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Dopo la lunga parentesi dedicata al ruolo e all’azione dei poteri colletti- vi in ambito rurale, nella seconda parte del lavoro l’attenzione ritornerà, in modo ancora più specifico, sul mondo della signoria territoriale, con un’ana- lisi dei discorsi politici e delle pratiche di potere che caratterizzano tale mo- dello sociale e politico. È questo il punto di osservazione che ho scelto per analizzare più nel dettaglio le relazioni interne al mondo aristocratico, come pure quelle tra signori e sudditi. Le ricerche degli ultimi decenni hanno del resto mostrato come la cultura del potere costituisca indubbiamente una via di accesso privilegiata per analizzare i processi di trasformazione degli assetti sociali e politici1. I discorsi pubblici di potere costituiscono infatti un prezioso

indicatore per cogliere le dinamiche che interessano il corpo sociale nel suo insieme, come pure i suoi segmenti. In questo senso l’analisi del sistema com- plessivo di tali linguaggi rappresenta l’ideale pendant dell’indagine condotta nella prima parte del volume sui concreti assetti sociali e politici. Si tratta infatti di comprendere se e in che misura la trasformazione delle strutture di potere si ripercuota sulla lettura della realtà sociale e politica da parte degli attori, così come sui modi da questi ultimi selezionati per incidere sulla realtà stessa. Se sotto il profilo cronologico il perno della discussione sarà sempre sul periodo tra il 1080 e il 1130, farò comunque uso (ma sempre con un molta prudenza) di fonti posteriori, qualora esse ci consentano di gettare una luce migliore su dinamiche solo accennate e adombrate nei testi più antichi, man-

1 Un ottimo esempio in questo senso è costituito dal recentissimo Gamberini, La legittimità

tenendo tuttavia una particolare attenzione a non proiettare indebitamente sviluppi successivi sull’epoca oggetto dell’analisi.

Prima di iniziare il percorso di ricerca è tuttavia opportuno spendere qualche riga per spiegare meglio il carattere dell’operazione che cercherò di effettuare nei prossimi capitoli, come pure i suoi presupposti.

Quello sulle culture politiche costituisce indubbiamente un importante filone della ricerca in ambito storico degli ultimi decenni. Per quanto riguar- da il più specifico ambito della medievistica italiana si può osservare una fo- calizzazione di questo tipo di ricerche sul tardo medioevo, per la ricchezza delle fonti che consentono di seguire meglio queste piste di indagine2. I lin-

guaggi politici si sono infatti imposti negli ultimi quindici anni come tema di ricerca cruciale nella storiografia sul tardo medioevo italiano, a partire dagli ormai ricchissimi studi sui territori viscontei, che ancora oggi costituiscono sicuramente il campo di elezione privilegiato per questo tipo di indagini3. Se

la preponderanza delle ricerche tardo-medievistiche risulta ancora oggi del tutto evidente, più di recente si può invece osservare una nuova attenzione per i secoli anteriori al Trecento, che, almeno per quanto riguarda la Peni- sola, costituiscono una fase ancora poco esplorata sotto questa prospettiva, in grado di dire ancora molto, come ha dimostrato il recentissimo volume di Luigi Provero sulla cultura politica contadina nelle campagne piemontesi del Duecento4.

Il periodo a cavallo tra XI e il XII secolo rimane quindi un periodo il- luminato solo da indagini focalizzate su singoli discorsi, mentre manca del tutto un tentativo di ricostruzione organica del sistema della comunicazione e della cultura politica in ambito rurale. Gli studi hanno infatti mostrato come il campo dei linguaggi politici sia soggetto a forti variazioni a seconda dei contesti territoriali e cronologici, e come sia quindi necessario condurre di volta in volta indagini specifiche, evitando generalizzazioni. La diversa con- figurazione degli assetti sociali e di potere si rispecchia infatti in una diversa articolazione dei discorsi politici; le mutevoli modalità con cui i diversi attori sociali si relazionano tra loro riplasma incessantemente il campo discorsua- le5. Quest’ultimo non è infatti un’area di regole e letture condivise, ma un

campo di tensione generato dall’interazione tra i membri della società poli- tica6. Taluni linguaggi appaiono infatti fortemente connessi, talvolta con una

relazione quasi esclusiva, a specifici attori sociali, e il mutato ruolo di questi

2 Sul tardo medioevo la produzione è ormai imponente; per un primo approccio Linguaggi po-

litici nell’Italia del Rinascimento.

3 Alcuni esempi sono: Gamberini, La città assediata. Poteri e identità politiche a Reggio in

età viscontea; Della Misericordia, Principat, communauté et individu; Cengarle, Immagine di potere e prassi; Gentile, La vendetta di sangue.

4 Solo più di recente l’attenzione si sta spostando alla fase precedente; si vedano a riguardo

Carocci, Le lexique du prélèvement; e Provero, Le parole dei sudditi.

5 Gamberini, La legittimità contesa, pp. 7-24.

6 Sulla nozione di “regole” in questo ambito ha insistito lungamente la storiografia tedesca; si

attori all’interno dello spazio politico modifica non solo la rilevanza dei di- scorsi loro propri all’interno della cultura politica generale, ma anche il modo stesso di articolarli. Non solo; la scelta di uno specifico linguaggio da parte di uno o più attori sociali determina anche in qualche modo la sua azione sul piano concreto, individuando peculiari linee di sviluppo privilegiato e occul- tandone altre. L’ambito del discorso politico è quindi soggetto a una costante ridefinizione, il prodotto della continua interazione tra i diversi protagonisti del gioco sociopolitico.

Analizzare gli idiomi politici non significa del resto riflettere semplice- mente su occorrenze lessicali, modelli concettuali e rappresentazioni. I di- scorsi di potere sono espressi non solo attraverso parole, ma anche attraverso pratiche (gestuali e documentarie) che ristrutturano e ridefiniscono conti- nuamente il campo discorsuale di cui fanno parte, in un processo creativo incessante. Discorsi e azioni risultano quindi inestricabilmente connessi: appare sostanzialmente impossibile scindere l’analisi di questi due piani che spesso si sovrappongono7. Le pratiche concrete sono modellate dai discorsi a

cui fanno riferimento e a loro volta contribuiscono a riplasmarli incessante- mente. Non si tratta quindi di due sfere distinte, seppur comunicanti, quanto di un sistema organico. Da questa prospettiva indagare un idioma politico significa riflettere su un insieme di parole, azioni e documenti che rimandano a un medesimo nucleo concettuale generatore di senso, in perenne tensione con gli stimoli generati dalle azioni che si rifanno a questo stesso nucleo con- cettuale e/o ad altri idiomi. E del resto anche gli stessi documenti non devono essere letti semplicemente come testi che trascrivono pratiche, ma come pro- dotti e generatori di azioni, e anzi come uno specifico tipo di azione8. Scrivere

è infatti una forma di azione e il bisogno di produrre un documento (ad esem- pio per certificare un diritto) determina a sua volta una serie di atti concreti, in un processo continuo; inoltre va sottolineato che a volte è anche sulla base dei testi scritti si costruiscono, come vedremo meglio in seguito, rituali e ceri- monie pubbliche9. Si tratta di considerazioni certo non particolarmente nuo-

ve, ma che bisogna tenere nella giusta considerazione per affrontare in modo corretto le fonti e il loro contenuto.

Alla luce dei risultati delle ricerche effettuate in questi ultimi anni mi sembra importante provare ad analizzare in questa sede non solo uno spe- cifico linguaggio, ma anche cercare di comprendere come quest’ultimo en- tra in relazione con gli altri idiomi attivi in un determinato contesto, come

7 Ciò ha condotto talvolta, in particolar modo in ambito modernistico, a una lettura program-

maticamente topografica del rituale pubblico, leggendo tutto l’insieme delle pratiche locali alla luce della “cultura del possesso”, e guardando con fortissimo scetticismo alla possibilità di enu- cleare specifici discorsi. Su tutto ciò si veda l’articolo seminale di Grendi, La pratica dei confini; e soprattutto il recentissimo Torre, Luoghi; echi, più sfumati, di questa posizione, in Provero,

Le parole dei sudditi.

8 Torre, Il consumo di devozioni.

9 Un’analisi in questa prospettiva dei diplomi in Francia tra IX e X secolo in Koziol, The Politics

li influenza e come ne è a sua volta influenzato: un’analisi quindi di carattere configurazionale10. Una stessa azione, con qualche modifica, può scivolare da

un discorso a un altro, come nel caso dei giuramenti collettivi al signore, che analizzeremo nel prossimo capitolo. Isolare uno specifico idioma e analizzarlo a parte significa quindi inevitabilmente attuarne una lettura almeno in qual- che misura deformante. Ciò vale largamente anche per una prospettiva di in- dagine volta a discutere invece i linguaggi impiegati da uno specifico tipo di attore sociale (i signori, le comunità urbane, quelle rurali, il regno, ecc.); se è indubbiamente preziosa un’analisi di tutte le strategie discorsuali impiegate da uno specifico attore, risulta invece decisivo analizzarle nel contesto più generale dei linguaggi adottati dagli altri protagonisti contemporanei. Solo l’analisi complessiva del mutevole intreccio degli attori e dei linguaggi a loro connessi può infatti rendere pienamente conto degli sviluppi della matrice discorsuale in un determinato contesto storico11.

Nelle prossime pagine cercheremo quindi di osservare se e in che misura la ridefinizione delle concrete strutture di potere si rifletta nelle strategie in cui i vari attori cercano di legittimare le proprie prerogative locali nel mag- matico contesto dei decenni intorno al 1100, nelle modalità con cui articolano e definiscono i propri rapporti reciproci, e, più in generale, nel loro modo di agire sul piano pratico e su quello simbolico. Ogni capitolo sarà dedicato a un singolo idioma politico, agevolmente identificabile come tale nei testi dell’epo- ca. L’intenzione non è quella di esaminare tutti gli idiomi attestati nelle fonti, ma quelli che appaiono più rilevanti per lo specifico tema discusso in questo libro, e cioè quello degli assetti socio-politici, e più abbondantemente docu- mentati nei testi del nostro periodo. Ad esempio, il discorso del sacro (nel suo impiego come idioma di potere) resterà al di fuori del campo di indagine, per la sua scarsa presenza nelle fonti a nostra disposizione, almeno per quanto ri- guarda il nostro specifico contesto12. Inizierò il tragitto esaminando la crisi di

quello che era tradizionalmente il perno della comunicazione e dei sistemi di legittimazione del potere locale, e cioè il vertice regio. Proprio la sua destrut- turazione aprì infatti nel nostro periodo la strada a una profonda ridefinizione nelle strategie degli attori locali in questo cruciale ambito. I capitoli successivi saranno invece dedicati ai quattro principali linguaggi osservabili nelle fonti dell’epoca: la fedeltà, il patto, la consuetudine e la violenza. Attraverso questi cinque diversi punti di osservazione cercheremo di comprendere le modalità di riconfigurazione della matrice stessa della cultura politica nelle campagne italiane a cavallo del 1100.

10 Sul concetto di configurazione il riferimento è Elias, La società di corte.

11 Per il basso medioevo italiano il modello è ora Gamberini, La legittimità contesa.

12 Solo in una fase successiva le fonti relative a questo linguaggio si fanno più abbondanti; si

1. Il vertice regio come erogatore di legittimità

Per cominciare questo percorso mi sembra opportuno prendere le mosse da un’epoca in cui la funzione di erogatore di legittimità sembra ancora sal- damente nelle mani del regno: la prima parte del X secolo. Nei primi decen- ni del secolo risulta evidente, sotto un profilo pratico, una certa debolezza dell’azione del potere centrale sul piano locale che emerge in modo agevole dal confronto tra l’azione dei sovrani del IX secolo, in particolare Ludovico II, e quelli della prima parte del secolo successivo13. Nonostante questo sen-

sibile appannamento sotto altri aspetti il potere centrale mantiene invece un ruolo del tutto centrale. I diplomi regi e imperiali continuano infatti a costituire lo strumento chiave di legittimazione delle prerogative locali. Le forme di potere sugli uomini e i fenomeni di signorilizzazione del potere ri- chiedono una legittimazione dall’alto, da quel regno che, per quanto sempre meno efficace nell’azione locale, è ancora percepito come un imprescindibile centro di erogazione di legittimità, come hanno sottolineato con forza le ri- cerche degli ultimi decenni14. Un compiuto processo di affermazione locale

trova cioè nel diploma elargito dalla cancelleria regia (e/o imperiale) la sua sanzione. Se scorriamo la serie dei diplomi regi italiani della prima metà del X secolo, in particolare quelli di Berengario I, vediamo la frequenza con cui compaiono le conferme di diritti di controllo e di comando “signorili” sugli uomini e sul territorio, pervenute ai beneficiari per un’altra via diver- sa dal regno, in particolare per donazione o acquisto da parte di soggetti che già detenevano ed esercitavano tali prerogative15. Ciò non è avvertito

come sufficiente; si sente il bisogno di una garanzia supplementare che solo il centro regio può erogare. Così i canonici di Santa Maria di Verona, dopo aver ricevuto grazie al testamento del defunto vescovo veronese Notkerio tre «villae» trentine, «cum placitis et districtionibus», si rivolgono a Berenga- rio per ricevere un diploma che ne confermi i diritti16. Alla stessa maniera

nel 911 lo stesso sovrano conferma al monastero emiliano di Nonantola una corte, alcuni castelli «cum districtionibus» e una cappella, ceduti al cenobio dal conte veronese Anselmo17.

13 Un buon punto di osservazione è costituito dalla produzione legislativa che, dopo la fioritura

del IX secolo, si arresta proprio nell’898, con Lamberto; su ciò I capitolari italici. Sul rapporto tra potere regio e aristocrazie locali nel X secolo, oltre al classico Tabacco, Regno, impero e ari-

stocrazie, si veda ora il recentissimo Vignodelli, Il Filo a piombo.

14 Rosenwein, Negotiating space, pp. 137-144; e Rosenwein, The family politics of Berengar. 15 Si vedano in particolare I diplomi di Berengario I, doc. 17 (a. 897), pp. 53-55; doc. 46 (a. 904),

pp. 132-134; doc. 65 (a. 906), pp. 176-178; doc. 113 (a. 916 c.), pp. 290-94; I diplomi italiani di

Lodovico III, doc. 4 (a. 900), pp. 11-15; doc. 7 (a. 901), pp. 22-24; I diplomi italiani di Rodolfo II,

doc. 8 (a. 924), pp. 117-120; doc. 9 (a. 924), pp. 120-122; I diplomi di Ugo e Lotario, doc. 40 (a. 935), pp. 123-126; doc. 63 (a. 942), pp. 184-189; doc. 71 (a. 943), doc. 210-212. Per un’analisi di questo tipo dei diplomi è sempre fondamentale Tabacco, Egemonie sociali, pp. 189-206.

16 I diplomi di Berengario I, doc. 113 (a. 916 c.), pp. 290-294.

17 Ibidem, doc. 69 (a. 911), pp. 214-216. Si veda Castagnetti, Le origini di Nogara (906), pp. 1-50,

Per legittimare il potere esercitato localmente si avvertiva evidentemente da parte dei detentori l’esigenza di ricevere la sanzione regia. Una sanzione il cui strumento chiave era indubbiamente rappresentato dal diploma. Ottenere un riconoscimento scritto regio costituiva dunque l’occasione per sancire la legittimità delle proprie pretese, agli occhi dei sudditi come degli altri attori della scena politica locale. Le ricerche più recenti hanno sottolineato con for- za il fatto che il diploma vada analizzato anche come fulcro e catalizzatore di pratiche sociali e rituali che rafforzano l’immagine del destinatario18. Riceve-

re un diploma, anche se questo nella pratica non concede nulla di nuovo e non aggiunge nulla alla qualità dei poteri concretamente esercitati, è comunque occasione per una messa in scena dal fortissimo valore legittimante. La ceri- monia in cui il diploma viene emanato rappresenta un momento importante in cui di fronte agli altri attori politici di peso del regno si sancisce la legitti- mità di pretese e prerogative del destinatario, come pure del suo ruolo politico e sociale19. È anche per questo che il destinatario preferisce, quando ve ne

sia la possibilità, fare redigere il diploma in una località inserita nello spazio politico in cui esso stesso agisce; perché ciò consente di raggiungere con la massima efficacia l’effetto di legittimazione e di sanzione dei propri diritti presso i membri della comunità politica di riferimento. Non solo dunque per ragioni pratiche legate agli spostamenti e ai costi, ma anche simboliche, per capitalizzare al massimo la cerimonia di promulgazione del diploma, anche se va detto che per i grandi attori del regno ricevere un diploma nella capitale, a Pavia, costituiva indubbiamente un esercizio di prestigio.

La costruzione di pratiche cerimoniali intorno al documento non doveva però arrestarsi qui; con ogni probabilità a questo primo rituale ne dovevano seguire altri di carattere più strettamente locale, in cui il testo veniva letto e fisicamente mostrato (con tutta la sua carica simbolica) ai sudditi interessati. I testi in cui sono registrati pratiche di questo tipo sono decisamente poco nu- merosi, almeno per quanto riguarda la Penisola, e iniziano sostanzialmente con la seconda metà del XII secolo, nella fase di ripresa del potere centrale sotto gli Svevi20.

Un’importante eccezione, che mostra come rituali di questo tipo fossero invece decisamente più antichi, è rappresentata da un breve dell’879, conser- vato nell’archivio del monastero milanese di Sant’Ambrogio, relativo alla cur-

18 Su ciò si veda in particolare il recentissimo Koziol, The Politics of Memory.

19 In questa prospettiva si vedano soprattutto Keller, Die Herrscherurkunden; e Keller, Dart-

mann, Inszenierung von Ordnung und Konsens; un ottimo esempio di epoca sveva che descrive con grande efficacia il contesto cerimoniale della redazione di un diploma (emesso in questo caso a favore di un comune urbano, Cremona) è Le carte cremonesi, IV, docc. 787-788 (a. 1195), pp. 357-360.

20 Alcune belle testimonianze relative a questi rituali nelle deposizioni testimoniali edite in Ap-

pendice a Colucci, Memorie storiche di Ripatransone, doc. 14 (a. 1253), pp. L-LXXXIII; un’altra

descrizione di un rituale analogo in Appendice, a Tabarrini, Regesta Firmana, doc. 3 (a. 1223), pp. 538-541.

tis di Limonta21. In questo testo si registra un rituale pubblico svoltosi proprio

a Limonta imperniato sulla lettura alla comunità di Limonta di un diploma di Carlo il Grosso, non pervenutoci, e di uno più antico di Lotario del 835, so- pravvissuto, il cui dispositivo era confermato dal più recente testo. I due testi sancivano il possesso da parte dell’abate di sei mansi di «mancipia» e dei loro residenti. L’abate non si limita a leggere i due documenti, ma li mostra anche pubblicamente («ostendens»), evidentemente per rendere palese la loro au- tenticità, ma anche per rimarcare il profondo valore simbolico dei due solenni documenti, su cui si basa il suo potere locale. Alla lettura segue infatti un ri- tuale nel corso del quale l’abate Leone riconferma fisicamente il suo possesso dei servi e delle loro abitazioni22. Si tratta di una lettura ad alta voce, pubblica,

davanti agli uomini di Limonta, ad alcuni vassalli vescovili, a due vassalli di un vassus regio e ai rappresentanti di comunità vicine; un pubblico social- mente diversificato ma molto rappresentativo della realtà locale. Va sottoline- ato come l’anno successivo proprio i rappresentanti di queste comunità vicine saranno chiamate a testimoniare a favore dell’abate milanese nella disputa tra il monastero ambrosiano e quello di Reichenau per il possesso di Limonta23.

L’organizzazione di un rituale pubblico risulta dunque cruciale per costruire il consenso locale sulle proprie prerogative, ma al centro di questo rituale si pone proprio il diploma regio. Anche il fatto che siano presenti due vassalli di un vassallo regio non è certo casuale; essi rappresentano certo interessi loca- li24, ma rappresentano anche quello stesso potere regio che emana il diploma,

sono garanti del fatto che il suo contenuto verrà implementato e rispettato dagli agenti locali del regno25. Il costo materiale (e non) che il beneficiario

doveva sopportare per avere il suo diploma era infatti compensato anche dalla possibilità di costruire sulla base del documento momenti pubblici e solenni in cui ribadire e sanzionare il suo potere.

E ciò risulta evidente se si volge l’attenzione ai placiti, e più in particola- re all’ostensio di diplomi regi (o imperiali) nel corso delle sedute giudiziarie. Vediamo infatti come non di rado il placito sia costruito proprio intorno alla solenne lettura del diploma regio, all’ostensione del documento nella sua fisi- cità26. Non basta possedere un diploma, serve anche che sia mostrato nel con-

testo più pubblico e solenne perché la sua efficacia sia massima27; l’ostensio

21 Codex Diplomaticus Langobardiae, doc. 291 (a. 879), coll. 495-497. Per un’analisi di questo

testo Balzaretti, The monastery of Sant’Ambrogio, pp. 5-6.

22 L’abate Leone ne (ri)prende possesso «per columnam de eadem casa et limite ostii seu ex

predictis mancipiis per manus» (Codex Diplomaticus Langobardiae, col. 496).

23 Manaresi, I Placiti, I, Inquisitiones, n. 8 (a. 880), pp. 584-585.

24 Come sottolinea giustamente Balzaretti, The monastery of Sant’Ambrogio, pp. 6-7.