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Deontologia giornalistica ai tempi del Covid-

Il riscatto dell’informazione professionale

Tra gli elementi nuovi che ci lascerà in eredità la pande- mia c’è il riscatto della professione giornalistica, che ha fortemente riacquistato credibilità e autorevolezza, po- nendosi come faro insostituibile nei fl ussi informativi multimediali, spesso caotici e fuorvianti. In questi mesi milioni di italiani hanno compreso che l’unico vaccino per combattere l’infodemia, cioè la diffusione incontrol- lata di informazioni non vagliate e non verifi cate, è l’in- formazione professionale, prodotta da giornalisti iscritti all’Ordine e chiamati ad una puntuale verifi ca delle fonti e al rigoroso rispetto del principio di verità sostanziale dei fatti. Soprattutto all’inizio della pandemia, la circolazione virale di contenuti iperbolici e urlati, capaci di provoca- re effetti devastanti sull’emotività, sullo stato d’animo e, conseguentemente, sui comportamenti di milioni e milio- ni di persone, ha reso ancora più prezioso il lavoro dei giornalisti.

Il bene pubblico dell’informazione si è rivelato, anche in questa delicata pagina della storia italiana, essenziale per la comprensione della realtà e per l’esercizio dei diritti di cittadinanza. I giornalisti sono rimasti stabilmente in prima linea per documentare i momenti cruciali dell’e- mergenza Covid-19 e hanno dato voce a tutti i protago-

nisti della lotta alla pandemia, dai decisori istituzionali al personale medico e infermieristico, dai famigliari delle vittime ai rappresentanti delle categorie produttive. E lo hanno fatto quasi sempre nel pieno rispetto dei principi deontologici dettati a tutela del corretto esercizio del di- ritto di cronaca. Purtroppo, però, non sono mancati de- precabili casi di violazioni, per fortuna isolati e circoscritti alla fase più cruenta della pandemia.

Soprattutto nelle fasi più delicate e drammatiche dell’emergenza Coronavirus, si è ciclicamente riproposto, come già accaduto in precedenti situazioni critiche con forti rischi per la salute della popolazione, il dilemma ri- guardante i confi ni del diritto di cronaca. Fin dove può spingersi la narrazione dei fatti da parte del giornalista, senza compromettere altri valori giuridicamente protetti? È lecito raccontare tutti i dettagli relativi alle sofferenze fi siche oppure il cronista deve porsi dei limiti? È giusto documentare, con l’ausilio di foto e video, scene di dolore fi sico e di disperazione emotiva?

Nelle convulse giornate che stiamo ancora vivendo ri- schia di apparire marginale la discussione su questi aspetti relativi alla rappresentazione della realtà, poiché preval- gono di gran lunga le apprensioni per quanto sta accaden- do e per l’evoluzione del contagio da virus. Il che è anche ragionevole.

Qualche deprecabile eccesso nel diritto di cronaca

Sui social appaiono pressoché inevitabili lo straripamento lessicale, il cedimento alla morbosità e l’enfatizzazione del clamoroso, ma sui mezzi di informazione tradizionali ci si aspetterebbe maggiore accortezza.

Ecco perché in molti si sono comprensibilmente indi- gnati di fronte a servizi radiotelevisivi realizzati in reparti di rianimazione e terapia intensiva di alcuni ospedali, con

tanto di interviste a persone ricoverate in condizioni di sofferenza fi sica e di affaticamento respiratorio dopo aver contratto il Covid-19.

Quale voleva presumibilmente essere la fi nalità di quei reportage? Anzitutto evidenziare l’appesantimento di molti reparti ospedalieri dedicati in modo pressoché esclusivo ai casi gravi di contagio e in quei giorni pres- soché prossimi al collasso, a seguito dell’alto numero di ricoveri. In seconda battuta, smentire il luogo comune di una patologia che colpisce esclusivamente persone anzia- ne e con patologie pregresse. Dunque, avvicinare il mi- crofono alla bocca (o alla mascherina) di un paziente che parla dal letto di un ospedale e racconta la sua esperienza di contagiato integrerebbe un atteggiamento di impronta persuasoria, prima ancora che di natura informativa.

Ma se quest’ordine di valutazioni nelle scelte edito- riali fosse esteso su ampia scala, il diritto di cronaca non avrebbe più freni inibitori. Con l’ambizione ibrida di fun- gere da coscienza critica nei confronti di atteggiamenti su- perfi ciali e minimalisti, che pure si sono registrati in quei momenti, l’informazione fi nirebbe per arrogarsi il diritto di forzare la barriera, che invece dovrebbe risultare inva- licabile, del rispetto della dignità umana.

Il bombardamento mediatico monotematico al quale siamo stati sottoposti in quelle settimane davvero dram- matiche aveva già abbondantemente segnalato all’atten- zione generale la drammaticità delle condizioni di alcuni reparti di terapia intensiva e distillato particolari detta- gliati, nei consueti “bollettini di guerra”, sull’età variegata delle vittime e dei contagiati.

Sarebbe bastato questo per raggiungere il requisito della completezza della notizia, mentre sono risultati ec- cedenti ulteriori particolari, anche audiovisivi o fotogra- fi ci, miranti a drammatizzare plasticamente la condizione degli infetti sottoposti a trattamento medico-ospedaliero.

C’è di mezzo la dignità umana, il primo e più impor- tante diritto inviolabile tutelato dalla Costituzione italia- na, che anche i giornalisti, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati a rispettare. La legge professionale dei giornalisti declina questo principio, chiarendo che il dirit- to insopprimibile di informazione e di critica può essere esercitato dal giornalista nel rispetto dei diritti dettati a tutela della personalità altrui. E tra questi c’è al primo posto la dignità dei protagonisti dei fatti che, come det- to, è anche il principale diritto inviolabile riconosciuto e garantito dalla Costituzione italiana all’articolo 2. Inoltre, il vincolo per chi fa informazione professionale risulta raf- forzato dalla dimensione dell’autodisciplina, formalizzata nelle numerose carte deontologiche e nel Testo unico dei doveri del giornalista, varato quattro anni fa, proprio per offrire una chiara e ben orientata bussola dei comporta- menti virtuosi e responsabili nel quotidiano esercizio del diritto di cronaca.

Entrando più nello specifi co delle regole deontologi- che applicabili alle cronache riguardanti malati e soggetti in situazioni di sofferenza e di disagio, occorre richiamare il Codice che fi n dal 1998 disciplina le condotte dei gior- nalisti in materia di privacy e, nel dettaglio, all’art.8, tutela il valore della dignità della persona come limite invalica- bile all’esercizio del diritto di cronaca. Inoltre, all’art.10 si specifi ca che “il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identifi cata o iden- tifi cabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di in- teresse strettamente clinico” e che “la pubblicazione è ammessa nell’ambito del perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona”. Senza sottacere il fatto che all’art. 3 si equipara la privacy negli ospedali a quella (assoluta) del proprio

domicilio. Va infi ne ricordato che il testo di quel Codice deontologico in materia di privacy è diventato l’allegato n.1 del Testo unico dei doveri del giornalista del 2016.

L’applicazione del parametro dell’essenzialità dell’in- formazione, in casi così delicati come quelli dei degenti in reparti di rianimazione, traccia la linea di demarcazio- ne tra l’autorevolezza professionale e la spettacolarizza- zione sensazionalistica. Sovresporre attraverso i media i soggetti deboli, anche con il loro consenso, inquadrando volti, corpi e altri particolari descrittivi della loro agonia, equivale alla rinuncia a un giornalismo scrupoloso, equi- librato, solidale e pienamente rispettoso dei travagli delle persone.

Nonostante le tesi più allarmistiche si siano poi rivelate fondate, resta il fatto che inizialmente il sensazionalismo terroristico, fondato sull’utilizzo, da parte di alcuni media di primo piano, di un linguaggio tendenzialmente apoca- littico, non è apparso rispettoso dei canoni del corretto esercizio del diritto di cronaca. Diffi cili da dimenticare titoli di apertura di quotidiani nazionali con parole come “Coprifuoco” o espressioni del tipo “Nord nella paura” o, peggio, “Come in guerra”. Per un pugno di copie in più o, con riferimento ai titoli di alcuni telegiornali, per una percentuale infi nitesimale di share in più, si è sacrifi cato in quei giorni l’elemento della sobrietà e della continenza della forma espositiva, che segna un confi ne invalicabile tra la corretta informazione e l’informazione-spettacolo, tra il racconto della realtà e l’enfasi descrittiva.

Il giornalismo che dichiara di voler raccontare la ve- rità e tutelare i diritti della personalità, tanto più rispetto a emergenze che hanno un impatto globale come quella del Coronavirus, per farsi ascoltare e apprezzare avrebbe dovuto rinunciare a sbraitare, a urlare, a spararla grossa. E avrebbe dovuto altresì astenersi da tentazioni “profes- sorali”, cioè dalla pretesa di pontifi care e impartire lezioni

di scienza, lanciando magari allarmi spropositati o, al con- trario, minimizzando quelli che si sono comunque appa- lesati come rischi reali.

Est modus in rebus, verrebbe da dire con riferimento

alle cronache sul Covid-19. Ma la tensione di quelle ore ha fatto a pezzi ogni barriera protettiva della deontologia degli operatori dell’informazione, che con messaggi ecla- tanti hanno preteso di attribuire patenti di affi dabilità a strutture sanitarie, medici, istituzioni pubbliche e private. Nulla di tutto questo ha a che fare con le regole di una buona informazione. Ora, però, occorre riscoprire il valo- re della mediazione giornalistica, evitando di esacerbare un clima già surriscaldato. La strada maestra è mediare tra i fatti e l’opinione pubblica, senza drogare le cronache con alterazioni semantiche e sfoghi personali.

Un auspicio per il giornalismo professionale post-pandemia

Ora che siamo entrati in una nuova fase e che si comin- cia a intravvedere la luce in fondo al tunnel, si riscopra il valore della sobrietà e della pacatezza dei toni quando si diffondono notizie che attengono ad un bene primario come quello della salute. Sia il prima richiamato Codice deontologico del 1998 in materia di privacy, sia la Carta di Perugia del 1995 sull’informazione medico-scientifi ca, sia il Testo unico dei doveri del giornalista del 2016, racco- mandano a chi fa informazione di rifuggire da due eccessi ugualmente deprecabili: l’euforia miracolistica e l’allar- mismo disfattista. In particolare l’art. 6 del Testo unico descrive i doveri del giornalista nei confronti dei soggetti deboli: “a) rispettare i diritti e la dignità delle persone ma- late o con disabilità, siano esse portatrici di menomazioni fi siche, mentali, intellettive o sensoriali, in analogia con quanto già sancito per i minori dalla “Carta di Treviso”;

b) evitare nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifi ci un sensazionalismo che potrebbe far sorgere ti- mori o speranze infondate; c) diffondere notizie sanitarie solo se verifi cate con autorevoli fonti scientifi che; d) non citare il nome commerciale di farmaci e di prodotti in un contesto che possa favorirne il consumo e fornire tempe- stivamente notizie su quelli ritirati o sospesi perché nocivi alla salute”.

Ancor più all’epoca dei social il valore aggiunto dell’in- formazione professionale può fare la differenza e segnare la vittoria del giornalismo di qualità. Sui social tutti pon- tifi cano, danno sfogo alle proprie pulsioni diffondendo contenuti non vagliati, non verifi cati, con post “acchiap- paclic”. Ma per statuto i social non sono tenuti ad assicu- rare il nostro diritto ad essere informati. I giornali (anche quelli on line), le radio, le tv, vale a dire i media cosiddetti tradizionali, invece sì. E fi n dai titoli e dalle anteprime devono offrire al proprio pubblico una rappresentazio- ne equilibrata della realtà. Altrimenti poi non possono lamentarsi del fatto che sempre più gente li abbandoni perché li considera alla stregua di fonti generiche, im- provvisate, non professionali.

E i giornalisti, che pure usano i social come tutti gli altri cittadini, non dimentichino il contenuto dell’art. 2 del Testo unico, che impone loro di applicare la deonto- logia anche su Facebook e sulle altre piattaforme di con- divisione. Il giornalista è giornalista anche quando scrive un post sul suo profi lo social o pubblica un commento o un contenuto di qualsiasi tipo sui profi li di altri soggetti. I consigli regionali dell’Ordine dei giornalisti si faccia- no promotori di corsi di formazione dedicati proprio ai cambiamenti che la pandemia ha prodotto sul modo di fare informazione e sulle declinazioni specifi che della de- ontologia professionale nella narrazione della realtà post- Coronavirus.

GIOVANNI ZICCARDI