2.1 Re-animating images. Il documentario animato
«All film images are memories of their own inscription». Maureen Turim1 Caratterizzata inizialmente da un approccio legato al modello dissociativo e all’influenza decostruttiva, ad un orizzonte filosofico che si concentrava sulla teorizzazione dell’impossibilità del pensiero e la crisi del linguaggio, la trauma theory è stata sottoposta a revisioni e ri-articolazioni. Secondo l’ipotesi dissociativa, l’individuo traumatizzato viene identificato per quello che non sa, che non ha esperito appieno nel momento dell’accaduto, per quello che non ricorda, sopraffatto dalla dimenticanza, dalle memorie dissociate, da tracce senza traccia, eventi senza testimoni. Posseduto da un’immagine o un evento, che si ripresenta e riemerge ripetutamente in maniera inconscia sotto forma di flashback, allucinazioni, dinamiche oniriche e deformazioni del ricordo, il soggetto traumatizzato non ha alcun tipo di controllo sui propri gesti e sulle proprie azioni2.
Come sottolinea Radstone, facendo inoltre riferimento allo studio sulla genealogia del trauma promosso da Ruth Leys, secondo l’ipotesi dissociativa formulata da Felman e Caruth (la teoria mimetica), il soggetto è incapace di gestire e ordinare la memoria repressa3. Leys individua come centrale «il problema dell’imitazione, definito come un
problema dell’imitazione ipnotica»4. Secondo la studiosa, il soggetto ipnotizzato fornisce
un modello per le prime teorie psicoanalitiche sulla memoria traumatica. Oltre che un metodo di ricerca e un trattamento clinico, l’ipnosi gioca un ruolo chiave nella concettualizzazione del trauma «perché la tendenza di persone ipnotizzate a imitare o ripetere quello che viene detto loro di dire o fare provvede ad un modello base dell’esperienza traumatica»5. Come prosegue Leys: «il trauma è stato definito come una
1 M. Turim, Flashbacks in Film: Memory and History, Routledge, New York 1989, p. 246. 2 T. Elsaesser, Postmodern as Mourning Work, cit., p. 199.
3 S. Radstone, Trauma Theory, cit. 4 R. Leys, Trauma, cit., p. 8. 5 Ibidem.
situazione di dissociazione o assenza da parte del soggetto in cui la vittima inconsciamente imita o si identifica con l’aggressore o con la scena traumatica in una situazione che è somigliante ad uno stato di amplificata suscettibilità o trance ipnotica»6.
A seguito dell’emergere di elementi di instabilità, concernenti la concezione della soggettività, viene proposta un’istanza alternativa, che non si pone in netto contrasto ma in maniera interconnessa con la tendenza mimetica7 e che identifica il soggetto
«essenzialmente lontano dall’esperienza traumatica»8. Secondo la teoria antimimetica, il
trauma non si configura come un fenomeno interno e soggettivo ma come «un evento puramente esterno che accade ad un soggetto pienamente costituito»9. L’individuo
traumatizzato non è assente da sé medesimo involontariamente a seguito della dissociazione psicologica ma, seppur passivo, soggetto sovrano e autonomo. Il trauma risulta ancora un evento dissociato dalla memoria ma la produzione di ricordi non è più da ricondursi ad un’elaborazione inconscia. Il soggetto è una figura la cui mente è composta da una parte cosciente, in cui sono accessibili le esperienze passate, e da un’area dissociata, in cui non si può accedere alla memoria traumatica. Ad ogni modo, nonostante l’individuo non riesca a ricordare e ripercorrere in maniera diretta ed immediata l’esperienza, non viene preclusa la possibilità di un processo di ri-elaborazione e superamento del trauma. L’atto di “recovery”, il recupero della memoria traumatica, la produzione di senso e di significato, colmando i vuoti e le repressioni, avviene nel momento in cui il soggetto diventa testimone e instaura un rapporto dialogico con un ascoltatore, «ciò che non può essere conosciuto comincia ad essere testimoniato»10.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la strategia e pratica del reenactment risulta essere una forma di figurazione che, attraverso una “fantasmatica” riconcettualizione storiografica audiovisiva, riflette lo sconvolgimento degli schemi di produzione di senso e di rappresentazione dovuti all’esperienza traumatica. A riflettere in maniera approfondita sull’intreccio tra contenuti fantasmatici e memoria traumatica è Janet Walker. La studiosa individua nel trauma cinema una modalità che, attraverso
6 Ivi, p. 9.
7 Secondo Leys, le tendenze mimetiche e antimimetiche non possono venir divise completamente e
categoricamente l’una dall’altra dal momento che «fin dalla fine del diciannovesimo secolo il concetto di trauma è stato fondamentalmente instabile, in equilibrio precario, tra due idee, teorie o paradigmi». Ivi, p. 298.
8 Ivi, p. 299. 9 Ibidem.
determinate e specifiche strategie estetiche e formali, provvede alla frammentazione e alla decostruzione del tessuto testuale e stilistico del film, rispecchiando il corrispettivo dell’esperienza traumatica. Il trauma cinema, secondo quanto teorizzato da Walker, «rappresenta la realtà in maniera obliqua, prendendo ispirazione dal funzionamento dei processi mentali e mescolando tecniche auto-riflessive che rendono chiare la fragilità della struttura storiografica audio-visiva»11. Concentrandosi sulla Shoah, così come sugli
abusi sessuali, la studiosa identifica come fondative della memoria traumatica due istanze: una immaginaria e una fattuale che provvedono ad una costruzione dislocata e fantasmatica della verità degli eventi12. Riflettendo sulla memoria traumatica e sulla
questione della sua attendibilità, secondo Walker, non è possibile operare una netta cesura tra fantasie13, ricordi falsi o aderenti alla realtà. La studiosa conia il termine
disremembering in merito alla tipologia di produzione del ricordo di un evento traumatico, che significa: «ricordare con una differenza ed è un processo caratterizzato da immagini e suoni mentali relativi ad eventi passati ma alterati per certi aspetti»14. I
falsi ricordi e le costruzioni fantasmatiche nella memoria «sono parti e suddivisioni del processo», elementi fondamentali nella riconciliazione e ri-elaborazione del passato traumatico15. La memoria traumatica presenta quindi uno scenario fantasmatico di forme
ibride, un terreno friabile dove la produzione del ricordo non coincide con una realistica
11 J. Walker, Trauma Cinema. Documenting Incest and the Holocaust, University of California Press,
Berkeley 2005, p. 19.
12 La questione del rapporto tra la memoria e i contenuti fantasmatici emerge anche nel lavoro di Laub sulle
testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto. In una delle interviste realizzate dallo studioso, una donna anziana racconta di un’insurrezione avvenuta ad Auschwitz, sostenendo di aver visto esplodere quattro canne funerarie e la gente scappare. Tuttavia, il suo racconto non è del tutto accurato e non corrisponde alla verità storica dal momento che ad esplodere fu solo una canna fumaria. Nonostante la memoria traumatica possa risultare fallace e non appropriata per parlare di una verità storica, Laub sottolinea come gli inserti “narrativi”, le scene immaginate, gli elementi di natura fantasmatica ormai indistinguibili nel ricordo effettivo dell’evento siano fondamentali per comprendere la modificazione del registro della realtà della mente del soggetto che da empirico diventa astratto. Secondo lo studioso la donna: «non stava testimoniando semplicemente il fatto storico in maniera empirica, ma la vera resistenza allo sterminio. […] La conoscenza nella testimonianza corrisponde, in altre parole, non semplicemente ad un fatto che viene riprodotto e replicato da parte del testimone, ma un’elaborazione individuale dell’evento». S. Felman, D. Laub, Testimony, cit., p. 62.
13 Walker riprende non solo la teoria elaborata da Freud, rimandando più volte all’esistenza di una relazione
tra inconscio e trauma, ma anche la definizione di “fantasia” fornita da Laplanche e Pontalis, che implica l'esistenza di una ideazione inconscia, «una scena immaginaria in cui il soggetto è protagonista, che rappresenta il soddisfacimento di un desiderio (in ultima analisi di un desiderio inconscio), in una maniera che è distorta in modo maggiore o minore da processi difensivi». J. Laplanche, J.B. Pontalis, Enciclopedia
della Psicanalisi, cit., p. 314.
14 J. Walker, Trauma Cinema, cit., p. 17. 15 Ivi, p. 14.
registrazione degli eventi trascorsi. La tesi centrale di Janet Walker quindi, in linea con l’assunto proposto da Hayden White, consiste nell’identificare gli approcci estetici e formali non realistici nel cinema, sia documentario che di finzione, come forme di figurazione dell’esperienza traumatica, separando il concetto di oggettività con quelli di verità e autenticità.
La ripetizione e imitazione inconscia e compulsiva del trauma in versione diretta e non mediata richiama la coazione a ripetere propria dell’acting out, rispondente al modello dissociativo. L’individuo non ha avuto esperienza del trauma ma solo dei suoi effetti ritardati. Contrariamente, la versione antimimetica delinea un soggetto capace di accedere alla memoria traumatica, comprendere, integrare e quindi ri-elaborare gli eventi all’interno di una narrazione, seppur parziale, seppur personale, seppur soggettiva. Il corrispettivo formale del trauma dunque, la sua natura temporale ritardata e latente, difficilmente riconducibile ad uno schema narrativo e un percorso di rimemorazione razionale, possono venir al meglio figurate da una forma non realistica e antimimetica16.
L’abiezione della pretesa apparente di oggettività fornita dal cinema documentario e la sottile relazione espressa dalla mescolanza di aspetti realistici con forme fantasmatiche vengono portate all’estremo nel documentario attraverso la tecnica artificiosa per eccellenza, ovvero l’animazione.
Nonostante la combinazione tra animazione e cinema documentario possa sembrare paradossale, due approcci opposti per rappresentare e raffigurare esperienze e relazioni con il mondo esterno, la lunga storia, fin dalla nascita del cinematografo, dell’ibridazione tra queste due modalità di figurazione e modelli espositivi suggerirebbe il contrario. Fin dagli anni Novanta, l’attenzione di critici e teorici si è indirizzata verso queste produzioni, classificate come documentari animati dal momento che «utilizzano l’animazione per narrare frammenti del mondo esterno piuttosto che di un mondo immaginario»17. Il
documentario animato riconfigura e ri-mette in discussione i tradizionali limiti epistemologici del cinema documentario, estremizzando la tensione che generalmente si
16 L. Williams, Mirrors without Memories, cit.
17 Secondo Cristina Formenti, il documentario animato, dal momento che «adotta principalmente la
grammatica e l’estetica del cinema di finzione, ma manca visivamente un legame indessicale con la realtà filmata […] utilizza attori ricreati per ri-mettere in scena e drammatizzare storie realmente accadute», dovrebbe essere ridefinito come «la forma più sincera di docudrama». C. Formenti, The sincerest form of
docudrama: reframing the animated documentary, in «Studies in Documentary Film», Vol. 8, No. 2, pp.
crea tra quello che viene presentato sullo schermo e l’immagine indessicale che si espande verso una relazione dialettica tra l’assenza di un referente visivo materiale e l’eccesso dell’estetica dell’animazione, spesso simbolica e non realistica18.
La tecnica dell’animazione dissolve completamente il legame indessicale con la realtà rappresentata, impegno solo apparente, come abbiamo sottolineato in precedenza, del cinema documentario. Roe propone di considerare il documentario animato secondo tre funzioni: mimetic substitution, non-mimetic substitution e interpretive. Nel primo caso l’animazione mima la realtà, nel secondo, l’obiettivo di realismo viene messo da parte in favore di un approccio più creativo per colmare il gap dovuto alla mancanza di referenzialità dell’immaginario. L’interpretazione esplora invece i concetti, le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo, aiutando a far comprendere allo spettatore la soggettività di un determinato personaggio19. L’utilizzo dell’animazione può provvedere dunque alla
ricostruzione e ricreazione di eventi, episodi storici che non sono stati documentati o di cui la documentazione non è più disponibile, andando a costituire un modello alternativo, antimimetico, per accedere al passato e per figurare i contenuti dislocati, frammentari e fantasmatici della memoria traumatica.
Valzer con Bashir (Waltz with Bashir, 2008), diretto da Ari Folman, risulta essere un caso paradigmatico al fine di riflettere sulle modalità con cui la forma animata possa trasformarsi in veicolo e strumento per esplorare la memoria repressa e per ri-elaborare l’esperienza traumatica20. Il regista va alla ricerca e alla riscoperta del proprio vissuto in
un percorso che lo porterà a comprendere il personale coinvolgimento nel massacro palestinese compiuto dalle falangi libanesi, con la complicità dell’esercito israeliano, tra il 16 e 18 Settembre 1982 nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut. Folman, che non riesce a comprendere e a ricordare l’accaduto a cui potrebbe aver preso parte, decide
18 A.H. Roe, Absence, excess and epistemological expansion: towards a framework for the study of animated documentary, in «Animation: An Interdisciplinary Journal», Vol. 6, No. 3, 2011, pp. 215-230. 19 A.H. Roe, Animated Documentary, Palgrave Macmillan, London 2013.
20 Il film è composto quasi interamente da disegni animati eseguiti dal Bridgit Folman Film Gang, sotto la
supervisione del regista delle animazioni Yoni Goodman e del direttore artistico David Polonsky, a partire dalle immagini documentarie e dalle interviste realizzate in precedenza. L’animazione non è stata portata a termine attraverso la tecnica del rotoscope (la creazione di un disegno animato sopra delle immagini precedentemente filmate dal vero), ma il materiale girato è stato usato come spunto, riferimento visivo da cui partire. Waltz with Bashir Press Kit, Sony Pictures Digital Productions,
di recarsi da amici ed ex commilitoni, i cui racconti, le cui testimonianze possono in qualche modo far riaffiorare in lui i ricordi, i tasselli mancanti che sono stati repressi, non assimilati, al fine di ottenere un quadro più dettagliato e organico della propria esperienza durante il conflitto e il ruolo che ebbe in occasione del massacro.
Il film si apre con le immagini di un incubo ricorrente che Boaz Rein-Buskila, un ex- soldato che ha prestato servizio insieme al regista, decide di raccontare a Folman. Ventisei cani corrono all’impazzata non curanti delle persone o degli oggetti che trovano nel loro cammino, per poi radunarsi ed abbaiare sotto la finestra dell’uomo. Il sogno si ricollega direttamente all’esperienza vissuta da Boaz durante la guerra in Libano quando uccise, nel corso delle operazioni di pattugliamento, lo stesso numero di cani, ventisei, e che adesso, da più di due anni, continuano a perseguitarlo in sogno. Boaz decide di rivolgersi a Folman per ri-elaborare la propria esperienza traumatica, «non può il cinema essere terapeutico? Tu le tue angosce le hai sempre elaborate attraverso i film giusto?» commenta l’uomo. Il regista in questo caso diventa testimone dell’atto stesso di testimoniare, diventando da interlocutore a testimone anch’egli. L’incontro tra i due reduci permette a Boaz di trovare una figura a cui raccontare la propria esperienza e a Folman di rendersi consapevole, con stupore, di aver represso l’evento e di non averlo registrato cognitivamente nel momento del suo accadimento.
La stessa notte in cui avviene l’incontro tra i due ex commilitoni, nell’inverno del 2006, anche il regista, che prima di allora non aveva alcun tipo di ricordo della guerra, ha un terribile flashback della notte del massacro. L’uomo, all’epoca un giovanissimo soldato, sta facendo il bagno in mare quando viene illuminato dai bagliori dei razzi al fosforo. Le scie luminose cadono verso il centro urbano e lo attraggono insieme ad altri due suoi compagni verso la città. I tre giovani emergono dal mare mentre il sole sta sorgendo, si rivestono e proseguono il cammino per le strade di Beirut, deserta e ridotta in macerie. L’immagine da cui è posseduto l’uomo si ripete più volte nel corso del film, in un eterno ritorno traumatico, ogni volta rivelando un elemento in più che possa andare a restituire un quadro completo della notte del massacro. Folman decide di ri-assemblare la cronaca degli eventi interagendo ed incontrando altri suoi compagni, i cui ricordi, le cui memorie, le cui testimonianze possono ricostituire l’evento storico, colmare il vuoto dell’esperienza mancata, non assimilata. Il regista vuole in primo luogo trovare un senso, attribuire un significato al proprio ricordo della guerra in Libano, un flashback che è ri-
emerso in occasione dell’incontro con Boaz ma che ha bisogno di essere autenticato, ristabilizzato, re-inserito e ri-contestualizzato all’interno della ricostruzione dell’accaduto. Il regista si domanda se il suo ricordo non sia irreale, completamente frutto della propria immaginazione. Fantasia e realtà, immagini mentali, fantasmatiche e ricordo si alternano mescolandosi senza possibilità di una cesura netta21. La memoria traumatica
di Ari mostra la propria natura dinamica, frammentata, disremembed, ricollegandoci alla concettualizzazione proposta da Janet Walker. Disremembering non significa infatti non ricordare ma ricordare in maniera differente22.
La fallibilità della memoria viene discussa nel primo incontro tra il regista e l’amico psicologo Ori. L’uomo racconta a Folman di un esperimento che ha coinvolto un gruppo di volontari a cui sono state mostrate dieci fotografie della propria infanzia. Tuttavia, di quelle dieci immagini una era falsa, realizzata inserendo il ritratto di ognuno di loro da bambino sullo sfondo di un luna park nel quale non erano mai stati. Otto soggetti su dieci confermarono subito di ricordarsi perfettamente il momento in cui fu scattata la foto, mentre i restanti due giunsero alla stessa affermazione, seppur dopo un breve tentennamento. L’intero gruppo non solo sembrava ricordarsi nei minimi dettagli la giornata trascorsa al parco divertimenti con la propria famiglia ma riusciva a inserire nel racconto una serie di dettagli, chiaramente inventati, frutto della propria immaginazione, per descrivere al meglio l’esperienza vissuta. «La memoria è qualcosa di dinamico, di vivo. Anche quando mancano delle informazioni e ci sono dei vuoti, la memoria riempie questi buchi neri inventando fatti mai realmente accaduti» spiega Ori al regista. Mentre lo psicologo dialoga con Folman, appaiono alcuni elementi del racconto, come i palloncini o la ruota panoramica, che emergono alle spalle dei due interlocutori, una rappresentazione grafica della costruzione del luna park nella mente del protagonista. L’utilizzo dell’animazione consente il formarsi di un ulteriore livello di coinvolgimento con la scena. L’occhio della macchina da presa mostra allo spettatore non la “realtà” della situazione ma la visione dell’accaduto filtrata dalla lente della soggettività e dell’immaginazione di Folman.
21 R. Yosef, War Fantasies: Memory, Trauma and Ethics in Ari Folman’s Waltz with Bashir, in «Journal
of Modern Jewish Studies», Vol. 9, No. 3, Nov. 2010, pp. 311-326.
L’animazione pone l’attenzione sulla natura arbitraria della rappresentazione, la natura mutevole delle posizioni soggettive23. Nel corso dell’intero film vengono alternate
testimonianze, memorie, sogni e desideri, una commistione che rompe e mina la linea binaria tra rappresentazione ed esperienza, evidenziando come questi due aspetti si fondino l’uno con l’altro. L’animazione dà forma e colore alla memoria traumatica, traslando e trasferendo un’esperienza per natura inaccessibile ed indicibile oltre le forme convenzionali di rappresentazione, di figurazione, nel regno della fantasia e dell’immaginazione, al di fuori del legame referenziale diretto con il mondo esterno24. In
un’intervista antecedente all’uscita del film, il regista dichiara: «per capire chi sono veramente mi sono dovuto disegnare, in questo modo sono riuscito a trovare di nuovo me stesso»25.
Al fine di dare un significato al suo ricordo di guerra, dopo l’incontro con lo psicologo, Folman decide di andare a visitare un suo ex-compagno Carmi Canaan, trasferitosi in Olanda, uno dei due soldati che fa parte del flashback. Tuttavia, l’uomo non riesce a rispondere ai quesiti posti dal regista, anche lui non ha alcun tipo di ricordo. «Il massacro non l’ho registrato», sostiene citando la dichiarazione in apertura dello stesso Folman.
Carmi ha memorie della guerra in Libano ma i suoi ricordi sono frammentari.
Immaginazione, elementi fantasmatici e fattuali si mescolano in uno scenario ibrido e distorto. Secondo il suo racconto, il battaglione di cui faceva parte arrivò a Beirut via mare attraverso una “love boat”, un enorme yacht con vasca idromassaggio e discoteca. Durante il tragitto i soldati bevevano, ballavano e si divertivano, totalmente estranei all’orrore della guerra. «Questo è come me lo sono immaginato. Ho scoperto invece che si trattava di un’unità della marina attrezzata per le azioni di sabotaggio» confida al
23 Come riporta in un’intervista David Polonsky, direttore del comparto artistico del film, facendo
riferimento alla tecnica dell’animazione, «per certi aspetti è anche più veritiera della forma tradizionale del documentario perché quando fotografi o riprendi tu hai la simulazione della realtà. Tu dichiari che quello che stai mostrando sia la verità mentre puoi invece manipolarla in infiniti modi, con il montaggio, con la musica, con quello che preferisci. Quando metti in scena un processo di ricostruzione nel cinema documentario, tu, in quanto spettatore, devi sospendere lo scetticismo nel fatto che in realtà stai vedendo un attore davanti a te. Mentre nell’animazione questo non avviene. Non pretende di essere reale, è un modo