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Di cosa parliamo quando parliamo di scuola digitale?

Gli italiani non possono proprio tollerare troppa realtà: così, umiliata dalle cose come sono, l’immagi- nazione vola sul pianeta delle cose come dovrebbero essere. A Messina non esce l’acqua dai rubinetti? Basta farsi portare dall’agile speme sul pianeta ‘ponte sullo Stretto’, e l’arsura si spegne. Ci manca la cucina? Com- priamo il salotto. Legata com’è a quell’età splendida in cui tutto è ancora da fare, da inventare, la scuola è il luogo d’elezione per questi così umani scambi tra ciò che è reale e ciò che irrazionale.

Si dice: istruire bene tutti quanti non è difficile, è impossibile; e non solo perché non tutti sono disposti a farsi istruire bene, ma perché non tutti i professori sono buoni professori, e mediocri professori forme- ranno, nella gran parte dei casi, mediocri studenti. La mediazione umana è indispensabile, e quasi tutto di- pende, allora, dalla qualità dei mediatori.

O no? L’età digitale lascia intravedere un rimedio, l’uso del computer e di internet a scopi educativi: sia che quest’uso finisca per abolire la mediazione umana (è in parte la logica dei Moocs), sia che il computer e internet vengano adoperati in classe o a casa, dagli studenti.

Abbiamo visto abbastanza, ormai, per sapere che la salvezza non verrà da lì? Che la palingenesi promessa dal ‘digitale in classe’ non è stata e non sarà una pa- lingenesi? E anzi: potrebbe essere una lastra tombale sulla scuola come dovrebbe essere? È questa l’idea di

fondo dell’ultimo saggio di uno dei più intelligenti tra i nostri studiosi di storia dell’educazione, Adolfo Scotto di Luzio: Senza educazione. I rischi della scuola 2.0.

Ora, il lamento degli umanisti sull’invadenza del digitale di solito prende i tratti del Lamento Generico. Non che il Lamento Generico sia privo di buone ra- gioni. Da un lato, i nuovi media sembrano incompati- bili non tanto con le cose, le discipline, le nozioni che formano la base della cultura scolastica quanto con l’attitudine che la cultura scolastica ha sempre consi- derato fondamentale per l’apprendimento, attitudine che presuppone la gradualità (s’imparano prima alcune cose e poi altre), la gerarchia (s’imparano certe cose a preferenza di altre, e alcune non s’imparano proprio), l’autorità (s’impara ascoltando quello che altri, più colti di noi, hanno da dirci). I professori vedono nei nuovi media una minaccia a queste tre istanze – nessuna gra- dualità, nessuna gerarchia, rifiuto di ogni autorità, an- zitutto della loro – dunque a quell’attitudine. Dall’altro lato, l’apprendimento attraverso i nuovi media sem- bra privilegiare le immagini sulle parole (un tipo di comunicazione che i professori tendono ad associare all’infanzia, non alla maturità), sembra nuocere alla concentrazione (per l’effetto distraente del video, per l’infinità dell’offerta di cultura e insieme di intratte- nimento), sembra indebolire il senso critico (perché i professori pensano che questo non possa derivare da una totale libertà, ma solo da una libertà educata alla critica), sembra scoraggiare l’approfondimento (per il prevalere dell’approccio orizzontale, esteso sopra tanti svariati soggetti, su quello verticale).

Tutto ragionevole, ma tutto anche risaputo. Scotto di Luzio evita il Lamento Generico e si cala nel caso concreto. Siamo davvero sicuri – si chiede Scotto di Luzio – che l’acquisto di strumenti tecnologici per le

scuole sia ciò di cui le scuole hanno bisogno? Siamo sicuri che l’impiego delle nuove tecnologie nella di- dattica migliori la preparazione degli studenti? No, risponde, non siamo sicuri di niente. Al contrario: ve- diamo che i soldi spesi in tecnologia sono soldi che potrebbero essere spesi meglio, pagando di più gli insegnanti, e quindi rendendo più appetibile questa carriera, acquistando libri, restaurando gli edifici; ve- diamo che l’aggiornamento tecnologico si trasforma presto in una specie di capestro, perché ciò che era nuova tecnologia appena ieri è obsoleto oggi, e le cose si rompono, s’inceppano, si rubano, vanno sostituite con altre che altrettanto rapidamente si romperanno, s’incepperanno, verranno rubate («Dare un computer a una scuola significa allora generare un vincolo ulte- riore per istituzioni tipicamente sottofinanziate e, come spesso accade, è il modo migliore per fare delle loro aule una sorta di ‘fiera del modernariato elettronico’»); vediamo che adoperando il digitale l’apprendimento dei ragazzi non migliora, o migliora a volte sì e a volte no, in maniera non predicibile.

La mia idea di istruzione coincide a grandi linee con quella di Scotto di Luzio, perciò trovo sensate le osser- vazioni che fa in questo libretto. Ma Scotto di Luzio ed io potremmo essere legati a un’idea dell’istruzione ormai datata, potremmo sbagliarci: tanto nel piccolo, cioè circa i modi dell’istruzione, quanto nel grande, cioè circa gli obiettivi dell’istruzione. Quanto ai modi, è difficile difendere una scuola che, in 5-8 anni, non riesce a insegnare a chi la frequenta – per esempio – un inglese decente (dopo l’apprendimento dell’italiano, la cosa più importante per i ragazzi che vanno a scuola oggi). Se le ‘nuove tecnologie’ possono darci una mano in questo senso, rivoluzioniamo pure (o aboliamo) l’ora d’inglese. Quanto agli obiettivi, può darsi che il semi-

alfabetismo tecnologico sia oggi, per un ragazzo che esce dalla scuola, ancora più temibile, cioè più penalizzante sul mercato del lavoro, del semi-alfabetismo in discipline che noi siamo portati a considerare cruciali per la for- mazione, come l’italiano scritto e parlato, la matematica, la storia; può darsi che la competenza circa i mezzi sia ormai anche più importante della conoscenza delle cose (l’apocalittico che sonnecchia in me pensa che la situa- zione sia già più o meno questa; l’integrato suggerisce allora che tanto vale prenderne atto e cambiare qualcosa nella macchina dell’istruzione).

Tutte queste, comunque, sono questioni accade- miche, mentre quella che conta è la pratica, e quanto a questa non mi pare che i fan delle nuove tecnologie siano ancora riusciti a formulare proposte convincenti. Se ‘nuove tecnologie’ significa YouTube in classe at- traverso la LIM, benissimo: salvo il fatto che YouTube contiene tutto e il contrario di tutto, e che un docente inadeguato può fare un pessimo uso di YouTube come di tutto il resto, col che torniamo al problema iniziale, della necessaria, difficilissima mediazione umana (e qui comunque adagio: perché se YouTube sostituisce il li- bro di testo allora l’autorità sulla Commedia di Dante diventa Benigni, o Cacciari, non più Contini, e questo non va bene). Se ‘nuove tecnologie’ significa qualcosa di meno vago, allora si vorrebbe sapere che cosa e come. In un recente e molto likato intervento su questi temi un ‘esperto’ suggeriva di proiettare in classe i video della Khan Academy: proposta sensata se l’obiettivo è quello di perfezionare la preparazione di chi già sa; insensata se l’obiettivo è quello di avviare allo studio ragazzi che non sanno e, spesso, non vogliono sapere. I bravi e i volenterosi (che in genere sono anche i privilegiati per censo) hanno già e sempre più avranno strumenti ad accesso aperto per migliorare se stessi; ma la scuola è

fatta anche e soprattutto per gli altri, che sono la mag- gioranza. Perciò, essendo già convinto dell’utilità delle nuove tecnologie, vorrei solo che qualcuno mi facesse degli esempi su come adoperarle a scuola, esempi pra- ticabili nella scuola come è, non come se la sogna lo zelo dei riformatori: la scuola in cui l’aula computer è chiusa perché ci piove dentro, o il server non funziona, o la persona che «si occupa dei computer oggi non c’è», o gli insegnanti non hanno ben chiaro che cosa sia Google: perché è troppo facile riprogettare la realtà ignorando chi la abita. E vorrei che nella discussione si tenessero bene a mente, e con realismo, gli obiettivi: se l’obiettivo è insegnare la letteratura e la storia, ascoltare una lezione ben fatta e leggere una pagina ben scritta è meglio di qualsiasi video o programma interattivo, e infinitamente meno costoso; se l’obiettivo invece è im- pratichirsi nel coding, va benissimo studiarlo nell’ora di informatica, perché sarà certamente utile sia ai ragazzi che andranno a lavorare sia a quelli che proseguiranno gli studi. Quella che appare irrazionale, benché si pre- senti coi tratti della ragione oggettiva, è la fusione tra i due obiettivi: non si capisce cioè, o non è stato ancora spiegato a sufficienza, perché mai le nuove tecnologie, dato che esistono e hanno cambiato il modo in cui co- munichiamo, debbano (perché è chiaro che un investi- mento così ingente configura un obbligo, non una pos- sibilità) cambiare anche il modo in cui si studia Dante o s’impara il latino.

Non sono ottimista: perché la pressione che le aziende produttrici di hardware e software esercitano sulla scuola, come sul mondo, è fortissima1, e perché

1 Non bisogna essere dei luddisti per pensarlo: cfr. Natasha

Singer, How Google Took Over the Classroom, in «The New York Times», 13 maggio 2017.

per reagire con senso critico alle innovazioni serve una convinzione nei propri mezzi, cioè la fiducia in un pro- getto, che né i singoli docenti né i singoli istituti pos- sono avere. Servirebbe un ministero che, magari con l’aiuto delle migliori aziende private del ramo, dica con esattezza e senso della realtà che cosa si può fare, dove investire, e in che modo farlo. Ma credo che questo sia un compito troppo difficile per la nostra amministra- zione, credo che si andrà avanti così, a caso.