• Non ci sono risultati.

E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell'istruzione umanistica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell'istruzione umanistica"

Copied!
312
0
0

Testo completo

(1)
(2)

matismo meccanico: parlo soprattutto di automatismo morale, di automatismo spirituale, e dire collettivamente e per ispirazione altrui che il tale è un sommo poeta, che il tale è un sommo scienziato, che la tale cosa è una cosa magnifica, che la tal cosa è un’indegnità, è altrettanto pernicioso quanto dire che «Mussolini ha sempre ragione»).

(3)

E se non fosse

la buona battaglia?

Sul futuro dell’istruzione umanistica

(4)

ISBN 978-88-15-27279-9

Copyright © 2017 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i dirit-ti sono riservadirit-ti. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fo-tocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Internet: www.mulino.it

(5)

Premessa p. 7

parte prima. scuola

1. Sì, ma a che serve? 15

2. Metonimia internazionale 31

3. Manca Della Valle 41

4. Dante nel pomeriggio 59

5. Cosa fare (e non fare) nell’ora di

italiano 73

6. La «Buona Scuola» 105

7. Di cosa parliamo quando parliamo

di scuola digitale? 119

8. Fine del classico come metonimia 125

9. Requiem per la scuola? 131

10. Perché odiate me? 137

parte seconda. università

11. La nostra sconcertante mancanza di

materialismo 145

(6)

13. Homo festivus entra all’università p. 183 14. Ha ancora senso fare Lettere? 193 15. Ha ancora senso fare un dottorato in

discipline umanistiche? 203

16. Certo che ha senso fare un dottorato

in discipline umanistiche. Ma come? 211 17. I dottori di ricerca dovrebbero avere

la possibilità di insegnare a scuola 225

18. Troppe tesi? 229

19. Come selezionare gli insegnanti? 239

20. Idonei a insegnare? 243

21. Didattica della fuffa 249

22. Saper scrivere potrebbe non essere

così importante 267

23. Dormìtat 279

Epilogo. E se non fosse la buona battaglia? 283

(7)

I saggi e gli articoli raccolti in questo libro par-lano di scuola e di università, ma ne parpar-lano da un punto di vista parziale: l’insegnamento delle materie umanistiche, e della letteratura in particolare. Il meno che si possa dire in proposito è che sia sulla forma sia sulla sostanza di questo insegnamento (come in-segnare, che cosa insegnare) i pareri non sono con-cordi; e che, nella coscienza comune, l’importanza e il prestigio di questo insegnamento sono andati sce-mando nell’arco degli ultimi decenni. In Mio figlio professore, anno 1946, il bidello Aldo Fabrizi riceve la notizia che gli è appena nato un figlio. Un insegnante gli chiede che cosa diventerà, che cosa farà nella vita questo erede. «Er professore de latino!», risponde lui. Oggi nessuno darebbe una risposta del genere. Neanch’io – liceo classico, studi alla Normale di Pisa, cattedra di Letteratura italiana all’università – la da-rei. Né la darebbero quasi tutti i miei colleghi, quelli che a scuola e all’università, in nome della respon-sabilità o della convinzione, difendono la causa de-gli studi umanistici. Perché un conto è predicare la bontà della causa in astratto, parlando della dignità dell’umanesimo, e un conto è riflettere sul fatto che questa buona causa deve incarnarsi in esseri umani che potrebbero scontare presto le conseguenze della loro scelta, conseguenze che molti pronosticano come nefaste: il collega che definisce «candidati al suicidio» i venticinquenni che stanno lavorando a

(8)

una tesi di dottorato in letteratura inglese, o in lin-guistica, o in letteratura italiana; il collega che chiama «martiri», a metà tra l’ammirazione e la pietà, gli iscritti al primo anno di Lettere; la collega filologa che, parlando del figlio neonato, mi scrive che «… mai, mai gli permetterò di studiare quello che ho studiato io, a costo di chiuderlo in casa, di azzop-parlo!»; il collega classicista che scrive una lettera all’insegnante di latino e greco della figlia ringrazian-dola «per non averle trasmesso neanche una goccia d’amore per quelle discipline: mi sarei ritrovato in casa una laureata in Lettere classiche disoccupata e frustrata».

Questi sfoghi privati affiorano raramente nel di-battito pubblico – dove a posizioni del genere danno voce di solito scienziati antiumanisti o più spesso ancora ‘tecnici’ o affaristi indifferenti all’arte e alla storia – principalmente per due ragioni. La prima è che, parlando da un forte sotto assedio, è molto diffi-cile trovare l’equilibrio e il coraggio per dare almeno un po’ di ragione agli assedianti: si fa la figura dei traditori. Inoltre, chi parla dall’interno del forte asse-diato non è, ovviamente, uno spettatore neutrale. Ha frequentato, di solito, il liceo, poi si è iscritto all’uni-versità, si è laureato con una tesi in letteratura o in filosofia o in storia dell’arte o in pedagogia, poi ha studiato per i concorsi, ha superato questi concorsi, è riuscito finalmente a trovare un posto di lavoro, pre-cario o stabile, a scuola o all’università. Ha insomma investito la sua intera esistenza, dai quattordici anni in poi, in quella che un tempo si sarebbe chiamata la vita dello spirito, è abituato a considerare come massimamente nobili, interessanti e utili i prodotti della cultura umana, e si è convinto che uno dei com-piti più necessari, per una società che voglia dirsi

(9)

ci-vile, consista nell’impadronirsi di questi prodotti e nel comunicarli agli altri. Si capisce perciò facilmente perché questi veri credenti si scandalizzino quando si propone di dimezzare le ore di storia dell’arte a vantaggio dell’informatica o di sostituire il greco an-tico coll’inglese. E si capisce ancora meglio perché i dubbi che loro stessi nutrono sul loro lavoro – cioè sull’utilità e il senso del loro lavoro – non vengano quasi mai esplicitati, anzi a volte non arrivino nep-pure alla coscienza, se non nella forma più sciocca che reazionaria della protesta contro un mondo or-mai sordo e cieco ai valori del pensiero e delle belle arti o del lamento su una società che non dimostra il giusto ossequio per la sua grande tradizione culturale: lamento che, in una nazione-museo come l’Italia, una nazione che dal suo passato artistico, letterario e filo-sofico ha soprattutto tratto materia per la confezione di un’asfissiante retorica autocelebrativa, suona parti-colarmente stridulo. Non è facile prendere posizione contro il sistema che ci ha formato, anche perché questo significa in certa misura prendere posizione contro se stessi, mettere in discussione le scelte che si sono fatte, i libri che si sono letti, e insomma – dato che si tratta di qualcosa di più di un lavoro nor-male, dato che per molti è un lavoro che ha i tratti della vocazione – la propria intera esistenza. Non è facile.

La seconda ragione è più nobile, perché meno soggettiva, meno legata alle ambizioni e alle fragi-lità individuali. Il fatto è che l’insieme di saperi che chiamiamo umanistici è, oggettivamente, un patri-monio del quale appare assurdo volersi privare. In uno dei saggi raccolti in questo volume ricordo la magnifica definizione che Guido Calogero ha dato della cultura classica, «questo formidabile strumento

(10)

di vita». Come rinunciare ai «formidabili strumenti di vita» che sono la letteratura, la poesia, l’arte e il pensiero del passato? Come accettare l’idea di non poter consegnare a chi verrà dopo di noi ciò che ci è stato consegnato da chi ci ha preceduto? Uno dei più pessimisti tra gli osservatori della cultura corrente, Alain Finkielkraut, ha ricordato che «il testimone può cadere a terra», cioè che il tesoro di arte e di scienza che ha arricchito la vita di generazioni di occiden-tali rischia di non trovare eredi capaci di amarlo e di farlo fruttare1. Chi può restare a guardare, inerte,

mentre ha luogo questa dissipazione?

E infatti ci si mobilita. Si maledice l’insensibilità dello Stato che non finanzia a sufficienza l’istruzione e la cultura disinteressata: si chiedono più insegnanti, si reclamano più fondi ma insieme si precisa, in pole-mica con un ex-ministro, che «con la cultura si man-gia eccome»; si varano iniziative per la promozione della lettura; si firmano manifesti in difesa del liceo classico, in difesa delle humanities all’università; ci si scandalizza perché l’inglese prende il posto dell’ita-liano in alcuni corsi universitari; si firmano petizioni contro la chiusura degli Istituti di cultura all’estero e contro la soppressione delle cattedre di italiano nelle università straniere; s’incolpano, da sinistra, il mer-cato e il neoliberismo ostili ai valori autenticamente umani; da destra, l’abbassamento degli standard sco-lastici e la liquidazione dell’alta cultura a vantaggio del pop; si legge Dante, ovunque; si catechizza in nome della Bellezza. In altre parole: non si nutrono dubbi sulla validità dell’istruzione umanistica

tradi-1 Alain Finkielkraut, L’ingratitudine, Milano, excelsior 1881,

(11)

zionale oggi, ma si maledicono le condizioni, l’am-biente così poco accogliente nel quale essa si trova calata. Questo atteggiamento di difesa si riflette tal-volta nella psicologia dei difensori, i quali sviluppano una sorta di spirito missionario, e coltivano l’idea di essere gli ultimi baluardi di una civiltà minacciata dai barbari, se non addirittura gli ultimi sani di mente in un mondo di pazzi. Nevrosi, rabbia, piccole manie ridicole sono il prezzo che si paga per questo spesso malriposto senso di superiorità.

Le pagine che seguono sono scritte dal punto di vista di chi ha ricevuto un’educazione umanistica tra-dizionale e vorrebbe che questa educazione avesse un futuro, cioè esistesse ancora nel mondo di domani. Questa speranza privata urta però contro la consa-pevolezza che, per come le cose si profilano all’oriz-zonte, questo futuro potrebbe non esserci; o meglio, contro la consapevolezza che tutto potrebbe andare avanti in questo modo ancora a lungo – l’istruzione è il più inerziale dei sistemi  –  ma con una sempre più marcata perdita di senso, e con una sempre più evidente sconnessione rispetto al mondo come è. Questi dubbi, che corrispondono ad altrettante do-mande (che cosa studiare? Come? A che età? A quale scopo?), affiorano nel corso del libro: insieme, mi au-guro, a qualche ragionevole ipotesi di soluzione. E dei dubbi e delle questioni aperte discuto più ampia-mente nell’ultimo capitolo, ponendomi la semplice domanda che è giusto porsi se, in una materia così viva, si vuole entrare nel merito senza accontentarsi delle generalità, o – come accade in tanti saggi dedi-cati all’istruzione umanistica – dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni: se potessi tornare indietro, seguirei la strada che ho seguito? Consiglierei ai miei figli di seguirla?

(12)

I saggi e gli articoli raccolti in questo libro in parte sono inediti e in parte sono usciti negli ultimi anni in vo-lumi miscellanei, giornali, riviste, blog: il sito di «Interna-zionale», il supplemento domenicale del «Sole 24 ore», il mensile IL del «Sole 24 ore», «Il Mulino», «Italianieuro-pei», il sito «Le parole e le cose». Li ho ritoccati, corretti, tagliati, aggiornati. Qualche ripetizione è rimasta, ma è per farsi sentire meglio.

Ringrazio Giovanni Accardo, Mariangela Caprara, Laura Lanzeni, Luigi Monti, Alfredo Panigada, Mauro Piras, Francesca Rizzo, Michele Ruele, Amedeo Savoia, Francesco Turletti.

(13)
(14)
(15)

Sì, ma a che serve?

1. Qual è lo scopo dell’istruzione? Dopo anni di letture e di riflessioni si ha la tentazione di acconten-tarsi di un programma minimo, di puro buon senso…

Lo scopo principale dell’istruzione potrebbe con-sistere nell’imparare a usare (e nell’imparare a credere in) frasi come È un problema da valutare meglio, o Non traiamo conclusioni affrettate, o Non ci saranno favoritismi, o Bisogna sforzarsi di dare a tutti le stesse opportunità, o È bene che chi ha di più aiuti chi ha di meno, o Bisogna aver cura dei beni pubblici, o Ognuno dev’essere libero di esprimere le sue opinioni. E consiste anche nel non usare, nell’imparare a sorridere di frasi come Lei non sa chi sono io o È solo una donna; o anche di frasi sbagliate per il tono più che per il con-cetto: Io non sono uno che le manda a dire, o Quella è persona mia, o È tutto un mangia mangia eccetera. Un buon uso del linguaggio, che dovrebbe corrispon-dere (anche se non sempre corrisponde) a un buon uso delle idee.

Questo obiettivo, questo elenco di obiettivi, non ha nulla di naturale. Possiamo immaginare senza sforzo un gruppo di individui, una società, nella quale si di-fendano e si diffondano precetti diversi: per ipotesi, che Il posto delle donne è la casa, che I matrimoni mi-sti vanno evitati, che Nella scala sociale ognuno deve starsene al suo posto, che L’importante è seguire una dottrina, credere in qualcosa (quest’ultimo non è un esempio inventato ma un frammento di conversazione

(16)

che ho captato qualche giorno fa in treno: e che con-traddice quell’ideale di autonomia e di maturità che sta al fondo del concetto di istruzione che chiamiamo liberale). Non solo possiamo immaginare questi luoghi, ma sappiamo che questi luoghi ci sono, esistono, ed esistevano anche in Occidente fino a poche generazioni addietro. Chi ha visto qualche puntata di Downton Abbey (Inghilterra, primi anni Dieci del Novecento) sa quanto sia dolce affacciarsi per un’ora alla settimana su questo mondo così vergognosamente iniquo e così piacevolmente ordinato. Ma è passato un secolo da allora, e l’uso o il non uso di frasi come quelle che ho elencato definisce l’habitus che noi oggi consideriamo auspicabile per un membro della nostra società. Altre società, in altre epoche, hanno disegnato o disegne-ranno habitus diversi; noi troviamo sensato trasmet-tere ai più giovani questo fascio di certezze e di dubbi: queste attitudini.

Pensiamo anche che un ottimo modo per farlo (non l’unico modo) sia esporre i giovani all’influenza dell’arte, del pensiero filosofico, della storia, della scienza, e insomma all’influenza del sapere specula-tivo nella più ampia delle sue determinazioni. Que-sta vecchia idea, che è Que-stata elaborata e difesa soprat-tutto dalla pedagogia tedesca del primo Ottocento, mi pare – come pare a molti – ancora valida. Il contesto nel quale essa deve provare la sua validità è, però, pro-fondamente cambiato: ed è un cambiamento recente, che non ha tanto a che fare con la modernizzazione in sé quanto con una delle pieghe che la modernizzazione ha preso negli ultimi decenni.

2. Il saggio di Martha Nussbaum sulla crisi dell’i-struzione umanistica (Non per profitto. Perché le de-mocrazie hanno bisogno della cultura umanistica) inizia

(17)

con due citazioni, una da Tagore e l’altra da Dewey, che lamentano la crisi dell’istruzione umanistica. Vi-sto che Tagore scrive nel 1917 e Dewey nel 1915, leg-gendo il libro della Nussbaum non ci si riesce mai a sbarazzare del tutto di questo retropensiero: che sia in fondo sempre lo stesso piagnisteo, e che se un secolo fa gli umanisti dicevano più o meno le stesse cose che dicono oggi non ci sia veramente di che preoccuparsi. In parte è così: il lamento del letterato alle prese con un mondo che non è fatto a misura di letterato è un genere senza tempo. Ma in parte le cose sono effettivamente cambiate, ed è bene prenderne atto e rifletterci sopra. In breve, tra gli anni di Tagore e i nostri è successo soprattutto questo: che la scienza e la tecnologia hanno rivoluzionato il modo in cui vi-viamo; e che la vita, nelle società occidentali, è di-ventata così complessa da sollecitare sempre di più le competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (storici, filosofi) ma di esperti settoriali ca-paci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici). In questo senso, la vecchia distinzione tra le ‘due cul-ture’ perde il suo significato, perché nella sfera della cosiddetta speculazione disinteressata si trovano fianco a fianco matematici e filosofi, fisici e letterati, sicché la sfida non consiste più nel comprimere, anche nei curricula scolastici, lo spazio dell’umanesimo dilatando quello delle scienze (questo riequilibrio a vantaggio delle materie tecnico-scientifiche c’è già stato), bensì nel salvaguardare uno spazio adeguato per ogni inte-resse culturale ed educativo che non abbia immediate ricadute applicative (il mutato equilibrio tra matema-tica e informamatema-tica, negli ultimi decenni, è l’esempio più chiaro di questa frizione).

La conseguenza superficiale più evidente di que-sto mutamento è che una formazione umanistica o

(18)

scientifica generica – quella che nella retorica corrente dovrebbe dare, ottimisticamente, le chiavi della ‘capa-cità di ragionare’ e del ‘senso critico’ – oggi è ancora meno spendibile di quanto fosse ai tempi di Tagore e di Dewey. Lo statista del secondo dopoguerra in Ita-lia è stato Alcide De Gasperi, laureato in Lettere, bi-bliotecario alla Vaticana durante gli anni del fascismo; il suo antagonista era Palmiro Togliatti, cioè uno dei primi intellettuali della sua epoca. Nonostante abbiano un po’ tutti la smania di scrivere memoir e romanzi, nessuno dei governanti della seconda repubblica ha avuto o ha, anche lontanamente, un senso altrettanto vivo della storia, della letteratura, della filosofia. Gli scienziati eletti in Parlamento si contano sulle dita di una mano; gli avvocati non si contano. Conseguenza profonda: al di là del riconoscimento sociale, che pure è molto più importante di quanto si conceda di solito, una formazione teorica, non applicativa, in campo umanistico o in campo scientifico appare fuori sincrono rispetto alle necessità del tempo presente. Eb-bene, la piega a cui alludevo ha accelerato questo pro-cesso di obsolescenza investendo, dopo i contenuti del sapere umanistico tradizionale, anche i modi attraverso i quali esso viene trasmesso.

3. Guardando Mad Men, che è ambientato a Man-hattan all’inizio degli anni Sessanta, si ha l’impressione che le cose essenziali ci fossero già, e che siano rimaste più o meno le stesse. Ci sono gli aerei, le automobili, gli uffici, i ristoranti, i telefoni, gli elettrodomestici. Certo: è fiction, ed è Manhattan, ma la vita non doveva essere troppo diversa nelle nostre grandi città: era la vita moderna che conosciamo, soltanto meno moderna. Ma che dire invece delle forme dell’acculturazione? Dire media, oggi, vuol dire qualcosa di completamente

(19)

diverso da ciò che questa parola significava mezzo se-colo fa, perché oggi i media non sono soltanto il canale privilegiato della comunicazione ma anche il principale canale dell’apprendimento, e il luogo in cui si formano e orientano le opinioni. E dire scuola o università vuol dire parlare di istituzioni all’interno delle quali il rap-porto, il patto tra docenti e discenti, ha subito una trasformazione altrettanto profonda. Un’aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un’aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono di-versi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori, i dispositivi che gli uni e gli altri adoperano. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l’insegnamento scolastico e universitario non è cam-biato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano). Questo conservatorismo di fondo è del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell’univer-sità è comunicare ai giovani il sapere accumulato; po-sto cioè che, con le parole di Rorty, «l’educazione, an-che l’educazione del rivoluzionario o del profeta, deve necessariamente cominciare con l’acculturazione e il conformismo», giacché «noi non possiamo essere edu-cati senza aver prima scoperto un sacco di cose intorno alle descrizioni del mondo offerte dalla nostra cultura […]; in un momento successivo, possiamo forse dare minore importanza al fatto di ‘essere a contatto con la realtà’, ma possiamo permettercelo solo dopo esser passati attraverso stadi di conformità […] alle norme dei discorsi che si fanno intorno a noi»1.

1 Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano,

(20)

Tuttavia, questo processo di socializzazione non è, a sua volta, sottratto alla storia: dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court, ha prodotto nei secoli passati non è una formula priva di conte-nuto, ma è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata (anche quando, conservatori a oltranza, la si voglia riproporre identica). Di qui insomma la necessità di una verifica, di qui l’opportunità della domanda intorno a ‘ciò che bisogna e non bisogna studiare a scuola’.

Questa verifica, già ardua di per sé, non viene facilitata dal profilo dei verificatori. Il dibattito sulla scuola appare infatti polarizzato tra, da un lato, enun-ciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall’altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compro-missione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti. Una delle disgrazie del discorso sull’i-struzione sta nel fatto che nelle istituzioni e nei media questo discorso è monopolizzato da persone mature o anziane che insegnano discipline umanistiche all’u-niversità, e che scambiano il loro frammento, il fram-mento che li ha creati e all’interno del quale vivono, per l’Intero. Di qui, troppo spesso, la ripetizione dei soliti luoghi comuni sulla imprescindibilità della for-mazione umanistica (Nussbaum); mentre servirebbero soprattutto proposte concrete su questioni particolari, e anche una certa disponibilità a mettere in

(21)

discus-sione le opinioni che la nostra formazione liceale e universitaria ci porta a considerare come princìpi non negoziabili.

4. Nell’àmbito umanistico, il problema dell’accul-turazione così come l’ha impostato Rorty si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all’oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea e che entrino in contatto con opere che appartengono ad epoche e mondi lontani dalla loro esperienza (cose inattuali come i trovatori, poniamo, o le chiese romaniche), perché una vita spesa soltanto in mezzo a ciò che è presente qui e ora non è una vita ben spesa. Dall’altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a cono-scere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita – non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti: l’umanesimo circostante. In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d’arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è sa-turo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumu-lato, alla scuola spetta perciò anche il compito – re-lativamente nuovo rispetto al passato – di dar loro i mezzi per reagire all’infinita quantità di cose (nozioni,

(22)

idee, habitus) che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica. Credo che Neil Postman avesse in mente qualcosa di simile quando scriveva che, più che promuovere la scienza e l’intelligenza, gli insegnanti dovrebbero sforzarsi di ‘togliere la stupidità’, cioè di eliminare i difetti, gli errori del pensiero, così come i medici eliminano le malattie e i giudici le ingiustizie. In vista di un obiettivo simile, è probabile che, in un adolescente, una sana passione per il cinema (anche non d’essai) sia più espediente di un’insana passione per le poesie di Guido Cavalcanti: non dobbiamo alle-vare degli specialisti, o dei maniaci.

Questo non significa che a scuola si debbano ‘studiare soltanto cose utili e attuali’: soprattutto se riferito agli anni della formazione, questo sarebbe un programma assurdo. Da parte mia, per gli studi che ho fatto e un po’ anche per indole, sarei d’accordo con ciò che ha scritto Fabio Bentivoglio: «La scuola, proprio perché è diretta a nuove generazioni senza me-moria collettiva, abitanti di una società senza radici, dovrà darsi un asse culturale di tipo storico: ciò signi-fica la storicizzazione di tutti i suoi contenuti scienti-fici, tecnici, artistici e letterari»2. Ho però l’impressione

che, per stare nei confini del mio settore (ma direi che l’osservazione è generalizzabile), il racconto storico-letterario – dalle origini ad oggi, dai lirici siciliani a Calvino – lasci sempre più inerti gli studenti e sia, di conseguenza, sempre più difficile da sostenere anche per gli insegnanti. Parlando con persone che, dopo il liceo, hanno studiato discipline diverse da Lettere e Filosofia, vedo bene quanto poco resti delle minu-zie storico-letterarie di cui riempiamo i manuali. Nello

2 Fabio Bentivoglio, Per una scuola della Costituzione, in

(23)

stesso numero di «Italianieuropei», Andreas Schleicher conclude così il suo intervento: «Il mondo è diven-tato indifferente all’eredità del passato, non perdona la fragilità e non è interessato a usanze e pratiche. Il successo arriderà alle persone e alle nazioni che sa-ranno rapide ad adeguarsi, poco propense a lamentarsi e pronte a cambiare»3. In astratto, sottoscriverei il

pro-gramma abbozzato da Bentivoglio; in concreto, penso che sia giusta la previsione di Schleicher.

Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Al-meno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei ge-neri, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, ma-gari obliterando, la cronologia? So bene che tentativi simili sono stati fatti, si fanno all’estero, con risultati non sempre confortanti. La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un’obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse que-sto, perché una persona civile deve conoscere la storia della letteratura nazionale così come deve conoscere la storia nazionale. Vorrei però anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano ‘fatto’ la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. Questa semicultura non è meglio dell’ignoranza. Se tutto quel che resta dello stil-novo o dell’Umanesimo o del romanzo del Novecento studiati a scuola sono slogan affrettati come ‘donna angelicata’ o ‘uomo al centro dell’universo’ o ‘epopea

3 Andreas Schleicher, Uno sguardo all’istruzione in Italia, in

(24)

dell’Inetto’ (e spesso non rimane altro), allora è meglio rinunciare alla storia letteraria e leggere dei libri, me-glio se otto-novecenteschi, senza indugiare troppo sul contesto, sulla poetica degli autori, e insomma sull’e-norme apparato di parole che la scuola sovrappone alle parole degli scrittori. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambias-simo i programmi scolastici, ma qualche rettifica po-trebbe essere salutare.

La seconda osservazione è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di argomenti vale più della conoscenza superficiale del Tutto che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l’e-quivalente in altri àmbiti) promette di dare. Agli stu-denti di oggi non mancano né le informazioni né il libero accesso alle informazioni: tutto è a portata di mano, se si dispone di una connessione internet e della volontà di sapere. Ciò che manca è semmai l’attitudine a concentrarsi, a indugiare, a riflettere sulle informa-zioni, e questa attitudine va insegnata soprattutto a scuola, e non può non implicare anche una certa sele-zione delle cose che s’insegnano. Io mi sono occupato a lungo di Dante e dei poeti dello stilnovo, ma non troverei scandaloso il fatto che uno studente – specie uno studente non liceale – esca dalla scuola secondaria senza aver letto Al cor gentil di Guinizelli, se questo risparmio di tempo gli ha permesso di approfondire altri argomenti, magari più capaci di sollecitare la sua esperienza, più vicini al suo mondo. Dal momento che quello che conta è acquisire un’attitudine (un’attitu-dine, non un metodo), i temi sui quali questa attitudine si esercita sono, entro certi limiti, indifferenti: e perciò è inutile – ripeto: specie nella scuola secondaria – mol-tiplicarli oltre necessità.

(25)

5. In un articolo recente, uno studioso di storia del cinema si lamentava del fatto che i ragazzi a scuola non ricevono un’adeguata istruzione nel settore degli audiovisivi: niente cinema, niente TV. Sono le forme d’arte e di comunicazione più presenti nella vita dei giovani, e la scuola le ignora. E che dire della cultura teatrale? Siamo il paese della commedia dell’arte, di Goldoni, di Pirandello, ma per il teatro si ritaglia al massimo qualche ora di tanto in tanto nel programma di letteratura. Ma l’Italia è anche la nazione che ha praticamente rinunciato a dare un’istruzione musicale agli studenti: non s’impara a suonare, e non s’impara neanche ad ascoltare, mentre basta fare una gita in Scandinavia per vedere che laggiù è tutto diverso. E del resto, come tutti sanno, l’Italia possiede una fetta ragguardevole del patrimonio artistico mondiale: ep-pure alla storia dell’arte vengono concesse al massimo un paio d’ore la settimana, e solo in alcuni tipi di liceo. S’intende poi che oggi l’economia e la giurisprudenza sono troppo importanti per lasciarle fuori del curricu-lum. E la ginnastica? Una miscela di musica e ginna-stica era la miracolosa ricetta greca che rimpiangeva Nietzsche… E così via, all’infinito.

Ora, quest’ansia è comprensibile, è addirittura le-gittima. Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori sol-tanto confusione. Il saggio di Lucio Russo La cultura componibile spiega, in poche pagine, perché questo modello di formazione – benché sia sempre più prati-cato – non è in realtà praticabile4. D’altra parte, però,

(26)

non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate: negli ultimi decenni, i cambiamenti sono stati troppi, e la scuola non può non prenderne atto. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s’inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà.

a. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovreb-bero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto (che alle superiori, specie se non sono il liceo, si possono be-nissimo leggere a pezzetti, se possibile cercando di dare un’idea dell’intero: provate a domandare a uno studente universitario come finisce la Commedia, ri-marrete sorpresi) quanto i racconti, i romanzi e, so-prattutto, i saggi del Novecento. I romanzi e i saggi del Novecento non dovrebbero essere ‘il libro di cui si parla’ o ‘l’ultimo libro letto dal professore’, o ‘un libro di bruciante attualità’. Il momento della formazione non coincide con quello dell’informazione: perciò do-vremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no.

b. Forse non è ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l’esistenza di internet abbia reso necessaria la conoscenza dell’inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l’inglese, capirlo o non capirlo signi-fica potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digital divide (tutti sanno usare

(27)

Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri.

Sono, come ho detto, considerazioni ovvie, di puro buon senso, ma mi pare che il discorso sulla scuola debba concentrarsi soprattutto su queste questioni pratiche: anche per questa ragione, la voce più inte-ressante da ascoltare è quella degli insegnanti, cioè di chi fa ogni giorno esperimenti in vivo, non quella dei teorici dell’educazione. Sollevarsi dal piano delle pratiche è tentante, ma è rischioso. Nel migliore li-bro sulla scuola che io conosca, Guido Calogero ha fatto una previsione che merita di essere letta o riletta estesamente:

Il mondo futuro è destinato, secondo ogni verosimi-glianza, a consumare bellezza e arte quanta mai nella sto-ria se ne consumò […]. Ma questa futura intensificazione dell’uso dei valori culturali, e in generale del tempo libero, dovrà anche modificare il carattere delle nostre istituzioni educative. Non si capisce perché essa dovrebbe accentuare la specializzazione e tecnicizzazione delle preparazioni […]. L’educazione e la scuola dovranno anzi accentuare piuttosto quella generale preparazione alla vita, che starà alla pre-parazione professionale nella stessa crescente proporzione in cui il tempo libero starà al tempo del lavoro. Proprio in quanto il tempo in cui semplicemente si vivrà sarà più lungo del tempo in cui si produrrà, l’educazione alla sag-gezza del vivere dovrà prevalere sempre più rispetto all’ad-destramento alla tecnica del produrre […]. L’educazione di domani dovrà essere sempre più una scuola dell’uomo e sempre meno, in questo senso, una scuola del lavoratore. Questo non esclude, si capisce, che ognuno dovrà essere addestrato anche a fare un lavoro utile alla comunità. Tutta-via, io amo sognare che, se non i miei nipoti, almeno i loro nipoti andranno a scuole le quali fino al diciottesimo anno

(28)

di età non si preoccuperanno d’altro che di allenarli al gusto del vivere e del convivere, al gusto di godere con equilibrata intensità di tutto quanto merita di essere goduto nella vita […]. Andranno a scuole che, dopo il diciottesimo anno, li addestreranno per un anno o due a un qualunque tipo di più semplice e provvisorio lavoro produttivo, dopo di che essi cominceranno a esercitarlo, in un paio d’ore al giorno e per cinque giorni della settimana, e ciò renderà loro ab-bastanza per vivere in un piccolo appartamento […]. Nel tempo residuo degli altri cinque giorni, essi avranno ancora modo, fra i venti e i trent’anni, di compiere, volendo, i loro studi superiori, saggiando attentamente le loro attitudini, e magari provando e riprovando e cambiando, così che anche la scelta finale del loro lavoro riesca la meno inadeguata possibile5.

Mai azzardare previsioni sul futuro delle civiltà, e – se si cede alla tentazione – mai essere troppo pre-cisi. Ma se ho citato questa pagina così spericolata non è per sorridere degli errori che contiene, o per meditare su quanto facciano piangere le preghiere esaudite (ah, la libertà di «provare e riprovare e cam-biare» lavoro!). È per dire che, al di là dell’ottimismo immotivato circa ciò che sarebbe capitato ai nipoti dei suoi nipoti, cioè ai nostri figli, le parole di Calogero sul senso della scuola e dell’educazione continuano ad essere vere: «Proprio in quanto il tempo in cui sem-plicemente si vivrà sarà più lungo del tempo in cui si produrrà, l’educazione alla saggezza del vivere dovrà prevalere sempre più rispetto all’addestramento alla tecnica del produrre». Nel momento in cui la società in crisi si preoccupa, legittimamente, di affinare la sua

5 Guido Calogero, Scuola sotto inchiesta, Torino, Einaudi, 1957,

(29)

tecnica del produrre, educando nuovi tecnici, gli in-dividui che abitano quella società imparano sulla loro pelle, invecchiando, quanto è lungo, per molti intol-lerabilmente lungo «il tempo in cui semplicemente si vive». Imparare a riempirlo in maniera piacevole e in-telligente: questo – se proprio serve uno slogan – mi pare debba essere il principale obiettivo dell’istruzione scolastica.

(30)
(31)

Metonimia internazionale

1. Càpita che gli studenti del primo anno di Let-tere non abbiano letto più di tre o quattro libri seri in vita loro, che non sappiano come finiscono I promessi sposi (si sposano? Non si sposano? Muoiono una sulla tomba dell’altro?) o la Commedia (vede Dio? Non lo vede? Lo vede «in un certo senso»?), però sanno quasi sempre che cos’è una metonimia (o sineddoche). È «la parte per il tutto»: bere un bicchiere, fare quattro passi. La maggior parte sa anche che cos’è un’anadi-plosi, un poliptoto; i più studiosi arrivano alla proso-popea, all’ipallage.

Credevo che fosse una perversione italiana, una mania della scuola italiana, questa devozione alle Fi-gure Retoriche, poi l’altro giorno, su una metro fran-cese, ho visto una ragazza sui sedici anni che si girava tra le mani un mazzo di cartoncini con sopra scritto aposiopèse, énallage, litote, paronomase, e dietro le de-finizioni. Era mattina presto, e la miscela di sonno e di sforzo per ricordare tutti quei nomi astrusi dava alla ragazza un’aria teneramente ebete: più che suggerirle le risposte avrei voluto abbracciarla, rassicurarla, farle ca-pire che non c’è niente di male a non ricordarsi cos’è una aposiopesi, io non me lo ricordo mai, non sono cose importanti.

O lo sono?

2. Per dirla in modo molto semplice, cioè senza tutti quei giri di parole da camminatori sulle uova che

(32)

di solito si usano quando si parla di scuola (e soprat-tutto quando si è scritto un manuale-antologia di let-teratura per le scuole, com’è il mio caso), ho l’impres-sione che a scuola si dia un po’ troppa importanza alla forma dei testi che si leggono – a pezzettini – e un po’ troppo poca al loro contenuto.

Questa sproporzione dipende, a mio modo di vedere, da due ragioni principali. Da una parte, nel corso dei decenni ha finito per depositarsi nelle scuole una versione estremizzata di quella che pos-siamo chiamare l’idea universitaria di letteratura: l’i-dea cioè che la letteratura sia un ‘problema’ (Il pro-blema dei «Canti» di Leopardi, Le propro-blematiche del Decadentismo eccetera), e che questo problema vada risolto come si risolvono i problemi: attraverso l’ana-lisi (dei Canti di Leopardi, delle poesie di D’Annun-zio) e, soprattutto, attraverso la considerazione del suo specifico (lo specifico letterario, la letterarietà), uno specifico che si lascia decifrare solo mediante l’applicazione di un Metodo (anzi di una pluralità di Metodi), Metodo che libera il campo dalle letture ingenue (l’ingenuità essendo il più grave dei peccati, per l’idea universitaria di letteratura) e al loro posto mette dei protocolli, delle procedure d’analisi che all’occorrenza possono essere sintetizzate per punti («Fai prima questo… poi questo…»), e soprattutto un metalinguaggio, un gergo adatto a dar conto della corretta applicazione di queste procedure d’analisi. Appropriatosi del gergo, applicati correttamente i me-todi (detti anche ‘metodologie’), lo studente ha risolto il problema della letteratura.

Ora, questa idea universitaria della letteratura ha, per buona sorte, sempre meno presa là dove è nata qualche decennio addietro: nelle università. Non è detto che le idee più fresche siano anche idee migliori,

(33)

ma oggi chi si occupa seriamente di letteratura non cerca di spiegare Guerra e pace coi grafici e le freccine, e non si mette a glossare in classe la teoria delle fun-zioni del linguaggio di Jakobson o la semantica strut-turale di Greimas, e nemmeno L’avviamento all’analisi del testo letterario di Segre. Accade però che questa idea universitaria della letteratura, che l’università nel frattempo ha lasciato cadere, abbia ancora un’influenza cospicua sul modo in cui si studia la letteratura nelle scuole, un po’ per la vischiosità delle mode culturali e un po’ perché provvede gli insegnanti e gli studenti di un piccolo bagaglio di nozioni (e anzitutto di nomi) che possono essere trasmesse, mandate a memoria, ri-petute a richiesta.

«Che cosa pensava Manzoni degli esseri umani?» o «Che cosa pensi di ciò che Manzoni pensava degli esseri umani?» sono domande alle quali non si applica l’alternativa giusto/sbagliato, sono domande che sol-lecitano, più che le conoscenze degli studenti, la loro capacità di giudizio, la loro intelligenza: e naturalmente è molto più difficile (e rischioso) valutare l’intelligenza che le conoscenze, anche se queste conoscenze sono, in fondo, irrilevanti. L’alternativa giusto/sbagliato si applica invece perfettamente alla domanda «Questo romanzo è a focalizzazione interna oppure no?». L’ap-prendimento scolastico per come lo concepiamo – e cioè come un insieme di nozioni e concetti da intro-durre nella mente degli studenti in un determinato lasso di tempo – ha bisogno soprattutto di cose che possono essere chieste in un’interrogazione, e in questo senso le etichette della narratologia funzionano tanto bene quanto l’anadiplosi, o i termini della metrica, o le parole-contenitore che costellano le storie letterarie (Stilnovo, petrarchismo, pessimismo cosmico, esteti-smo, gruppo 63 eccetera).

(34)

3. Questo però non basta. Perché, nozioni per no-zioni, basterebbe chiedere le date, come si faceva una volta, al tempo appunto del nozionismo. Nel nozio-nismo della focalizzazione, dell’anadiplosi, delle rime inclusive c’è qualcosa di più, e cioè l’idea che per ca-pire i libri occorra scomporli, sezionarli, e trattarli in-somma un po’ come i biologi trattano i loro campioni di tessuto e i geometri le loro proiezioni ortogonali. Dietro, c’è sempre l’idea della letteratura come scienza, e del possesso di determinate nozioni (focalizzazione, anadiplosi, rima inclusiva) come dello stigma virtuoso che distingue lo scienziato della letteratura dal lettore ingenuo.

In parte, questo è ovviamente vero. Possedere la nomenclatura di una disciplina – e sotto questo aspetto la letteratura vale quanto la fisica o l’economia – serve non soltanto a non dover indicare gli oggetti con un dito ma anche a far risaltare determinate cose (usi me-trici o retorici, tecniche narrative, correnti culturali) nel novero delle cose consimili. Il nome non inventa la cosa, ma certamente la mette a fuoco. Dovrebbe essere chiaro, però, che – negli studi letterari come in quelli scientifici – la competenza sui nomi è secondaria ri-spetto alla conoscenza delle cose: il linguaggio, i testi, le idee degli scrittori, il loro mondo. Mi càpita un po’ troppo spesso di incontrare matricole di Lettere che sanno più o meno cos’è, tra mille balbettii, la retrogra-datio cruciata, cioè quello strano artificio metrico che regola la successione delle rime nella sestina (un genere metrico marginalissimo nella poesia due-trecentesca: ce ne saranno meno di venti esemplari, in un corpus di migliaia di testi), ma non sanno che cos’è la Vulgata, o ignorano chi fosse Tommaso d’Aquino, o hanno bi-sogno del vocabolario per capire il significato di pa-role come alma, calere, speme. Oppure sanno in quale

(35)

canto della Commedia, in quale cerchio e in quale bol-gia stanno gli incontinenti, solo che non hanno idea di cosa voglia dire incontinenti.

Tutto questo non è sbagliato in sé: che male c’è a sapere cos’è un’anadiplosi, o in quale girone infernale sta Ulisse? Ma diventa sbagliato se mette nella testa degli studenti la convinzione che i romanzi, i saggi, le poesie (soprattutto le poesie!) non siano dei messaggi che qualcuno ci ha spedito anni o secoli fa, messaggi che vanno ascoltati, compresi, giudicati, apprezzati per la loro bellezza o verità, ma degli strani, minacciosi marchingegni di cui importa soprattutto smontare gli ingranaggi per vedere come sono fatti dentro. Somiglia un po’ alla sindrome descritta (con compiacimento, ahimè, non con preoccupazione) da Carlo Levi in Il futuro ha un cuore antico, quando racconta di una sua conferenza a Mosca e del commento di un giovane lettore sovietico di Cristo si è fermato a Eboli: «Non gli riesce ancora, dice, di inquadrarlo bene, di siste-marlo come ‘genere letterario’: la sua ‘fabula’ è sem-plice, le idee nascono direttamente dalle vicende, sono raccontate con sinteticità: gli stessi caratteri che egli ha riscontrato nei film italiani. Questo è molto bene. Si riserva di studiarne meglio ‘l’officina’. Lo rileggerà e lo analizzerà a fondo, sistematicamente, per scoprirne l’interno meccanismo»1.

Ora, le «analisi sistematiche» volte a scoprire gli «interni meccanismi» raramente si concludono con l’ammissione che non c’era niente di interessante da scoprire: se c’è la domanda, ci sarà anche la risposta. Si fa strada, in questo modo, un’idea laboratoriale, al-chemica della letteratura, l’idea per cui ogni minimo

1 Carlo Levi, Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione

(36)

dettaglio diventa una traccia per decifrare chissà quale verità nascosta, e ogni inezia viene semantizzata. Na-turalmente, il close reading è una giusta strategia, se mantenuta entro i limiti del ragionevole e se condotta da persone che abbiano letto molto, cioè che abbiano dimestichezza non con i metodi e il loro gergo, ma con i libri. Ma il close reading predicato agli adole-scenti finisce per diventare un’istigazione al parlare a vanvera. Obbligati non a leggere ma ad analizzare, non ad analizzare ma ad analizzare in profondità i brani antologici, gli studenti vengono presi da una foga in-terpretativa che ricorda un po’ quella dei critici strut-turalisti più ingenui e spiritati, quelli che, abbacinati da Jakobson, non chiudevano il libro finché non erano riusciti a semantizzare i fonemi, i punti e virgola. Così, nel testo più limpido e piano finiscono per trovarsi complicazioni mai viste, enigmi insondabili, arabeschi degni della Settimana Enigmistica, una specie di gioco al rialzo nel quale vince chi osserva il suo vetrino col microscopio più potente, anche al prezzo delle traveg-gole. In Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono «l’allit-terazione della esse vuole esprimere la solitudine del poeta»; in Tanto gentile e tanto onesta pare «il suono delle vocali aperte imita l’incedere solenne della donna amata»; e nel più limpido paragrafo della Cognizione del dolore affiorano, naturalmente, «il plurilinguismo e il pluristilismo gaddiano». Non sono esempi inventati. Naturalmente non si tratta di abolire il momento dell’interpretazione, e del confronto delle interpreta-zioni. Dato che leggere serve in primo luogo a far ri-flettere, è più che giusto che gli studenti siano messi di fronte ai pareri di lettori più esperti di loro. Ma l’idea universitaria della letteratura finisce spesso per sostituire i discorsi sui testi (o sui contesti) ai testi, e le etichette ai contenuti che quelle etichette vorrebbero

(37)

classificare. Invece, è meglio passare molto tempo a leggere qualche poeta stilnovista o qualche scrittore romantico che a ragionare su ‘Che cos’è lo Stilnovo’ e ‘Che cos’è il Romanticismo’. In questo senso, il caso-Leopardi è esemplare. Come ha scritto Clizia Carmi-nati qualche tempo fa su «Internazionale», al nome di Leopardi si associa quasi sempre, con riflesso pavlo-viano, la parola pessimismo:

Leopardi usa una sola volta la parola pessimismo, nello

Zibaldone, e al negativo. Eppure, digitando in Google

«Le-opardi pessimismo», escono 683.000 risultati. Il primo sito della lista è Wikipedia, il secondo «Tutto Leopardi in 10 pillole». Tutti gli studenti o quasi sanno che Leopardi attra-versa varie «fasi di pessimismo» […]: individuale, storico, cosmico; seguite (le fasi) da una quarta eventuale, nota solo ai più preparati: quella del ‘pessimismo eroico’. Peccato che questa vulgata non sia che il distillato di una tradizione cri-tica ormai assimilata (e propinata) senza più leggere quel che ha scritto Leopardi. L’esigenza (o ossessione) di sem-plificare e rendere pronto all’uso, spendibile («in termini di conoscenze, competenze, abilità», come recitano gli ‘obiet-tivi forma‘obiet-tivi’), ciò che è per sua natura complesso, cioè un testo letterario, ha prodotto un’incomprensibile tendenza a prediligere lo studio della ‘critica’, quella che tecnicamente si chiama ‘bibliografia secondaria’, rispetto alla lettura di-retta dei testi, o ‘bibliografia primaria’.

A queste osservazioni di Clizia Carminati posso ag-giungere un aneddoto personale. Al capitolo su Leopardi del mio manuale per le scuole superiori ho lavorato con uno dei migliori conoscitori del nostro Ottocento, Emilio Torchio. Né lui né io volevamo parlare di pessimismo cosmico, storico e affini. Ma  –  ci hanno fatto osser-vare – nelle antologie scolastiche il pessimismo storico non può non esserci. Allora abbiamo scritto una scheda

(38)

nella quale abbiamo spiegato che Leopardi non ha mai davvero adoperato queste formule, e che il responsabile della semplificazione è stato uno studioso di un secolo fa, Bonaventura Zumbini. Cito dal manuale:

Uno dei primi interpreti di Leopardi, Bonaventura Zumbini, parlò, nei suoi Studi sul Leopardi (1902-1904), di ‘pessimismo storico’ leopardiano, distinguendolo da un successivo atteggiamento che egli stesso chiamò ‘pessimismo cosmico’. Naturalmente, le etichette contano poco, nella ricostruzione del pensiero di un autore, e soprattutto di un autore tanto complesso come Leopardi. Ma queste due eti-chette hanno avuto fortuna, nella storia della critica, e sono servite a fissare, in maniera certamente troppo schematica, la trasformazione a cui va incontro la visione della vita di Leopardi poco dopo i vent’anni.

È tutto chiarito, tutto spiegato come si deve, ma non mi faccio illusioni: ho poche speranze che il «pes-simismo storico/cosmico» possa essere espulso dalle menti degli italiani che vanno a scuola (un po’ come, mi dice un’amica medievista, è quasi inamovibile, nei manuali di storia, l’idea fasulla della «piramide feu-dale»). La morale? La morale è che bisogna fare l’uso più discreto possibile di quelle scorciatoie per il pen-siero che sono le categorie critiche o storiografiche, e che un tema dal titolo «Parafrasa verso per verso questa poesia e commentala con parole tue» va bene, mentre un tema dal titolo «Il tramonto della luna di Leopardi appartiene al periodo del pessimismo sto-rico o a quello del pessimismo cosmico?» non va bene, perché trasforma in un ente reale quello che invece è soltanto un modo di dire.

4. Un ragionamento simile vale  –  per tornare al punto da cui siamo partiti – per la nomenclatura

(39)

metrica e retorica. Saper parafrasare Dante è impor-tante, perché significa padroneggiare l’italiano antico, e quindi potersi accostare alle idee e ai sentimenti che Dante ha espresso nei suoi libri senza mediazioni: ascoltare direttamente la sua voce. Invece, mandare a memoria come funziona la retrogradatio cruciata non è importante, perché è un’informazione che non ag-giunge quasi niente alla nostra comprensione della poesia, un’informazione che può essere trovata senza sforzo nei libri, o in rete. Né è molto più utile sapere che la figura retorica contenuta nel verso «il divino del pian silenzio verde» si chiama ipallage: è solo un modo per riempire una casella.

Ma perché bisogna riempire le caselle? Non vedo altra risposta se non: «per rispondere bene all’inter-rogazione». Non credo sia una buona risposta, ma è la risposta che spiega e giustifica, nei libri di testo, le ‘mappe concettuali’, le tabelle riassuntive di fine capi-tolo, le sintesi per parole-chiave (tutte cose presenti, si capisce, anche nel mio manuale, e preparate con certo-sina pazienza, ma anche con un certo senso di colpa). L’idea è che sia importante ritenere almeno questo: se Leopardi era o no pessimista; se Fenoglio era o no un neorealista; se Pagliarani faceva o non faceva parte del Gruppo 63. È davvero uno strano atteggiamento. Nozioni che troveremmo ingenue, insulse, persino sciocche se ci venissero propinate in una conversa-zione, perché vi fiuteremmo subito l’imparaticcio (non è ovvio che «pessimista» e «neorealista» non dicono niente su Leopardi e su Fenoglio? E che importa con chi faceva gruppo Pagliarani, specie se non si legge La ragazza Carla?), sono proprio quelle che chiediamo agli studenti di mandare a memoria e di ripeterci: almeno quelle. Ma sapere queste cose non serve a niente, per-ché non è a questo che servono i libri.

(40)
(41)

Manca Della Valle

1. Che cosa pensavo, sei anni fa, quando l’editore De Agostini Scuola mi ha proposto di fare (il corsivo lo spiego tra poco) un nuovo manuale+antologia per gli ultimi tre anni della scuola superiore? Pensavo, nell’ordine:

(a) Gesù, così giovane, e già ti chiedono di fare un manuale per le scuole superiori.

(b) Sarebbe una buona occasione per fare un manuale un po’ diverso dal solito, un po’ più reali-stico del solito, scritto in un italiano limpido, onesto, un po’ più vicino all’italiano che si parla (quando si parla bene) e meno all’italiano che si scriveva nell’Ot-tocento, o negli anni Sessanta-Settanta-Ottanta del Novecento, quando il demone della teoria e del-l’«analisi del testo» ha imperversato seminando i suoi attanti, le sue estetiche della ricezione, i suoi ‘dividi il brano in sequenze’ anche nei cervelli di quindicenni che non avevano mai letto un libro in vita loro. Que-sto non tanto per un desiderio di inclusione quanto per un’esigenza di decoro e di serietà. Negli Stati Uniti esiste un premio intitolato a George Orwell che viene attribuito for Honesty and Clarity in Public Language, evidentemente perché si presuppone che la chiarezza nel parlare e nello scrivere sia un requisito morale. E anch’io lo penso: spiegare con chiarezza le cose, parlando o scrivendo, è un requisito morale,

(42)

un obbligo morale: tanto più in un libro di testo per adolescenti.

(c) Sarebbe una buona occasione per dare qualche soldo a studiosi e giovani bravi. Un manuale non si fa da soli, ovviamente, e poter gestire un budget di qualche decina migliaia di euro è anche un modo per fare del bene.

(d) E se poi vende faccio qualche soldo anch’io. E adesso sono passati sei anni, e il manuale è uscito, e va verso il suo destino.

2. Ma non è che gli obiettivi siano rimasti gli stessi: un po’ sono cambiati. Il pensiero (e), sei anni fa, ri-guardava i futuri destinatari del mio manuale. Basta predicare a quelli già salvati, mi ero detto, basta fare libri scolastici ritagliati su quel cinque-sei per cento di privilegiati che fanno il liceo classico, andiamo al po-polo: è ora di pensare a un manuale realistico, cordiale, amichevole, limpido, destinato non ai pochi liceali ma ai tantissimi delle scuole tecniche e, soprattutto, pro-fessionali. E mi commovevo in anticipo pensando al giovane tornitore meccanico, rude ma voglioso d’im-parare, che a sua volta si commoveva leggendo quella pagina di Leopardi che mi piaceva tanto, quella poesia di Larkin che, senza parere, parlava con tanta verità della mia e della sua vita (eundo, il progetto era diven-tato quello di un manuale internazionale). Mi commo-vevo, fingevo di commuovermi anche pensando a mio fratello.

Mio fratello, un uomo intelligente, un uomo che se l’è cavata piuttosto bene nella vita, ha finito gli studi di ragioneria credendo che Il Gattopardo fosse l’autore di

(43)

un libro intitolato I Tommasi di Lampedusa. Quando mi sono messo a scrivere il mio manuale per le scuole superiori avevo ben chiaro il fatto che il mio destinata-rio somigliava più a mio fratello che a me (che a sedici anni avevo già letto anche i racconti di Lampedusa, e anche un po’ delle sue lezioni di letteratura inglese e francese). Avevo ben chiaro cioè che dovevo rivol-germi non agli studenti di Lettere, e neppure ai futuri studenti di Lettere, ma all’adolescente medio, e che avrei fatto bene a non sopravvalutare le competenze letterarie di questo adolescente medio.

A manuale concluso, quando si trattava di sce-gliere un’immagine significativa per la campagna pub-blicitaria, un’immagine che dicesse con che spirito, e per chi, avevamo lavorato, non potendo mettere sulla brochure una foto di mio fratello, abbiamo scelto un fotogramma di un film famoso: Antoine Doinel, che guarda in macchina nella lunga sequenza sull’oceano su cui si chiude I 400 colpi di Truffaut. Nelle presenta-zioni del manuale in giro per l’Italia dico che la scuola dovrebbe dare una chance, o più chance, soprattutto a un ragazzino come quello, alla piccola canaglia che scappa dalla famiglia, dai professori, dal riformatorio, ma a cui di fatto nessuno ha mai veramente dato una mano. Naturalmente, è una mozione degli affetti sen-timental-retorica: la faccia di un dodicenne è sempre commovente, e il mio pubblico è composto soprattutto da professoresse, da madri. Ma alla fine c’è del vero: i libri servono anche e soprattutto a questo, a dare una chance di crescita a chi non se l’è trovata nel corredo il giorno della nascita.

Poi anche questo progetto di andata al popolo è andato incontro a qualche correzione, a qualche com-plicazione. Mi hanno spiegato che no, non si può fare, come prima cosa, un manuale per gli istituti

(44)

professio-nali, non si può partire dai poveri. Bisogna fare un ma-nuale che possa essere adottato in tutti i tipi di scuola, e poi bisogna calibrarlo, con tagli, aggiunte, modifiche: la versione blu per i licei, quella verde per gli istituti tecnici, la versione rossa per chi vuole sei volumi anzi-ché quattro. Così abbiamo fatto, e adesso, quando mi domandano qual è la differenza tra le varie versioni, io mi trovo un po’ in difficoltà. Perché naturalmente uno scrive un manuale, spiega Dante Alighieri in un modo, non in due, ma rispondere semplicemente che «la ver-sione per i tecnici è più breve» sembra meschino. Dico allora che nella versione per i tecnici la sezione intito-lata La scienza raccontata è più corposa; che c’è in più una sezione di storia della filosofia; che la spiegazione, qua e là, è scorciata e semplificata (ai tecnici non si fa latino, non si fa filosofia). Ma in sostanza è lo stesso libro. Alla fine, una versione per i professionali – per il tornitore meccanico, per l’apprendista cuoco – non c’è, perché in questo caso non basterebbe tagliare. Alle professionali si fa meno italiano, e non si fa veramente storia letteraria; perciò, se come spero un manuale per i professionali finiremo per farlo, bisognerà usare il manuale ‘generalista’ che abbiamo stampato un po’ come una cava, ma bisognerà anche rimontare il ma-teriale in maniera diversa, e magari trovare il modo di parlare di libri senza metterli in ordine cronologico.

3. Si scrive un libro, si fa un manuale. Vuol dire che quando si lavora a un libro si può essere da soli, quando si lavora a un manuale no, come quando si lavora alla costruzione di una casa: ci sono i mattoni, ma poi bisogna legarli con la calce, fare gli impianti, aprire i vani-finestra, scegliere i battiscopa eccetera. Ci vogliono dei collaboratori, ed è anche per questo che in genere i manuali si fanno dopo i cinquant’anni,

(45)

o ancora più tardi, quando si può contare su una squadretta di collaboratori fedeli, i propri allievi, che si pagano ma si possono anche non pagare, o pa-gare poco, e che sono sempre disponibili a dare una mano nella ricerca iconografica, a correggere bozze, ad aggiungere delle note dove occorre. Poi, se le cose vanno bene, gli allievi-collaboratori erediteranno il manuale, metteranno il loro nome accanto a quello del coordinatore, quando il coordinatore sarà stanco, o vecchio, o morto.

Io ho accettato di fare il mio manuale quando avevo meno di quarant’anni, e non avevo allievi- collaboratori su cui contare. Perciò ho pescato tra i giovani studiosi che conoscevo e stimavo, o tra gli amici. Questo è un vantaggio da una parte, perché si possono scegliere i migliori; ma è uno svantaggio dall’altra, perché – mentre non c’è limite alle cose che si possono chiedere agli allievi – c’è un limite alle cose che si possono chiedere agli amici. Così ho scritto dei capitoli-campione, li ho passati ai collaboratori, ho concordato con loro i testi da antologizzare, il taglio da dare al profilo storico-letterario e ai commenti, e gli altri dettagli. E abbiamo proceduto.

L’ideale, ovviamente, sarebbe ricevere dai colla-boratori il materiale pronto, passarlo alla redazione, impaginare, correggere le bozze. Dire che le cose non sono andate così è riduttivo. Uno dei difetti più fre-quenti e più fastidiosi dei manuali è l’intreccio delle voci: il capitolo su Dante è scritto in un modo, quello su Ariosto in un altro, quello su Verga in un altro an-cora. Dato che uno degli obiettivi che avevo era quello di cambiare il modo, lo stile con cui si parla di lette-ratura a scuola, non ho soltanto scritto moltissimo: o anche riscritto e ri-riscritto, per fare in modo che tra le varie parti del manuale ci fosse una certa armonia,

(46)

perché il suono della voce fosse (quasi) lo stesso. In molti casi l’impegno è stato severo, come ogni impe-gno preso seriamente, ma non gravoso; in altri è stato gravoso; in altri massacrante. Perché alcuni collabora-tori si azzeccano – la gran parte, per fortuna – altri si sbagliano. Sarebbe bene scoprire quelli sbagliati subito, all’inizio dei lavori (la pagina di prova dovrebbe servire a questo), ma non sempre ci si riesce: e quando non ci si riesce bisogna correre ai ripari in extremis, cioè cestinare e riscrivere di sana pianta.

Poi ci sono i collaboratori che curano la parte di-dattica. La parte didattica contempla una sezione sulla ‘didattica per competenze’, una serie di ‘percorsi at-tualizzanti’ e un’infinità di domande sui brani antolo-gizzati. Per metà, tre quarti, si tratta di prendere sul serio cose, cioè deliri pseudo-pedagogici, che serie non sono (la didattica per competenze, dovendo insegnare letteratura, non ha molto senso), e cavarsela senza dire sciocchezze è quasi impossibile. Ad occuparsi della parte didattica sono stati, com’è inevitabile, dei docenti di scuola superiore, che sanno di che si tratta perché (un po’) la usano in classe, e che si sono rivelati quasi sempre bravissimi. Bravissimi vuol dire, anche in que-sto caso, chiari, limpidi, onesti nell’uso del linguaggio, tutte virtù piuttosto rare.

Violentati da anni di circolari ministeriali, stage pe-dagogici e teoria della letteratura mal digerita, molti in-segnanti (anche all’università) scrivono infatti in scuo-lese, un idioletto nel quale ogni linea retta diventa un arabesco, e anziché dire «Cerca nel testo le parole» si dice «Ricerca nel testo i lessemi», anziché dire «Con-fronta» si dice «Esegui una comparazione», anziché dire «Trova il verso in cui il poeta» si dice «Rintraccia il verso in cui l’io lirico». Bref, un incalcolabile numero di pomeriggi l’abbiamo speso – io e i miei

(47)

collabora-tori – in esercizi di traduzione scuolese-italiano: non «Rispondi al quesito, avvalendoti di adeguati riferi-menti al testo» ma «Rispondi alla domanda attraverso opportuni rimandi al testo»; non «Per conseguire il fine della comicità, Pulci» ma «Per far ridere, Pulci»; non «Tiepolo sceglie di ritrarre un personaggio le-gato alla dimensione infantile» ma «Tiepolo sceglie di ritrarre un bambino»; non «Dislocazione dei piani temporali» ma «andirivieni tra passato e futuro»; non «Quello che abbiamo letto costituisce un inserto sag-gistico nel quale il narratore compie una digressione sull’evoluzione del movimento operaio» ma «Nel brano che abbiamo letto, il narratore apre, all’interno del racconto, una breve digressione sulla storia del movi-mento operaio».

Possono sembrare, questi legati alla forma dell’e-spressione, dei dettagli, ma non lo sono, perché l’or-rore dei manuali, di qualsiasi disciplina, sta soprattutto in questa lingua irreale, che dai libri si trasmette agli insegnanti, e dagli insegnanti agli scolari, che poi cre-scono pensando che si debba parlare e scrivere così, s’impiegano nella pubblica amministrazione, nelle aziende, nella scuola, e il contagio si allarga, e nei ma-nuali si finisce per leggere atrocità come

Parini offre il suo contributo attraverso la satira, un genere che si avvale di elementi espositivi ed enunciativi specifici, come di artifici retorici allusivi che coinvolgano il fruitore in un processo di decodifica anche emotivo.

Oppure come

L’interpretazione, in quanto atto del testo, coinvolgente la soggettività ‘altra’ del lettore, non lascia spazio all’arbitrio, implicando una innervazione del soggetto-interprete sottesa

(48)

dalle istanze concomitanti dell’interpretazione del testo e della interpretazione di sé.

È tutto vero. Se qualcuno, leggendo il mio ma-nuale, dirà che, se non altro, è scritto bene in italiano, non avrò più niente da chiedere al destino.

4. Che fare, con la letteratura, a scuola? Leggerla, è l’ingenua risposta che avrei dato sei anni fa, prima di cominciare il manuale. Leggerla, fare dei brevi com-menti ai brani, parlarne insieme, chiedere agli studenti di scrivere qualcosa prendendo spunto da quello che hanno letto, passare ad altro. Mi pareva di ricordare che le cose andassero così, mi pareva che le cose do-vessero andare così. Ma il quarto di secolo passato tra la scuola che ho frequentato io e quella che frequen-tano i destinatari del mio manuale ha cambiato molto le cose. Ci vuole, adesso, l’enorme apparato didattico a cui ho accennato: bisogna lavorare sulla letteratura. E ci vogliono (nel senso che sono graditi) commenti sesquipedali, che spremono il brano antologizzato fino alla buccia.

Quanto al lavoro sulla letteratura, si tratta soprat-tutto di un lavoro sulla forma. Si largheggia in esercizi di analisi e smontaggio, nella convinzione, perlomeno ingenua, che si impari a leggere i libri comprenden-done l’interno meccanismo. Davanti a un brano di Pe-trolio di Pasolini, allo studente non si domanda «che cos’è il petrolio?» o «chi lo produce?» o «cos’è l’O-PEC», o «perché all’inizio degli anni Settanta il trolio diventa tanto importante, e il discorso sul pe-trolio tanto urgente?». È un brano letterario: bisogna afferrare la sua letterarietà. Perciò si domanda «Dividi il brano che hai letto in sequenze, e dai un titolo a ciascuna di esse» o «Sottolinea le figure retoriche nel

(49)

brano che hai letto». Sono domande che si possono fare a qualsiasi testo, sollecitando sempre le stesse ir-rilevanti risposte. Ma è un protocollo, è un metodo, è qualcosa.

Quanto ai commenti, devono dare munizioni al ‘lavoro sul testo’, dunque prima di tutto devono es-sere lunghi («M’illumino / d’immenso» è una poesia, e una poesia non può avere meno di venti righe di com-mento: quindici sono, per forza di cose, fuffa, ma non importa); poi devono largheggiare in osservazioni non su cosa c’è scritto nel testo ma su com’è scritto. Un amico, insegnante alle superiori, che rivedeva a mano a mano i miei commenti, che mi aiutava a capire se pote-vano funzionare in classe, mi ha suggerito, a proposito di un sonetto di Belli: «Fare qualche considerazione sugli aspetti di sonorità: al v. 8 il suono r dalla sono-rità piuttosto esplicita; al v. 14 le due o accentate della gola della morte; la presenza di molte nasali rallenta il ritmo, dando al testo una connotazione meditativo-sen-tenziosa». Osservazioni del genere si sprecano, nei ma-nuali scolastici. Un quarto del totale, diciamo, hanno una loro plausibilità; tre quarti sono completamente scentrate, e mettono negli studenti l’idea balorda che leggere una poesia voglia dire andare a caccia delle anafore, o fare il conto delle nasali e delle sibilanti. Il prodotto di questo bizantinismo è un mio studente del primo anno di Lettere che, commentando i primi tre versi della Commedia, osserva come Dante «faccia ampio uso di rime difficili e allitterazioni per conse-guire un dettato aulico». L’invito a scomporre in suoni una poesia, se di poesie nella propria vita se ne sono lette cinque, e se si sa che su quella poesia si verrà interrogati, porta a pensare alla letteratura come a un esercizio di enigmistica, a inventarsi complicazioni ine-sistenti, a dire sciocchezze (è una sciocchezza

Riferimenti

Documenti correlati

Gli incontri si terranno presso il Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici (Via Festa del Perdono, 7), Auletta 1 (sottotetto). martedì 3

Eppure questo libro cerca di dimostrare – al di fuori di ogni retorica consolatoria e del rischio sempre pre- sente del reducismo – che la storia non può finire e che lo spirito di

Nella ‘Cripta dei Cappuccini’, a Vienna, c’è una parte della storia del mondo – Francesco Giuseppe, Elisabetta e il figlio Rodolfo – Le ragioni di Calderon de la Barca..

Fu dunque con i tre film degli anni Cinquanta, tutti di enorme successo, che il pubblico venne coinvolto e quindi travolto da immagini e intrecci amorosi che avevano ben

Se  Danto  riesce  a  evitare  di  soffocare  la  propria  teoria  che  dichiara  insufficiente  ogni  altro  linguaggio  che  tenti  di  parafrasare,  sintetizzare 

ROSSI: Il senso della storia intrinseco all’arte: tempi e tem- peste. Giovedì

Se l’arte non viene praticata e fruita come apertura di mondi possibili, e come de–realizzazione e negazione dell’esistente, ma è invece definita come una prassi in cui tutto

As it has been diffusely shown by the ELF literature, they start from the assumption that “users of English as a lingua franca are capable of using language to communicate in