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Il quadro clinico dell’aortite può essere notevolmente variabile comprendendo forme totalmente asintomatiche, che danno segno di sé solo nel momento in cui compaiono le complicanze della flogosi vascolare e cioè stenosi e/o aneurismi, e forme caratterizzate dalla presenza di segni e sintomi che sono tuttavia aspecifici quali: dolore addominale o lombare, febbre, astenia, calo ponderale, insufficienza valvolare aortica; a questi si può aggiungere la sintomatologia specifica della patologia causa dell’aortite. Gli esami di laboratorio solitamente evidenziano la presenza di un processo flogistico in atto con elevazione degli indici aspecifici di flogosi talvolta

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associati ad anemia normocromica e normocitica e piastrinosi. Nel caso di aortiti infettive compare solitamente leucocitosi neutrofila, possono aiutare emocolture, intradermoreazione di Mantoux e/o Quantiferon gold e test sierologici per la sifilide, mentre nelle forme di aortite in corso di IRF va esclusa la presenza di linfomi o neoplasie metastatiche con interessamento del retroperitoneo. Data la aspecificità del quadro clinico e laboratoristico, per la diagnosi di aortite risultano fondamentali le metodiche strumentali di imaging le quali ci permettono di distinguere tra forme infettive e non infettive, di valutare le alterazioni a carico di parete e lume del vaso e l’estensione della malattia. Possono inoltre essere utili per biopsie guidate in casi selezionati e nel follow-up del paziente sia per quanto riguarda la risposta al trattamento e il grado di attività della malattia sia per quanto riguarda la comparsa di complicanze nel lungo termine (1, 2). Le metodiche di imaging più utilizzate sono:

angiografia: un tempo era considerata il gold-

standard per la diagnosi di aortite, soprattutto di quella causata da TA. Oggi tale tecnica è stata sostituita da angio-TC e angio-RM: metodiche non invasive che ci danno informazioni non solo sul

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lume vascolare, ma anche sullo stato della parete del vaso e delle strutture periaortiche. Oltre quello di essere una metodica invasiva, un altro svantaggio della angiografia è l’uso di alte dosi di radiazioni; attualmente viene utilizzata prevalentemente per procedure terapeutiche interventistiche (ad esempio procedure di rivascolarizzazione) (4, 22).

Angio-TC: la tomografia computerizzata con mezzo

di contrasto iodato ha praticamente sostituito l’angiografia nella diagnosi delle vasculiti dei grossi vasi. È una metodica ampiamente disponibile in tutti i centri ed è di solito la prima indagine richiesta nel sospetto di aortite. È un’indagine multiplanare, con possibilità di ricostruzioni tridimensionali e con un’eccellente risoluzione spaziale. Ci permette di escludere rapidamente la presenza di altre patologie aortiche che possono mimare la presenza di un’aortite quali dissecazioni dell’aorta, ematomi intramurali e ulcere aterosclerotiche penetranti. In caso di aortite la TC evidenzia di solito un ispessimento irregolare della parete aortica, un enhancement di parete dopo somministrazione del mezzo di contrasto e una

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flogosi periaortica. Nel lungo termine è utile per monitorare l’eventuale comparsa di complicanze come aneurismi, stenosi, trombosi e calcificazioni della parete aortica. I suoi svantaggi sono l’esposizione a radiazioni ionizzanti, l’uso di mezzo di contrasto iodato che pone problemi in soggetti allergici o con insufficienza renale e la poca sensibilità circa il grado di attività di malattia (1, 4). Angio-RM: la risonanza magnetica con mezzo di

contrasto (gadolinio) è una delle metodiche di scelta nel paziente con aortite, soprattutto se causata da vasculite dei grossi vasi, che necessita di valutazioni strumentali multiple nel corso del tempo. È, come la TC, una tecnica multiplanare con possibilità di ricostruzioni tridimensionali che non fa uso però né di radiazioni ionizzanti né di mezzo di contrasto iodato. Fornisce informazioni sull’estensione del processo flogistico a carico dell’aorta, sullo stato del lume e della parete vasale evidenziando ispessimenti della parete, aneurismi o stenosi vascolari. Con particolari sequenze, definite “edema weighted”, la angio-RM mostra la presenza di edema nella parete del vaso correlato al grado di attività di malattia. Nel follow-up dei pazienti con

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aortite non solo, come la angio-TC, permette di evidenziare la comparsa di complicanze, ma potrebbe fornire anche informazioni sulla risposta alla terapia (riduzione dell’edema di parete) e sul grado di attività di malattia. Non può essere impiegata in pazienti portatori di pacemaker o di protesi metalliche e nei pazienti con insufficienza renale, che controindica la somministrazione di gadolinio (22, 1).

18-Fluorodeossiglucosio tomografia ad

emissione di positroni (FDG-PET): è una indagine

di medicina nucleare sempre più utilizzata per la diagnosi di aortite e vasculite dei grossi vasi. Il processo infiammatorio a livello della parete vascolare si caratterizza per la presenza di cellule infiammatorie con metabolismo aumentato che quindi ipercaptano il FDG: si osserverà quindi nell’aortite un accumulo del radiofarmaco a livello della parete arteriosa. La PET può essere utile anche nel follow-up dei pazienti e per la valutazione della risposta al trattamento. I suoi principali svantaggi sono: l’esposizione a radiazioni, l’elevato costo, la disponibilità limitata solo in pochi centri e la bassa risoluzione spaziale (non dà informazioni

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morfologiche e cioè non evidenzia né l’ispessimento di parete né l’eventuale presenza di stenosi, aneurismi o trombi inoltre sono visualizzabili solo i vasi con un diametro di almeno 4mm) per cui di solito viene combinata con la TC per ottenere una maggiore precisione anatomica (4).

Ecodoppler: è una metodica non invasiva che

combina le immagini real-time con la determinazione della velocità di flusso tramite doppler, permettendo così la stima sia della anatomia vascolare che dello stato luminale. L’ecografia dell’addome e l’ecocardiogramma transtoracico o transesofageo nei pazienti con aortite possono evidenziare l’ispessimento circonferenziale della parete e la presenza di aneurismi, stenosi o trombosi; non forniscono invece informazioni sul grado di attività di malattia (1, 4).

Nelle aortiti infettive l’indagine strumentare di prima scelta è la angio-TC che evidenzia: ispessimento della parete arteriosa con captazione disomogenea del mezzo di contrasto, nodularità periaortiche, presenza di fluido o di una massa di tessuto molle captante il mezzo di contrasto

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in sede periaortica, modifiche del diametro dell’aorta fino alla comparsa di aneurismi sacculari, presenza di gas nella parete aortica e in sede periaortica, raccolte ascessuali. Con la angio-RM si evidenzia il tratto di aorta colpito che presenta una parete ispessita, captante mezzo di contrasto, edematosa. Poco utili la PET, che evidenzia la flogosi di parete, ma non permette di distinguere tra aortiti infettive e non infettive, e l’ecografia che evidenzia la dilatazione aneurismatica, ma non fornisce alcuna informazione nelle forme di aortite non aneurismatica. L’ecografia nel caso di aortite infettiva può essere un esame di completamento, ma non è un esame da utilizzare in prima battuta per formulare una corretta diagnosi (6, 23, 24).

Nell’ambito delle aortiti non infettive PET, angio-RM e angio-TC sono fondamentali per evidenziare l’interessamento flogistico dell’aorta e l’estensione della flogosi vascolare con i pro e i contro di ogni metodica che ho sopra ricordato. Tra le aortiti non infettive meritano particolare attenzione TA, ACG e periaortite cronica. Per quanto riguarda TA il gold standard per la diagnosi di tale patologia in passato era considerata la angiografia che oggi è stata sostituita dalle tecniche di imaging non invasive per le molteplici ragioni sopra citate. La angio-TC

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nelle fasi iniziali della TA mostra un quadro tipico detto “double ring”: la parete arteriosa infiammata è ispessita in modo concentrico con un anello interno ipointenso corrispondente all’intima edematosa, ipodensa e ipocaptante il contrasto e un anello esterno iperintenso corrispondente a media e avventizia infiammate e quindi ipercaptanti il contrasto. Alla angio-RM la parete arteriosa infiammata è ispessita, con ritardato enhancement dopo la somministrazione di gadolinio nella sequenze T1 e iperintensa nelle sequenze di T2 per presenza di edema. Sia angio-TC che angio-RM permettono di evidenziare la comparsa di eventuali complicanze tardive della flogosi arteriosa mentre, per entrambe, ci sono pareri contrastanti circa la loro utilità nel definire il grado di l’attività di malattia nel lungo termine. Il controllo della malattia con la terapia steroidea e immunosoppressiva si traduce in riduzione dell’enhancement di parete sia alla TC che alla RM. Per quanto riguarda invece la riduzione dell’edema e dello spessore della parete arteriosa come parametri di risposta al trattamento, i risultati a nostra disposizione sono contrastanti, in particolare risulta difficile, basandosi solo sullo spessore della parete, distinguere tra lesioni infiammatorie attive e lesioni fibrotiche croniche per cui occorrono studi più

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approfonditi per comprendere come angio-TC e angio-RM ci possano aiutare nella valutazione del grado di attività delle vasculiti dei grossi vasi. Nella TA può essere utile inoltre l’ecodoppler per lo studio delle arterie carotidi comuni, frequentemente colpite da tale patologia. Nei soggetti sani, la parete delle carotidi mostra all’ecografia due linee parallele, ecogene separate da uno spazio ipoecogeno che rappresenta l’interfaccia lume-intima e media-avventizia chiamato complesso intima-media (IMC). Nella TA attiva, in sezioni trasverse, si osserva un aumento diffuso e circonferenziale dell’IMC (“macaroni sign”) che probabilmente riflette la presenza di edema infiammatorio, un’aumentata vascolarizzazione o entrambi. L’ispessimento è più marcato nella patologia attiva che in quella inattiva mentre l’iperecogenicità si può osservare sia in arteriti attive che in quelle inattive; resta da chiarire se l’ecodoppler possa essere utile per valutare l’attività di malattia cioè se vi sia una correlazione tra risposta al trattamento e grado di ispessimento della parete arteriosa. Nonostante sia una metodica operatore- dipendente e non permetta di studiare tutti i tratti arteriosi (ad esempio, per la loro localizzazione profonda e per la presenza di strutture anatomiche sovrastanti, non è possibile studiare correttamente aorta toracica e

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addominale) l’ecografia può essere utilizzata per il monitoraggio dei pazienti con TA. Il gold standard per la diagnosi di ACG è la biopsia dell’arteria temporale (TAB); per la valutazione dell’interessamento dei grossi vasi sono di aiuto sia l’angio-TC, meno utilizzata in questa patologia, sia l’angio-RM con i medesimi reperti e le medesime incertezze riguardo al ruolo di tali metodiche nel follow-up del paziente con ACG. La RM ad alto campo (1,5-3 T) può essere utilizzata per lo studio dell’arteria temporale che, se colpita dal processo infiammatorio, si presenta con parete ispessita e con enhancement di parete e intorno ad essa. Anche in questo caso rimane da chiarire se esiste una correlazione tra i dati RM e i parametri clinici e di laboratorio e se quindi questa metodica possa o meno essere utilizzata nel follow-up. L’ecografia nella ACG viene utilizzata per lo studio dell’arteria temporale la quale, se interessata dal processo flogistico, mostra un reperto tipico e cioè un ispessimento ipoecogeno della parete dovuto all’edema infiammatorio (segno dell’halo). La terapia steroidea, iniziata prima dell’ecografia, può sopprimere l’edema di parete con scomparsa del segno dell’ halo. Nell’interpretazione dei risultati ecografici andrebbe valutata la probabilità di ACG prima del test (probabilità pre-test) determinata sulla

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base di storia clinica, esame fisico e valori della VES del paziente. Si distinguono tre situazioni: se la probabilità pre-test è bassa (≤10%) l’ecografia negativa esclude praticamente la ACG ed elimina il bisogno della TAB; se la probabilità pre-test è alta (≥90%) la TAB è praticamente inevitabile, indipendentemente dai risultati dell’esame ecografico. Se infine la probabilità pre-test è del 50% (ACG probabile, ma sono possibili altre diagnosi), l’ecografia è di grande valore in quanto reperti anormali accrescono la probabilità di ACG a livelli tali da giustificare una TAB, mentre risultati negativi riducono la probabilità all’interno di un range nel quale la TAB dovrebbe essere considerata su basi individuali. Sia nella TA che nella ACG è di grande aiuto per identificare la presenza di impegno dei grossi vasi la PET la quale fornisce informazioni sia sulla severità che sull’estensione del processo infiammatorio. A causa dell’elevato uptake di FDG da parte del tessuto encefalico, non è possibile valutare l’impegno dei vasi di medio calibro quali arterie temporali e craniche. La PET può essere utilizzata anche per valutare il grado di attività di malattia nel tempo: la risposta clinica e bioumorale al trattamento si traduce in una riduzione dell’uptake del FDG sebbene in molti casi un minimo di captazione rimanga anche nei pazienti considerati in remissione

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lasciando aperta la questione dell’utilità dei tale diagnostica nel follow-up dei pazienti. Da ricordare che la captazione vascolare di FDG alla PET può essere dovuta non solo ad una vasculite, ma anche ad una aterosclerosi. In caso di vasculite si osservano lesioni lineari con un intenso uptake di FDG mentre le placche aterosclerotiche hanno un aspetto irregolare (si parla di “hot spots”) con un uptake di FDG meno intenso; nei casi dubbi possono essere di aiuto angio-TC e angio-RM di completamento. Non è stato raggiunto un accordo sulla frequenza di ripetizione delle indagini strumentali in pazienti con vasculite dei grossi vasi. È chiaro che se si sospetta una riacutizzazione, sulla base del quadro clinico e degli esami di laboratorio, una indagine strumentale dovrebbe essere ripetuta. Alcuni esperti suggeriscono di eseguire una metodica di imaging almeno una volta l’anno, anche quando i parametri clinici e di laboratorio siano indicativi di una patologia inattiva, con lo scopo di evidenziare una eventuale progressione asintomatica della patologia o la comparsa di complicanze tardive (25, 26, 27). La TC e la RM sono considerate le metodiche di scelta anche per la diagnosi di CP; alla TC le forme non aneurismatiche di CP appaiono come un tessuto omogeneo, isodenso rispetto al tessuto muscolare adiacente che circonda

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parete anteriore e pareti laterali dell’aorta addominale e che si estende nel retroperitoneo inglobando le strutture adiacenti arrivando fino a livello delle arterie iliache comuni. Nelle forme aneurismatiche di CP si osserva la dilatazione fusiforme dell’aorta circondata nella sua parete anteriore e laterale da un tessuto molle isodenso. Dopo la somministrazione del mezzo di contrasto si osserva un enhancement del tessuto periaortico ad indicare la presenza in esso di una flogosi attiva. Alla RM IRF e aneurismi infiammatori appaiono ipointensi nelle sequenze T1-pesate, iperintensi nelle sequenze T2-pesate per la presenza di edema infiammatorio (l’intensità di segnale dipende dal grado di infiammazione del tessuto) e ipercaptanti il mezzo di contrasto nelle fasi di attività. La TC e la RM evidenziano un ispessimento della parete aortica antero-laterale (flogosi), possono aiutare a differenziare le forme idiopatiche di RF da quelle secondarie e possono essere utili nel follow-up del paziente sebbene i dati a nostra disposizione siano ancora insufficienti; non è chiaro se ci sia correlazione tra i dati di laboratorio e clinici e i reperti strumentali (nelle fasi di inattività prevale un tessuto fibrotico per cui si dovrebbe ridurre la captazione del mezzo di contrasto e alla RM il tessuto dovrebbe presentarsi meno intenso nelle sequenze

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T2-pesate). La PET, infine, può essere di aiuto nelle CP per definire il grado di attività di malattia e la sua estensione. È grazie alla PET che si è osservata nelle CP la presenza di una flogosi della parete della aorta addominale e della arterie iliache, con aspetto identico a quello delle vasculiti dei grossi vasi, e si è quindi ipotizzato che tali patologie possano essere classificate come vasculiti dei grossi vasi (1, 17, 18, 19).

TERAPIA

La terapia delle aortiti varia a seconda che si tratti di forme infettive o non infettive. Se non correttamente e prontamente trattate le aortiti infettive hanno un decorso rapido e fatale con formazione di una dilatazione aneurismatica e sua successiva rottura, sebbene sia anche possibile la rottura della aorta infetta senza la precedente formazione di un aneurisma. Non esistono studi randomizzati controllati che ci possano guidare nel trattamento delle aortiti infettive. Secondo la maggior parte degli autori la miglior scelta di trattamento in questi casi è l’associazione tra terapia antibiotica e escissione chirurgica dell’aorta infetta. Lo scopo della chirurgia è confermare la diagnosi, controllare la sepsi, controllare l’emorragia in caso di precedente rottura e riparare

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l’albero arterioso tramite l’impianto di protesi vascolari. Non appena venga posto il sospetto di un’aortite infettiva, è fondamentale iniziare a somministrare per via endovenosa antibiotici ad ampio spettro o scelti sulla base degli esami colturali eseguiti. Se l’intervento non è urgente, non sono quindi presenti i segni di una rottura impellente o di una sepsi non controllata, è opportuno proseguire con la terapia antibiotica per 2-4 settimane prima della chirurgia con lo scopo di migliorare le condizioni chirurgiche locali. Gli antibiotici dovrebbero poi essere continuati per almeno 6-12 settimane dopo l’intervento e/o dopo la negativizzazione delle emocolture; in realtà non esiste una opinione concorde circa la durata della terapia antibiotica poiché dovrebbe dipendere dal tipo di trattamento chirurgico, dal microorganismo in causa, dal tratto dell’aorta interessato e dalla presenza di eventuali fattori di rischio del paziente quali l’immunosoppressione. Alcuni autori prescrivono antibiotici per tutta la vita del paziente, in particolare quando siano implicati patogeni di difficile eradicazione o dopo l’impianto di protesi vascolari: il rischio è lo sviluppo di antibiotico resistenza. La procedura chirurgica più utilizzata è la completa escissione del tratto infetto combinata con un debridement ampio ed esteso di tutti i

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tessuti infetti e necrotici e con impianto di una protesi vascolare. Le aortiti infettive se non trattare portano inevitabilmente alla morte del paziente tuttavia la combinazione di terapia medica e chirurgica porta alla sopravvivenza del 75-100% dei pazienti trattati prima dello sviluppo di un aneurisma e del 62% dei soggetti trattati dopo che l’aneurisma si è sviluppato. Il trattamento chirurgico dopo la rottura dell’aneurisma si associa invece ad una mortalità del 65%. Fattori prognostici negativi sembrano essere l’età avanzata, il ritardo nella diagnosi, l’infezione sostenuta da batteri gram negativi, l’immunosoppressione, l’interessamento dell’aorta toracica e la comparsa di complicanze (rottura, embolizzazione, shock settico). Alcuni autori raccomandano un lungo follow-up di questi pazienti con ripetizione di emocolture e di angio-TC ogni 3 mesi nel primo anno poi annualmente, altri raccomandano solo un’attenta sorveglianza clinica (6, 24).

Alla base del trattamento delle aortiti non infettive ci sono i glucocorticoidi associati o meno a farmaci immunosoppressori. I maggiori dati a nostra disposizione riguardano le vasculiti dei grossi vasi; sia per la ACG che per la TA i corticosteroidi sistemici sono i farmaci universalmente riconosciuti per il loro trattamento dal

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momento che alleviano rapidamente i sintomi e riducono l’incidenza di complicanze. È universalmente riconosciuta la necessità di iniziare rapidamente la terapia steroidea dopo aver formulato la diagnosi di ACG o di TA o anche quando questa sia fortemente sospetta; rimane ancora controverso quali siano dosaggio e la durata ottimali del trattamento steroideo. I regimi di trattamento individuale sono formulati sulla base di: presentazione clinica, severità dei sintomi, risposta del paziente alla terapia e comparsa di effetti collaterali. Inizialmente i corticosteroidi dovrebbero essere somministrati ad un dosaggio sufficiente ad ottenere un buon controllo sintomatico con riduzione della VES; successivamente dovrebbero essere mantenuti alla più bassa dose in grado di controllare i sintomi e l’abbassamento della VES. Nella ACG possiamo distinguere due categorie di pazienti:

1. pazienti con ACG non complicata (senza sintomi visivi e/o neurologici): la dose iniziale è di 1 mg/Kg/die di prednisolone (massimo 60 mg/die); tale dose deve essere mantenuta per 4-6 settimane, fino alla scomparsa dei sintomi e alla normalizzazione dei parametri di laboratorio

2. pazienti con ACG complicata (con sintomi visivi e/o neurologici) si inizia con 250 mg – 1 g/die per 3-5

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giorni di metil-prednisolone ev e si prosegue con 60 mg/die di prednisolone a scalare come per i pazienti

al punto 1.

La riduzione dello steroide deve essere attuata lentamente, monitorando costantemente la sintomatologia e gli indici di flogosi; in caso di segni o sintomi di riacutizzazione della patologia il dosaggio dello steroide andrà nuovamente incrementato. Solitamente il prednisolone viene ridotto di 5mg ogni 2-4 settimane fino ad un dosaggio di 25mg, successivamente può essere scalato di 2,5mg ogni 2-4 settimane fino ad una dose di 10mg ed infine viene ridotto di 2,5mg ogni 2 mesi fino alla completa sospensione. La durata media di trattamento è

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