico e morale al poema. Così Taylor5 che vede la Mosella pervasa dalla metafora dello specchio, dove ai contenuti superficiali, quelli dati dal fenomeno della riflessione (riflessione in uno specchio d’acqua o in uno specchio di metallo), si contrappongono quelli più profondi che spetta all’uomo indagare. La Newlands6, puntando 1 Cfr. Ternes Ch. M., 1983. 2 Cfr. R. Martin, 1985. 3 Cfr. M. Roberts, 1984. 4 Cfr. Scafoglio G., 2003. 5 Cfr. Taylor R., 2009. 6 Cfr. Newlands C., 1988.

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17 l’attenzione sull’aemulatio staziana, ne mette in luce il rovesciamento di posizione. Mentre in Stazio la bellezza delle ville afferma il dominio dell’uomo sulla natura, Ausonio manifesterebbe nei suoi versi una natura autosufficiente e superiore, qualitativamente e moralmente, all’artificio umano. Green1 non si allontana molto dalle tesi della Newlands, poiché ritiene che una delle caratteristiche più straordinarie del poema consisterebbe nel modo in cui il naturale ha la precedenza sull’umano: l’uomo sarebbe subordinato al paesaggio in cui vive e lavora. Opposta la posizione di Kenney2, il quale vede nella Mosella l’elogio di una natura che è comunque prodotto dell’ars, della tecnica umana. In tal senso la valle della Mosella verrebbe contrapposta alla natura selvaggia dell’Hunsrück. Prima di Kenney, Pavloskis3 aveva già sottolineato come la Mosella celebri l’opera umana in quanto modificatrice dell’assetto naturale del paesaggio.

Tutte le posizioni sopra espresse offrono spunti notevoli e legittimano un’ulteriore indagine che abbia lo scopo di rilevare come, dietro il complicato intreccio di temi e reminiscenze letterarie, si celi un quadro ideologico più o meno unitario. È tale quadro a fornire la motivazione ultima della composizione del poemetto.

La prima problematica che si trova ad affrontare chi tenta un commento alla Mosella, è quella della definizione del genere. Sappiamo infatti quanto il genere sia determinante, non solo nella fase finale, quella della recezione che vede impegnato il lettore o l’ascoltatore, ma soprattutto nella fase iniziale, cioè nel momento in cui l’opera viene composta. Sin dalla codificazione alessandrina, siamo consapevoli, insomma, che la dimensione del genere non solo funge da segnalatore per il lettore, ma predetermina le scelte che l’autore stesso è obbligato a fare, nel momento della composizione, se vuole rendere decodificabile e, dunque, comprensibile il proprio testo. Il problema che abbiamo noi lettori della Mosella è appunto quello della decodifica del testo. I termini che abbiamo usato fino ad ora (poema, poemetto, idillio), risultano quanto meno parziali, se non completamente errati. Sono definizioni di comodo che adoperiamo in mancanza di meglio. Inaccettabile risulta la definizione di satura odeporica, fornita da Illuminati4. A ben vedere, infatti, il viaggio è presente soltanto nei primi 11 versi e, come cercheremo di dimostrare, esso non ha che una funzione di pretesto: serve a giustificare quanto segue, cioè l’elogio della Mosella, inserendo 1 Cfr. Green R. H. P., 1989. 2 Cfr. Kenney E. J., 1984. 3 Cfr. Pavloskis Z., 1973, p. 33 e sgg. 4 Cfr. Illuminati L., 1938.

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18 il tutto in una cornice realistica. Anche le altre definizioni che sono state date (æpibatÔrion, inno, epillio, idillio, encomium) risultano inadeguate, poiché continuano ad avere il difetto della parzialità, essendo particolarmente adatte ad alcune sezioni della Mosella, ma totalmente inapplicabili ad altre. Coglie, a nostro avviso, nel segno invece Fontaine1. Secondo lo studioso, nella Mosella Ausonio avrebbe giustapposto 22 temi poetici che costituiscono altrettanti medaglioni epigrammatici alessandrini. Un’idea che trova sostegno anche in La Penna, il quale, parlando della poesia latina tarda in generale, afferma << La poesia latina tardo antica si potrebbe definire un pot-pourri dei vari generi poetici, che perdono la loro identità. Parlare di Kreuzung der Gattungen (incrocio dei generi) è più fuorviante che utile (del resto il concetto, dovuto ad un grande esperto di poesia latina come Wilhelm Kroll, viene accolto e usato troppo spesso acriticamente per la poesia alessandrina e neoterica): nella Kreuzung der Gattungen i generi hanno ancora una loro identità riconoscibile; nella poesia latina il processo è di frantumazione e di rimescolamento, che cancellano l’identità originaria e portano a una facies molto più generica>>2. In effetti, nella Mosella di Ausonio, più che un incrocio di generi si rileva un affastellarsi di immagini, nelle quali i singoli elementi rimandano a diverse matrici letterarie. Lo Stesso Fontaine, a proposito di uno dei tanti medaglioni epigrammatici, quello del catalogo dei pesci (Mos. 75-151), rileva come esso dipenda contemporaneamente dal catalogo omerico, dalle liste della poesia didascalica, dal piacere epigrammatico per le forme e i colori strani. Più che di rispetto di un genere, dunque, preferiremmo parlare di una tecnica compositiva continuamente allusiva, che si giova di un’immensa memoria letteraria. Il poeta dotto Ausonio, dopo aver passato una vita ad immagazzinare un enorme bagaglio di cultura classica, prima come studente e poi come professore, lo investe in una scrittura che è un continuo citare, emulare ed alludere, sia consapevolmente che inconsapevolmente. Anche al di là della volontà dell’autore, la sua cultura emerge continuamente. È questo, a nostro avviso, uno degli assi determinanti nella comprensione della Mosella. Pur vivendo in un epoca ed in un luogo ben diversi da quelli della classicità, Ausonio non smette mai di sentirsi erede di quella tradizione. La cultura greco-romana, dunque, come categoria dell’animo e come carattere identitario di un gruppo sociale. Nonostante, come abbiamo già potuto osservare, alcuni studiosi spingano sull’elemento della conflittualità, o almeno della rivalità,

1 Cfr. J. Fontaine, 1977, pp. 438-445. 2

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19 tra la Gallia belgica e la penisola italica, tra la nuova sede dell’impero a Treviri e la vecchia sede a Roma, è innegabile che, almeno dal punto di vista culturale, tra il vecchio ed il nuovo ci sia continuità.

La Mosella si apre con un brevissimo racconto di un viaggio che Ausonio avrebbe compiuto partendo da Bingen fino ad arrivare a Neumagen.

Transierm celerem nebuloso flumine Navam, addita miartus veteri nova moenia Vingo, aequavit Latias ubi quondam Gallia Cannas infletaeque iacent inopes super arva catervae.

Unde inter ingrediens nemorosa per avia solum 5 et nulla humani spectans vestigia cultus

praetereo arentem sitientibus undique terris Dumnissum riguasque perenni fonte Tabernas arvaque Sauromatum nuper metata colonis;

et tandem primis Belgarum conspicor oris 10 Noiomagum, divi castra inclita Constantini.1

Questi primi versi sono gli unici che facciano riferimento ad un viaggio. Quanto segue è infatti una dettagliata descrizione del fiume e dello scenario che lo circonda. Una descrizione in cui, oltre ad alternarsi l’oggetto dell’osservazione, muta anche il punto dal quale l’oggetto viene visto. Non c’è un logico susseguirsi di immagini che rendano il procedere spaziale di un osservatore da un luogo geografico ad un altro. Il viaggio compare solo in questi primi undici versi, come pretesto, per poi scomparire definitivamente. Una serie di località e luoghi, tutti più o meno identificati dai commentatori2, ci introducono in un modo concreto, ricostruibile. Il percorso pare andare da Bingen, nei cui pressi il fiume Nahe confluisce nel Reno, fino a Kirchberg. Da Kirchberg poi, attraversando l’altopiano dell’Hunsrück, si arriva a Heidenpütz presso Hinzerath. Discendendo l’Hunsrück, si arriva a Neumagen. Bingen è città situata sulla riva destra della Nahe. Fu capitale dei Vingioni. Bingen aveva, sulla Nahe, un ponte che delle

1

L’edizione di riferimento qui prodotta è quella di Green R. P. H., 1999. Per edizioni commentate si veda Ternes Ch. M., 1972; Green R. P. H., 1991; Cavarzere A., Mosella …, 2003; Gruber J., 2013 recensito da Scafoglio G., 2013-2014.

2

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20 truppe ausiliarie (coorti IV Dalamtarum, I Pannoniorum, I Sagittariorum) avevano il compito di difendere sin dal I sec. a. c. Tali truppe vennero poi sostituite, in epoca flavia, da elementi della guarnigione di Magonza. Nel 71 d.c. ci fu una battaglia tra Tutor e i romani guidati da Sextilius Felix. È questa la battaglia cui Ausonio allude al v. 3. Dopo l’invasione del 355 l’imperatore Giuliano dotò la città di un muro di cinta, i nova moenia citati al v. 2. Dunmissum è, invece, identificabile con Kirchberg, una cui frazione, Denzen, recherebbe ancora traccia dell’antico toponimo. Kirchberg era davvero situata in un luogo arido che si procurava l’acqua attraverso una grossa stazione di pompaggio. Mentre la Tabula Peutingeriana, tra Neumagen e Kirchberg, registra Belginum (presso l’attuale Waderath), Ausonio menziona Tabernas. Il sito di Belginum è stato rilevato da ricerche archeologiche svolte sul posto. Il fatto che Ausonio non citi il luogo, indica, forse, che alla sua epoca Belginum non esisteva più. Il riferimento alle tabernae (botteghe, stazioni ad un crocevia), implicito nel toponimo riportato da Ausonio, può far pensare che all’epoca Heidenpütz (nel punto esatto dove la strada discende verso Neumagen) aveva preso il posto di Belginum. Ausonio parla poi di arva da poco spartiti tra coloni Sauromates (v. 9). Il termine Sarmatae può designare in modo generale gli Scythes, cioè dei popoli non celtici secondo la terminologia di Posidonio1. Essendo il criterio idrografico (Celti a sinistra, Sciti a destra del Reno) strettamente utilizzato anche da Dione Cassio (71, 3) e Zosimo (4, 10), è possibile che Ausonio nel verso volesse evocare dei Germani della riva destra. In tal caso l’allusione potrebbe collegarsi all’insediamento di Franchi nella regione di Treviri ad opera di Massimiano (Paneg. 5, 21)2. L’ultimo riferimento geografico è a Neumagen. Secondo O. Hirschfeld3 i castra inclita sarebbero stati una residenza secondaria dell’imperatore.

Come risulta evidente, questa sezione incipitaria è strettamente connessa alla realtà: realtà oggettiva, quella dei luoghi geografici citati, e realtà quanto meno simulata, quella del viaggio. Ci sono, a nostro avviso, due elementi importanti da rilevare. La prima è che questi primi 11 versi assomigliano più ad un catalogo erudito che ad un resoconto di viaggio. I luoghi vengono appena citati senza indugiare troppo su descrizioni. Il movimento del

1 Cfr. Jacoby, F., Fragmente, II C [1926], 169-170. 2

Sia Green sia Cavarzere nei rispettivi commenti ad loc. ricordano che noi siamo a conoscenza di uno stanziamento di Sarmati nel 334 (Origo Constantini 6.32), di una vittoria riportata su di loro da Costanzo nel 358 (Amm. 17.13.25) e di loro disordini affrontati da Valentiniano nel 365 (Amm. 26.4.5). A. Mócsy, 1974, pp. 286-90 collega il luogo con i disordini affrontati da Valentiniano nel 365. Se Mócsy avesse ragione, troveremmo qui, secondo Green un rapido elogio di Valentiniano. L’avverbio temporale nuper non ci è d’aiuto, vista l’indeterminatezza cronologica della sezione d’apertura.

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21 protagonista quasi ci sfugge totalmente. È come se Ausonio saltellasse da un luogo all’altro soltanto per citarlo. La chiave del passo risiede probabilmente nei vv. 5-6, collocati proprio al centro. Il poeta ci fa immaginare una regione desolata (solum v. 5), luoghi impervi (avia v. 5) e boscosi (nemorosa v. 5). In un solo verso si concentra tutto un immaginario della desolazione che trova esplicazione nel verso successivo: nulla humani spectans vestigia cultus (v. 6). Lo scopo del poeta è suggerire una contrapposizione tra regioni selvagge e regioni civilizzate. Le regioni selvagge sono descritte genericamente come abbandonate dalla mano civilizzatrice dell’uomo. La mano dell’uomo cittadino dell’impero romano, ovviamente. Questi primi undici versi hanno come una struttura ad anello, dove ai nova moenia del v. 2 corrispondono gli inclita castra del v. 11. Sia le mura, sia le illustri fortezze sono opere della mano civilizzatrice romana. Al centro si trova una generica, negativa rappresentazione di ciò che romano non è e, di conseguenza, non presenta vestigia cultus humani. Ovviamente, quando diciamo romano, intendiamo imperiale. Non a caso nell’ultima parola del passo, in una sorta di climax ascendente, che materializza un processo di graduale ricongiungimento all’impero, troviamo espressa la figura dell’imperatore Costantino. Risulta ora più chiaro il motivo per il quale, in questa fase iniziale del poema, Ausonio cerca di rimanere attaccato alla realtà. Lo scenario realistico funziona da garanzia e legittimazione del messaggio ideologico sotteso al passo. Il realismo risulta come una prova che Ausonio dà al lettore della verità di quanto sta affermando. In tal senso si può, a nostro avviso, recuperare il concetto di “effetto realtà”, proprio delle teorie di Barthes1, come fa Nugent2, esaminando alcune caratteristiche della poetica ausoniana. In molti testi letterari, rileva Barthes, è possibile rintracciare dettagli apparentemente inutili. Questi funzionano come garanzia della realtà. Soprattutto nella cultura occidentale, ciò che noi definiamo la realtà concreta si contrappone a ciò che è tendenziosamente significativo, che assume un alone di artificialità e, dunque, di fittizio. All’interno di questa opposizione tra ciò che è reale e ciò che è comprensibile, è proprio il dettaglio descrittivo, che sembra andare al di là dell’intenzione del testo, che crea la sensazione di confronto con il realmente reale, dando vita a quella particolare illusione testuale che Barthes chiama l’effetto realtà. Tale prospettiva interpretativa, a nostro avviso, si adatta benissimo al passo appena esaminato. I dettagli geografici di cui Ausonio dissemina il testo non servono a descrivere ma a legittimare quanto segue, inserendolo in un quadro di

1 Per lo studio di Barthes sull’effetto di realtà si veda Barthes R., 1984. 2

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22 realtà, un’illusione di realtà. Lo scopo del poema infatti è la descrizione della splendida valle della Mosella. Questa, per emergere in tutta la sua bellezza, deve essere contrapposta alle squallide zone geografiche esterne alla valle. Queste zone, tuttavia, non possono essere semplicemente bollate, in maniera generica, come brutte e desolate, come Ausonio fa ai vv. 5-6. Il lettore sarà più portato a credere a quanto affermato ai vv. 5-6, trovando, negli altri versi, un solido aggancio alla realtà. Ecco perché, già nel titolo, abbiamo parlato di viaggio come pretesto. Il viaggio non ha un valore in sé, non è nemmeno importante se sia stato davvero compiuto da Ausonio. Esso ha la funzione di pretesto, per poter giustificare e legittimare quanto segue. Con la scusa del viaggio, Ausonio contrappone zone barbare a zone civilizzate e legittima così il successivo elogio della valle della Mosella. Allo stesso tempo garantisce la veridicità di quanto affermerà nei versi successivi, attraverso un continuo ricollegarsi alla realtà nei primi undici versi. Il “realismo” incipitario permette al poeta, nei versi successivi, di descrivere la vallata della Mosella con un realismo non altrettanto spiccato. Tracce di questa diversa maniera di rapportarsi al reale sono già evidenti in questa prima sezione dell’opera, in particolare ai vv. 3-4. Il dato concreto delle nuove mura di Bingen è seguito dalla rievocazione di una battaglia avvenuta quasi trecento anni prima, lo scontro del 71 d.c. cui abbiamo accennato sopra. Il dato è notevole poiché parla di cadaveri che ancora giacciono sul suolo insepolti, cosa chiaramente irrealistica, dato l’enorme lasso di tempo trascorso. Il v. 4 contamina Verg. Aen. 6. 325 haec omnis, quam cernis, inops inhumataque turba est con Aen. 11. 372 nos animae viles, inhumata infletaeque turba, dove super arva corrisponde ad inhumata e le catervae sostituiscono la turba virgiliana. La Posani, facendo riferimento al fatto che Ausonio usi nello stesso verso sia inopes sia catervae, afferma <<Ausonio ha sentito il bisogno di metterceli tutti e due. E questa esasperata ricerca di drammaticità ci lascia piuttosto perplessi>>1. Meno perplessi si può rimanere, a nostro avviso, se si tiene in considerazione l’andamento generale dello stile ausoniano, nonché le particolari intenzioni comunicative del passo in questione. Non è difficile rilevare come di continuo Ausonio si serva di ripetizioni, ridondanze, aggiunte che danno la sensazione di una scrittura a volte pesante. Non a caso Cavarzere, esaminando molti luoghi della Mosella, ha parlato di stile additivo2. Ausonio non si accontenta di denotare, ma cerca sempre nuovi strumenti connotativi, con lo scopo di stupire e

1 Cfr. Posani M. R., 1962, p. 53. 2

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23 sorprendere il lettore, che si trova come impigliato in una ragnatela di allusività e di erudizione. Come nel caso dei vv. 3-4, dove la contaminazione dei due passi virgiliani ci spinge ad andare ad esaminare direttamente le fonti. Come rileva Cavarzere1, il ricordo del primo passo virgiliano imitato da Ausonio (Aen. 6.325) <<in cui la Sibilla indica ad Enea la folla degli insepolti che si accalcano sulle rive dello Stige, nella vana speranza d’essere traghettate da Caronte, finisce con l’assimilare la traversata della Nahe a quella della palude infernale>>. Nel secondo passo virgiliano, Drance lamenta che, a causa di Turno, il popolo, plebe insepolta e illacrimata, venga stroncato in campo aperto. In questo caso si fa, dunque, riferimento ad un contesto bellico. Tenere presente le fonti ci aiuta a comprendere meglio il passo ausoniano. Le zone a ridosso del Reno si presentano, allo stesso tempo, come luoghi di possibili conflitti e come linee di confine, così come lo Stige è una linea di confine. Citare una battaglia avvenuta quasi trecento anni prima serve a creare una messa a distanza rassicurante: i mali della guerra appartengono ad un tempo remoto, ormai la zona è rassicurata dai nova moenia di Bingen. Nonostante ciò, i corpi insepolti, inverosimilmente ancora presenti sul campo, servono da monito: il pericolo è sempre alle porte e bisogna serbarne memoria. In tal senso si comprende quella drammaticità che, nel suo scritto del 1962, lasciava perplessa la Posani. Ausonio non drammatizza una battaglia avvenuta trecento anni prima, ma, attraverso il ricordo di essa, enfatizza il pericolo ancora concreto nelle zone di confine. La pacificazione è stata ottenuta, come dimostreranno nei versi successivi i castra divenuti horrea, ma non è un bene acquisito una volta per tutte. Va continuamente preservato.

Altro elemento tematico da rilevare in questi primi versi è la comparazione tra la Gallia e Roma. Ausonio stabilisce un’equazione tra due fatti storici: gli scontri del 71 d.C., presso Bingen, hanno eguagliato quelli di Canne (216 a. C.). Due dati sono rilevanti. Il primo consiste nel fatto che nessuno dei due elementi di paragone ne esce sminuito. Aequavit serve proprio a dare il senso di due cose che stanno alla pari. Nessuna delle due ha la meglio sull’altra. In tal senso trova conferma l’ipotesi che Ausonio voglia sì avvicinare l’antica Roma alla recente Gallia, ma senza creare contrapposizione tra di loro. Più che rivalità, c’è un portare avanti, anche nel rinnovato contesto provinciale, gli antichi mores. Treviri non scalza Roma, ma ne porta avanti l’eredità culturale. Il secondo dato da rilevare è deducibile dalla contestualizzazione dei periodi storici presi in considerazione al v. 3. Da una parte abbiamo

1

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24 la battaglia di Canne, dall’altra probabilmente la sconfitta di Sextilius Felix del 71 d.C. Quella di Canne fu una sconfitta disastrosa e che espose Roma ad un pericolo enorme. Fu uno dei momenti in cui più la città vide messa in discussione la propria stessa sopravvivenza. Tuttavia la storia andò poi diversamente e Roma rimase la città eterna, divenendo impero. Forse, agli occhi di Ausonio, la situazione del IV sec. d.C. non era poi tanto diversa. Come abbiamo detto, la battaglia del 71 d.C. getta la sua ombra nefasta su tutta la storia successiva fino ad arrivare all’epoca ausoniana, quella cui il poeta pare realmente interessato. Durante tutto il III secolo, la fase dell’anarchia militare espose l’impero a gravi rischi, come dimostrato dai raid germanici del 270 che misero in ginocchio buona parte della regione di Treviri. Gli imperatori che vennero dopo la riforma tetrarchica dioclezianea tentarono di risolvere la questione del limes germanico, ma il problema delle pressioni dall’esterno rimase sostanzialmente irrisolto. Le stesse campagne di Valentiniano, cui forse Ausonio partecipò, non ottennero risultati definitivi. Ecco perché il rischio che Roma corse a Canne, al tempo di Ausonio può essere sentito come un fatto di estrema attualità. È mutata però la geografia e dunque la prospettiva. Ora il pericolo non viene da Sud, come al tempo di Annibale, ma da Nord, più precisamente da quel Nord-Est segnato dal limes renano. Per questo motivo Diocleziano aveva pensato a Treviri come una delle nuove capitali dell’impero tetrarchico, insieme a Nicomedia e Mediolanum. Questi nuovi centri amministrativi non dovevano rivaleggiare con Roma, ma tutelare l’impero romano, esserne in un certo senso le sentinelle, trovandosi molto vicine alle zone militarmente più problematiche. Treviri non si può opporre a Roma, perché il suo scopo è proprio quello di preservare l’impero romano. Visto sotto questa nuova luce, un paragone che poteva sembrare sproporzionato e fuori luogo acquista un chiaro valore ideologico.

Purior hic campis aer Phoebusque sereno lumine purpureum reserat iam sudus Olympum nec iam conserits per mutua vincula ramis

quaeritur exclusum viridi caligine caelum, 15 sed liquidum iubar et rutilam visentibus aethram

libera perspicui non invidet aura diei.

In speciem quin me patriae cultumque nitentis Burdigalae blando pepulerunt omnia visu:

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25 culmina villa rum pendentibus edita ripis 20

et virides Baccho colle set amoena fluenta subterlabentis tacito rumore Mosellae.

Appena fuori dalle terre selvagge, Ausonio approda alla valle della Mosella. Lo scopo del passo è quello di rappresentare un’opposizione tra i due paesaggi. È stato più volte rilevato dai commentatori come questi versi siano ricollegabili alla descrizione virgiliana dell’Elisio1 in Aen. 6.637-41. Interessante anche la reminescenza di Apuleio Met. 11.7.5 caelum autem nubilosa caligine disiecta nudo sudoque luminis proprii splendore candela, che descrive il manifestarsi di Iside a Lucio, accompagnato dal tripudio della natura. Secondo la Fuoco, la reminiscenza virgiliana e quella apuleiana contribuiscono <<ad assimilare la manifestazione del paesaggio mosellano ad un evento miracoloso>>2. Il punto è ora comprendere in cosa consiste la rivelazione cui Ausonio assiste. La Fuoco enfatizza il dato dell’esperienza visiva, come determinante nella celebrazione della Mosella. La studiosa crede, infatti, che il nucleo contenutistico dell’opera risieda nella rappresentazione della natura stessa. Provenendo dalle regioni desolate dell’Hunsrück, Ausonio rimarrebbe irretito nei giochi visivi, a volte anche illusori, offerti dallo splendore naturalistico della vallata della Mosella. Diversa la prospettiva di Martin3, secondo il quale Ausonio, come Apuleio, può essere visto come un iniziato che è andato agli Inferi ed è poi tornato alla luce, la luce della verità. La verità che Ausonio apprende e trasmette a noi è la greco-romanità della regione di Treviri. Tutto il resto del poema non sarebbe altro che una rappresentazione di tale intuizione. Martin ricorda a riguardo il concetto di “maître-sens” che Claude Lévi-Strauss propone in un testo di Tristi Tropici. Secondo l’antropologo francese ogni paesaggio si presenterebbe all’inizio come un immenso disordine che lascia libero di scegliere il senso che si preferisce dargli, fino al momento in cui un’intuizione globale permette di scoprire il maître-sens, il senso che precede, comanda e spiega tutti gli altri. Per Ausonio il maître-sens sarebbe la scoperta della greco-romanità della regione mosellana. Questa interpretazione mette in rilievo il dato della non autoctonia di Ausonio. Il poeta era originario dell’Aquitania e a Treviri si sarebbe sentito comunque uno straniero, costretto a vivere in una regione sostanzialmente nordica. La

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Cfr. Sia il commento di Green che quello di Cavarzere ad. loc. In generale per l’uso che Ausonio fa di Virgilio si veda Goerler W, 1969.

2 Cfr. Fuoco O., 1993, p. 332. 3

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