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Abbiamo visto nel capitolo precedente che la generalizzazione del modello di potere della signoria territoriale nelle campagne nei decenni intorno al 1100 determinò, nei centri rurali a esso soggetti, un generale appesantimento degli oneri gravanti sulla società contadina e una nuova capacità di appropriazione del surplus agrario da parte dei signori; un processo che avvenne attraverso l’imposizione e la formalizzazione di diritti di comando decisamente più ampi e articolati rispetto al periodo precedente. Le forme di coercizione e di prelie- vo che si cristallizzarono in questo periodo risultarono infatti più pervasive ed efficaci localmente rispetto alle prerogative tipicamente associate con la signoria fondiaria o alle tradizionali modalità di esercizio del potere pubblico. Limitarsi a questa constatazione sarebbe tuttavia superficiale e, in ultima analisi, sostanzialmente scorretto. Fermarsi alla superficie del mutamento si- gnorile significa infatti trascurare le morfologie sociali locali, e cioè l’ambito in cui concretamente vivevano gli uomini dell’epoca, il contesto di relazioni sociali, politiche ed economiche in cui essi agivano quotidianamente. Bisogna invece cercare di indagare e comprendere la natura delle trasformazioni in- nescate all’interno delle società di villaggio dal mutamento signorile; occorre cioè analizzare come esso abbia modificato le relazioni e i circuiti sociali ed economici, rimodellando le gerarchie locali e i percorsi di mobilità di grup- pi e di singoli individui1. La signoria territoriale non deve insomma essere

1 Fondamentali indicazioni di metodo riguardo a queste dinamiche in Carocci, Signorie di Mez-

vista semplicemente come uno strumento di estrazione di risorse materiali e simboliche, ma anche come un mezzo di redistribuzione delle stesse all’in- terno delle società locali. Proprio attraverso queste dinamiche essa risultò in grado di ristrutturare e rimodellare lo spazio sociale, in misura più o meno marcata a seconda dei differenti contesti. Questo aspetto è fondamentale per comprendere la sua capacità non solo di affermarsi, ma anche di stabilizzarsi e di imporsi, per un lungo periodo, come il modello politico principale degli assetti di potere rurali. Se l’impiego della forza e della coercizione giocaro- no indubbiamente un ruolo importante – nel travagliato contesto dell’epoca – nel processo di affermazione della signoria territoriale, è impensabile che quest’ultima si basasse esclusivamente su tali elementi. Proprio il processo di ristrutturazione interna delle comunità soggette, intimamente connesso alla dimensione redistributiva del dominatus loci, risultava infatti fondamentale per costruire quel consenso locale di cui ogni potere necessita per potersi ri- produrre con successo nel corso del tempo2.

Per quanto riguarda lo specifico tema degli assetti sociali interni delle so- cietà di villaggio nel periodo tra la fine del secolo XI e il XII, negli ultimi due decenni la ricerca italiana è stata fortemente influenzata dal modello proposto da Chris Wickham nel suo fondamentale studio sulle comunità della Piana di Lucca, che ha rappresentato un vero momento di svolta nello studio delle mor- fologie e dei circuiti sociali ed economici locali3. Tuttavia quello proposto dallo

studioso britannico risulta un modello solo parzialmente utilizzabile per quan- to riguarda l’analisi alle comunità soggette a poteri signorili territoriali. Esso risulta infatti costruito sulla base delle evidenze empiriche legate a un territo- rio, come quello delle Sei Miglia lucchesi, fortemente segnato dalla vicinanza della città (e dalla presenza politica del nascente comune urbano), anche quan- do i centri rurali in esso compresi, come nel caso di Moriano, erano soggetti a poteri signorili. Se dunque questo modello risulta indispensabile come guida per comprendere le forme e gli assetti dei territori rurali più strettamente inte- grati con ambiti urbani, va invece adottato con molta più prudenza quando ci si sposta più lontano dalle città, negli spazi autenticamente signorili, decisamen- te maggioritari nelle campagne italiane fino almeno alla fine del XII secolo4.

Per capire intuitivamente lo iato esistente tra il “modello della Piana luc- chese” e la realtà dei centri signorili basti pensare che nel primo la dimensio- ne militare delle élites di villaggio risulta piuttosto debole o addirittura del tutto assente, mentre la centralità dei milites risulta sostanzialmente il primo dato che balza all’occhio in qualsiasi analisi della documentazione relativa alle comunità rurali soggette a veri e propri domini. Ed è esattamente da que-

2 Su questi aspetti, Collavini, Signoria ed élites rurali; si veda anche Fiore, Signori e sudditi,

pp. 248-263.

3 Wickham, Comunità e clientele. Sulla ricezione da parte della storiografia italiana di questo

volume Provero, Dalla realtà locale alla complessità.

4 Come del resto era ben consapevole lo stesso autore; si veda Wickham, Comunità e clientele,

sto dato che vorrei partire per cercare di capire la profondità e la dimensione della ristrutturazione degli assetti locali innescata dal mutamento signorile, per passare poi all’analisi degli strati inferiori della società di villaggio. 1. Le élites di villaggio e la loro militarizzazione

Il processo di ristrutturazione dello spazio sociale innescato dall’afferma- zione della signoria territoriale si innervò nel quadro di elevata e crescente conflittualità bellica locale descritta in precedenza, e ciò si ripercosse inevi- tabilmente sulla cristallizzazione dei nuovi assetti nei decenni a cavallo del 1100. Abbiamo infatti visto che la diffusione e la generalizzazione del domina- tus loci nelle campagne fu strettamente connessa al forte incremento dell’at- tività militare verificatosi a partire dagli ultimi decenni del secolo XI. In un contesto di guerra endemica, per i signori agire sulla scena politica locale si- gnificava innanzi tutto difendersi dai nemici, espandersi a danno dei vicini, come pure affermare il loro potere su sudditi non sempre ben disposti: tutte azioni che necessitavano un forte uso di risorse umane a scopo bellico. I do- mini avevano quindi un estremo bisogno di ausiliari bene addestrati e mobi- litabili con facilità, per rispondere efficacemente a queste esigenze, in misura assai superiore rispetto al passato, quando il livello della violenza locale era decisamente più limitato e la dimensione militare del potere aveva un ruolo strutturale molto più ridotto5. Il mutamento signorile implicò quindi non solo

una militarizzazione delle società locali, ma anche una trasformazione del- le loro gerarchie interne in grado di massimizzare il numero degli ausiliari armati a disposizione dei domini: un dato che è centrale per comprendere modalità ed esiti di tale processo.

Un primo punto di osservazione per cogliere la netta militarizzazione della preminenza sociale all’interno della società di villaggio nel periodo a cavallo del 1100 è lo slittamento semantico dell’espressione boni homines. Tradizionalmente essa indicava i maggiorenti locali, sia a livello schiettamen- te locale, sia sovralocale, e connotava un ruolo di spicco pubblicamente rico- nosciuto, anche da parte degli ufficiali regi6. Questa etichetta veniva attribu-

ita ai personaggi che assistevano in posizione di un qualche rilievo ai placiti tenuti dagli ufficiali pubblici, come pure agli estimatores che intervenivano in occasione delle permute che vedevano coinvolti enti ecclesiastici, per veri- ficare il reale valore dei beni coinvolti. Erano insomma i riconosciuti garan- ti dell’ordine locale, in virtù della loro posizione eminente all’interno della società di villaggio. Nel nostro periodo, nei centri rurali signorili dell’Italia centrale, l’espressione diventa invece un perfetto sinonimo di milites, e va

5 Sulla sostanziale invisibilità della caratterizzazione militare delle élites locali nella zona in-

torno a Poggibonsi, in Toscana, nel primo trentennio del secolo XI, si veda Collavini, I beni

fiscali in Tuscia.

quindi a indicare il gruppo di guerrieri a cavallo strettamente legati, proprio in virtù della loro capacità militare, al signore, il più delle volte a lui vincolati da legami di fedeltà personale7. Le fonti a nostra disposizione sono numero-

se e molto esplicite a riguardo, e basteranno pertanto un paio di esempi per dare conto di questa stretta identificazione. Nello stabilire una serie di pesan- ti obblighi materiali connessi alla costruzione della nuova chiesa monastica, l’abate farfense Berardo (II), nel 1097, escludeva tra i suoi sudditi solamente i «bonos homines idest equitum personas»8. Negli stessi anni, nel dominio dei

Marchiones, nell’Umbria settentrionale, i detentori di feora (feudi) signorili erano collettivamente indicati come boni homines9. Da una caratterizzazione

piuttosto vaga, legata a una posizione di spicco all’interno del contesto locale, e basata su dinamiche possessorie e relazionali, si passa dunque a una più precisa, dal contenuto schiettamente militare, il più delle volte arricchita da una dimensione vassallatica: preminenza all’interno della società di villaggio e profilo militare erano ormai percepite, già allo scorcio del secolo XI, come due caratteristiche inscindibili. Sempre negli anni successivi al 1080, come vedremo meglio in seguito, nelle carte di patto o franchigia che regolavano i rapporti tra il dominus loci e la comunità locale si affermò del resto, in modo molto chiaro, una bipartizione di quest’ultima tra milites e rustici; una lettura del contesto sociale che risulta invece del tutto assente invece dai più rari testi di questo tipo risalenti al periodo precedente10.

In quest’ottica un importante elemento strutturale di cui tenere conto è che, in via generale, la coercizione brutale dei sudditi, cruciale per imporre e consolidare il dominio signorile, risultava più facile e agevole quanto più il gruppo di chi esercitava la violenza era chiaramente distinto e separato dalla massa della popolazione soggetta. Più marcata era la differenza sociale e di status tra i due gruppi, e quindi il tasso di segmentazione delle singole comuni- tà di villaggio, e più semplice era il controllo della società locale. Una comunità coesa e compatta, in grado di esprimere e gestire autonomamente il suo poten- ziale militare, poteva infatti opporsi con successo al dominio signorile, special- mente se dotata di uno spessore demografico di un certo rilievo. Per quanto riguarda il nostro periodo gli esempi in questo senso non mancano certo: dai combattivi homines della Val di Scalve, in grado di imporsi con le armi contro il vescovo di Bergamo strappandogli il controllo di alcuni centri alpini, alle comunità di centri rurali del Piemonte meridionale come Gamondio, Marengo e Novi, capaci di affermarsi con successo come attori politici indipendenti no- nostante antagonisti del calibro dei marchesati aleramici dell’area11. Proprio il

7 Per una discussione generale di questo tema Brancoli Busdraghi, “Masnada” e “boni homi-

nes”.

8 Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, V, doc. 1154 (a. 1097 c.), p. 158.

9 Documenti per la storia di Arezzo, I, doc. 289 (a. 1098), pp. 395-396; si veda Tiberini, Origini

e radicamento, pp. 510-512.

10 Per una discussione di questo specifico punto si veda oltre, capitolo 4.2. 11 Per un’ampia discussione di questo tema si veda oltre, capitolo 5.2.

convulso periodo dei decenni a cavallo tra XI e XII, con i suoi fluidi e instabili assetti di potere, dovette anzi favorire processi di questo tipo, come vedremo più nel dettaglio nel prossimo capitolo. Ciò che qui più ci interessa è che i si- gnori, proprio per l’esistenza di comunità autonome di questo tipo, dovevano essere ben consci di questi possibili sviluppi e si muovevano per ridurre il più possibile il rischio che si concretizzassero. Per fare ciò, nella prospettiva dei domini loci era dunque indispensabile strutturare, all’interno della società di villaggio, uno specifico segmento dotato di capacità militari (ma anche più ge- nericamente di controllo sociale) che si identificasse il più possibile con il si- gnore e con la sua rappresentazione delle relazioni sociali e di potere, e potesse trarre profitto (materiale e simbolico) da questa sua prossimità ai domini, se- parandosi dalla massa della società contadina. Vedremo più avanti, analizzan- do in modo specifico il ruolo strutturale della violenza nella riproduzione del sistema di dominio signorile, come non solo il combattimento a cavallo, ma an- che l’esercizio, spesso brutale, della forza sui contadini soggetti rappresentino importante momenti di condivisione, che affratellano i signori e i loro milites, altrimenti separati da livelli di ricchezza e potere ben diversi, collocandoli su un gradino differente rispetto al resto della società rurale12.

I vantaggi materiali connessi all’appartenenza a questo gruppo erano di due tipi: la concessione di terre e di altri beni, e l’esenzione totale o parziale dei prelievi signorili gravanti sui rustici. Per quanto riguarda i meccanismi di eccettuazione dalla fiscalità essi appaiono strettamente connessi con l’at- tività militare a cavallo al servizio del dominus loci. L’acquisto e il mante- nimento di un destriero e dell’equipaggiamento bellico era dispendioso, e partecipare alle azioni militari non era certo privo di rischi; il signore offriva come diretta contropartita di questo servitium l’esenzione, generalmente to- tale o quasi totale, dalla regolare tassazione. Questa connessione tra attività militare e privilegi di carattere fiscale è affermata con grande chiarezza non solo in diversi atti pattizi, ma anche in testi di altro genere, come le ricogni- zioni di servizi dovuti al dominus13. In una convenzione del 1125 tra l’abate

di Nonantola e gli «homines de Sancto Mariano qui milites dicebantur» si specificava con grande chiarezza che se costoro non avessero mantenuto i cavalli e non avessero svolto i compiti militari a loro attribuiti sarebbero stati trattati come gli altri uomini soggetti al potere signorile dell’abate, impiegati nelle corvées e tenuti a versare i tributi «secundum usum nostrorum opera- riorum hominum», anche se, in ogni caso sarebbero stati comunque soggetti al pagamento della decima14. Analogamente i beni concessi «in feudo militi-

12 Si veda oltre, capitolo 10; importanti riflessioni su questo tema in Collavini, Sviluppo signo-

rile.

13 Come il breve relativo al castello di Pernina, nell’Aretino, redatto all’inizio del XII secolo,

edito in Fabbri, Statuti e riforme, n. 2, pp. 344-346; un’analisi di questo testo in Carocci, Le

lexique du prélèvement seigneurial.

14 Tiraboschi, Storia dell’augusta badia di Nonantola, doc. 236 (a. 1125), p. 236; a riguardo

bus» dal vescovo di Pistoia erano esenti dai gravami che pesavano sulle terre dei semplici rustici15.

Per quanto riguarda invece la concessione di beni, essa poteva avvenire per via feudale, ma anche attraverso altri sistemi (enfiteusi, precaria, ecc.). Anche nella stessa località un singolo miles poteva tenere in godimento dal suo signore terre a titolo diverso. Così nella prima metà del XII secolo, in un castello appartenente agli Este, diversi membri dell’élite di villaggio dispo- nevano di mansi loro concessi in feudum e di altri attribuiti loro con forme giuridiche differenti (plausibilmente più facilmente revocabili da parte del signore); così Umberto «bastardus» godeva dell’usufrutto di sette mansi com- plessivi, di cui solo quattro «de feudis»16. I livelli dei beni tenuti in concessio-

ne erano assai diversi a seconda dei singoli casi, anche all’interno della stessa località. I milites nonantolani di San Mariano detenevano appezzamenti della dimensione standard di 100 pertiche di 12 piedi ciascuna, ma questa unifor- mità sembra più un’eccezione che la regola17. Nel castello estense menzionato

in precedenza i milites locali tenevano in concessione beni che variavano dai cinque agli otto mansi, ciascuno affidato in sub-concessione a una diversa famiglia di coltivatori18. Ben più ampio il terreno, in gran parte incolto, che il

vescovo di Fermo diede in enfiteusi nel 1135 a due suoi boni homines, Guar- musa e Corrado, esteso su una superficie di ben 200 moggi, su cui comunque risiedevano una dozzina di «mainade hominum»19; è peraltro più che plau-

sibile un patrimonio fondiario così ampio comprendesse, oltre alle aziende agrarie delle singole famiglie contadine, anche beni dominicali, gestiti grazie alle corvées dei rustici. Del resto intorno al 1110 anche un semplice scutifer dipendente da un vassallo diretto del vescovo di Padova aveva come parte del suo beneficio feudale una piccola curtis in cui prestavano servizio i con- tadini da lui direttamente dipendenti20. È comunque il numero di famiglie

di rustici a costituire il più sicuro indice di ricchezza dei milites. Se talvolta, come abbiamo visto, queste potevano aggirarsi sulla mezza dozzina, in alcu- ni casi erano ben più numerose. Così nel 1105 i fratelli Giovanni e Alberto, residenti a Poggio San Giuliano, ottennero dal vescovo di Fermo in enfiteusi ben ventuno «caseate» contadine con le rispettive terre, situate nel territo- rio dell’importante castello episcopale21. Nel 1117 invece Petrus de Sulico te-

neva «per feudum» ben quindici «casae massariciae» nel grande castello di

15 Regestum Chartarum Pistoriensium. Vescovado, n. 21 (a. 1132), pp. 22-35. Per una panora-

mica generale su questi meccanismi eccettuativi, Provero, Le parole dei sudditi, pp. 129-131.

16 Codice diplomatico padovano, II, doc. 525 (a. 1150 c. ma prima metà XII secolo), pp. 382-383. 17 Tiraboschi, Storia dell’augusta badia di Nonantola, doc. 236 (a. 1125), p. 236.

18 Codice diplomatico padovano, II, doc. 525 (a. 1150 c. ma prima metà XII secolo), pp. 382-383. 19 Liber iurium, doc. 295 (a. 1135), pp. 536-537.

20 Codice diplomatico padovano, II, doc. 526 (a. 1150 c.), pp. 383-384; le testimonianze con-

tenute in questo documento si riferiscono ai decenni precedenti, e, nello specifico caso che ci interessa all’episcopato del vescovo padovano Pietro (secondo decennio del XII secolo).

Porto, nel Veneto meridionale22. Le fonti farfensi relative ai decenni a cavallo

del 1100 mostrano del resto gli «equites» residenti nei castelli del monastero sempre pronti ad approfittare delle tensioni ai vertici abbaziali per strappare ai monaci le famiglie locali di contadini («angariales») per porle sotto il loro diretto controllo, con grave detrimento delle entrate della congregazione23.

Non bisogna tuttavia dimenticare che le terre, e i diritti sugli uomini che le coltivavano, non costituivano l’unica risorsa economica nelle mani di questo gruppo, come mostrano ad esempio le concessioni di mulini, che dovevano rappresentare un’altra importante fonte di profitto nel contesto rurale dell’e- poca, o ancora, in misura assai minore, di porti fluviali24.

I vantaggi che questo gruppo sociale traeva dalla sua relazione con il si- gnore non si esaurivano tuttavia, come già osservato in precedenza, nell’ac- quisizione di risorse di carattere economico. Il legame con il dominus forniva ai milites anche l’accesso a un capitale immateriale e simbolico, che permet- teva loro di ridefinire il proprio status all’interno della comunità di villaggio. Sotto questo profilo un elemento centrale è costituito dall’esercizio del potere sugli uomini, che li avvicinava al signore e li distanziava dal resto dei sudditi. Non si tratta solo del potere esercitato in qualità di ausiliari o di uf- ficiali del dominus, ma delle prerogative di signoria personale sui contadini dipendenti25. I benefici feudali, enfiteutici o livellari con cui questi personaggi

erano retribuiti comprendevano infatti anche i servizi delle famiglie contadi- ne che lavoravano sulle terre concesse: versamenti di censi in moneta e in na- tura o prestazioni di lavoro. Come abbiamo visto in precedenza il numero di famiglie dipendenti da ciascun miles (a titolo beneficiale e/o allodiale) poteva variare da pochissime a oltre una decina, con una differenziazione economica rilevante, ma ciò che qui interessa è che i membri del gruppo esercitavano nel complesso questo tipo di prerogative26. Inoltre essi erano esclusi dalle umi-

lianti e fisicamente gravose corvées (nei campi o negli incolti) a cui erano te- nuti i semplici rustici. Ciò non significa che i milites non fossero tenuti a effet- tuare altri servizi al dominus a fianco di quelli strettamente militari; tuttavia si trattava di prestazioni che rimarcavano la loro differenza di status, come l’ospitalità nei confronti del signore o dei suoi inviati, l’impiego in qualità di messaggeri, o il versamento di censi puramente ricognitivi per le terre tenute a vario titolo in concessione. Se escludiamo quelle di natura militare, si tratta di prestazioni dal valore prevalentemente formale e ricognitivo, volte cioè a

22 Codice diplomatico padovano, II, doc. 88 (a. 1117), pp. 70-72. 23 Gregorio di Catino, Chronicon farfense, II, pp. 299-313.

24 Liber iurium, doc. 224 (a. 1095), pp. 415-416 (mulino); doc. 292 (a. 1140), pp. 533-534 (mu-

lino); doc. 87 (a. 1104), pp. 185-186 (concessione della terza parte di un «portus»); Le carte di

S. Croce di Sassovivo, I, doc. 127 (a. 1100), pp. 194-195 («vasallus» di una chiesa che tiene in

concessione un mulino).

25 Ha insistito con forza su questo punto, relativamente all’Italia meridionale, Carocci, Signorie

di Mezzogiorno, pp. 471-499.

26 Nel 1105 due fratelli ricevettero ad esempio in beneficio dal vescovo di Fermo ben 21 famiglie

riaffermare simbolicamente e pubblicamente la propria dipendenza, ma an- che a impedire un’allodializzazione dei beni fondiari tenuti in beneficio27. Così

a Poggio San Giuliano, nelle Marche, i personaggi che erano tenuti a «servire