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La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) colpisce il 5-10% circa delle donne in età fertile; è un disturbo endocrino che spesso si accompagna a problemi quali obesità, insulino-resistenza, diabete tipo 2, problemi cardiovascolari, ipertensione, sterilità e depressione. Fu descritta per la prima volta nel 1935 da Stein e Leventhal, come sindrome caratterizzata da amenorrea e ovaie policistiche.

Le donne che soffrono di PCOS hanno una probabilità maggiore di sviluppare la sindrome metabolica; si è cercato dunque di individuare un approccio dietetico in grado di impattare positivamente sulle condizioni che accompagnano tale sindrome, quali l’obesità, l’insulino-resistenza e i problemi cardiovascolari.

Poiché l’obesità è strettamente connessa alla resistenza insulinica, il controllo del peso può essere una strategia di trattamento della PCOS, includendo quindi un regime dietetico controllato e un incremento dell’attività fisica. La perdita ponderale (pari al 5- 10% del peso iniziale) si riflette in un miglioramento dei fattori metabolici e riproduttivi, quali riduzione del rischio di diabete tipo 2 e ripresa del ciclo ovulatorio. Per questa

35 ragione, l’intervento dietetico deve essere consigliato, anche se si è rivelato efficace in donne con PCOS clinico, soprattutto se in condizione di obesità o di insulino-resistenza, mentre non lo è in caso di PCOS subclinico. (24)

La resistenza all’insulina, tipica della PCOS, aumenta l’iperandrogenismo, poiché favorisce un aumento della produzione di androgeni a livello ovarico e riduce la produzione epatica della proteina che lega l’ormone; gli alti livelli di insulina, oltre ad aumentare la stimolazione ormonale degli androgeni a livello delle cellule della teca ovarica, potenziano la steroidogenesi androgena dell’ovaio. Un intervento dietetico che determini un miglioramento dell’insulinemia e una riduzione del peso può rivelarsi efficace nella riduzione dell’iperandrogenismo e di altri sintomi della PCOS. (12)

La strategia alimentare migliore in tal senso risulta ancora poco chiara, poiché non ci sono evidenze che confermano l’utilità di una dieta rispetto ad un’altra.

Consideriamo la dieta mediterranea: questa, come spiegato nei capitoli precedenti, è tipicamente associata ad un più basso rischio di diabete tipo 2 e di complicanze cardiovascolari. Poiché la PCOS è associata, invece, ad un aumentato rischio di problemi cardiovascolari e metabolici, la dieta mediterranea potrebbe essere un trattamento valido per tali donne. Nonostante ciò, la dieta mediterranea non può essere considerata l’intervento dietetico specifico per le donne con PCOS, poiché, come già detto, non esistono evidenze a riguardo. Tuttavia, alcuni nutrienti che la caratterizzano, come gli acidi grassi omega-3 possono avere degli effetti benefici sul controllo dell’ipertensione e della dislipidemia, spesso presenti nella PCOS. (22) Inoltre, l’ampia rappresentazione, all’interno della dieta, di frutta e verdura può migliorare la tolleranza al glucosio, l’insulino-resistenza, la funzione endoteliale e il metabolismo dei grassi. (23)

Altri interventi dietetici quali una dieta a basso contenuto di carboidrati o una a basso indice glicemico (IG) hanno dimostrato di migliorare la funzione mestruale. (23)

Uno studio ha indagato i cambiamenti a cui vanno incontro i mediatori dell’infiammazione in seguito ad un regime dietetico restrittivo, poiché le donne con PCOS sono più soggette ad aterosclerosi. L’intake calorico prevedeva un deficit di circa 600 Kcal in meno al giorno; nella dieta erano presenti tutte le classi di macronutrienti: carboidrati (5 porzioni/die), proteine (1 porzione/die di carne e 2 porzioni/die di latticini), grassi (2 porzioni/die). Una dieta così strutturata può essere definita di tipo mediterraneo. Un’ulteriore caratteristica dell’intervento dietetico era il basso indice glicemico degli

36 alimenti prescritti. Prima dell’intervento dietetico le donne con PCOS presentavano più basse concentrazioni di mediatori proinfiammatori, rispetto al gruppo di controllo; in seguito alla dieta, si assiste ad un aumento delle concentrazioni dei mediatori dell’infiammazione che raggiungono valori simili a quelli del gruppo di controllo. Quindi, il trattamento dietetico sembra riattivare le vie metaboliche della sintesi di molecole proinfiammatorie, fino ad allora dormienti. (20)

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Conclusioni

L’obiettivo che mi sono posta all’inizio della stesura di questo elaborato era individuare un intervento dietetico più efficace in termini di riduzione di peso, di massa grassa, di marker di rischio metabolico e cardiovascolare.

Numerosi erano i dubbi relativi alla sicurezza d’impiego delle diete basse in carboidrati. In base ai dati presenti in letteratura sembrerebbe che tali diete basse possano essere consigliate per la riduzione del peso senza incorrere in un peggioramento dei fattori di rischio metabolici. Il rischio principale è il danno renale, per aumento della pressione glomerulare; tuttavia, ha dimostrato di non provocare danni in soggetti con buona funzionalità renale ed è risultata sicura anche in termini di equilibrio acido-base, in relazione all’aumentata produzione di corpi chetonici in seguito a ridotto intake di carboidrati. La caratteristica delle diete basse in carboidrati è che spesso risultano alte in grassi e da qui nasce il rischio per problemi cardiovascolari; per questo motivo è fondamentale scegliere i grassi che sostituiscono i carboidrati, onde evitare di incorrere in problematiche quali un aumento del rischio cardiovascolare e di altre malattie croniche. È stato dimostrato che la dieta bassa in carboidrati ricca in proteine vegetali e grassi insaturi determina una riduzione del rischio cardiovascolare e mortalità da tutte le cause, al contrario di una dieta bassa in carboidrati che utilizza principalmente proteine animali, causa di un più alto rischio di diabete tipo 2 e mortalità da tutte le cause. (2) La loro sicurezza è stata valutata anche in relazione alla densità ossea: le diete basse in carboidrati e alte in proteine causano una maggiore escrezione urinaria di calcio, tuttavia, ciò non causa una riduzione della densità ossea, probabilmente perché avviene un maggior assorbimento intestinale di calcio.

La perdita di peso e di massa grassa ottenuta con i due tipi di trattamento dietetico era simile; inoltre in entrambe le diete si è osservata sempre una maggiore riduzione di massa grassa rispetto alla massa magra. In alcuni casi di dieta a basso contenuto di carboidrati è stata osservata una maggiore preservazione della massa magra durante il dimagrimento, imputabile al maggior quantitativo di proteine ingerite con la dieta.

Le differenze relative alla perdita preferenziale di massa grassa da un compartimento piuttosto che da un altro (addominale VS gluteo-femorale) sono state rilevate in alcuni studi e risultano spiegate dalla differenza tra i due sessi ad accumulare a livello addominale, l’uomo, e a livello femorale, la donna; ciò nonostante, non vi sono influenze

38 della dieta nella perdita preferenziale. Possiamo quindi concludere che la perdita di massa grassa dipende principalmente dalla riduzione dell’intake calorico e non dalla composizione in macronutrienti della dieta.

Le due diete non provocano cambiamenti significativi a livello ematochimico sul profilo glicemico; a livello lipidico si assiste ad uno scenario molto simile tra le due diete con un miglioramento netto dovuto a riduzione di colesterolo totale, LDL, trigliceridi e aumento del colesterolo HDL; quest’ultimo risulta particolarmente aumentato in seguito a dieta bassa in carboidrati. Per il profilo epatico, sono state valutate AST e ALT, le quali non hanno mostrato alterazioni indicative di coinvolgimento epatico (es. NAFLD). A livello renale la clearance della creatinina, possibile indice di insufficienza renale, risulta aumentata nella dieta bassa in carboidrati, mentre l’azoto risulta ridotto nella dieta bassa in proteine e immutato nella dieta bassa in carboidrati (quindi alta in proteine).

La valutazione del metabolismo basale e del quoziente respiratorio presenta delle differenze: la dieta chetogenica determina un abbassamento di RQ ma non intacca la REE, mentre una dieta ipocalorica di tipo mediterraneo non causa tali modifiche.

Un problema collegato al dimagrimento è il suo mantenimento nel lungo termine; una dieta molto ipocalorica causa un aumento dei segnali oressizzanti che favoriscono la ripresa del peso; d’altra parte, però, la dieta chetogenica ha un effetto minore rispetto alla grelina anche se i soggetti che la eseguono - in stato di chetosi - avvertono una sensazione bassa di appetito. (5)

L’impiego di una dieta specifica nel trattamento del diabete tipo 2 è piuttosto controverso, in quanto la condizione maggiormente auspicabile è innanzitutto la perdita di peso, poiché riduce l’insulino-resistenza tipica del T2DM. Per questo motivo, non esiste un trattamento migliore rispetto ad un altro, ma deve essere quello più efficace nel raggiungimento della perdita di peso per quel soggetto. Nonostante ciò è stato visto che una dieta bassa in carboidrati migliora l’emoglobina glicata, la glicemia e l’insulinemia a digiuno, mentre alcuni alimenti (es. alimenti ricchi in flavan-3-oli) della dieta mediterranea possono risultare utili nel controllo glicemico. Entrambe le diete hanno mostrato miglioramenti del profilo glicemico in soggetti trattati con T2DM.

La perdita di peso si accompagnava spesso ad un miglioramento del tono dell’umore, senza distinzione in base al tipo di dieta seguita; la modifica del tono dell’umore può essere considerata rilevante visto che spesso la condizione di obesità si associa a stato

39 depressivo; in tal modo, si determina un miglioramento netto nella condizione psicologica dell’individuo, intesa anche come capacità di riuscire a mantenere, nel tempo, il peso raggiunto.

L’impiego della dieta in particolari condizioni patologiche come il cancro è tutt’ora in corso di studio; la capacità delle cellule tumorali di utilizzare energia proveniente dalla fermentazione dell’acido lattico, anche in condizioni di disponibilità di ossigeno, ha fatto presuppore che una dieta bassa in carboidrati, non stimolando la via glicolitica, possa aiutare a prevenire la progressione del cancro.

L’utilizzo di una particolare dieta nella PCOS è associato, più che alla sindrome in quanto tale, alle condizioni che spesso si accompagnano ad essa ovvero l’obesità, l’insulino-resistenza e la maggiore predisposizione allo sviluppo di problemi cardiovascolari. La presenza all’interno della dieta mediterranea di alimenti ricchi in omega-3 potrebbe essere d’aiuto nel migliorare i fattori di rischio collegati al sistema cardiovascolare. Hanno dimostrato di normalizzare la funzione mestruale anche diete a basso indice glicemico e diete basse in carboidrati.

A questo punto risulta chiaro che: la perdita di peso non avviene se l’intake energetico non viene ridotto al di sotto della soglia di spesa energetica; la perdita di peso ottenuta con qualsiasi approccio dietetico è difficile da mantenere nel lungo termine; non c’è un approccio dietetico superiore rispetto ad un altro; per tale ragione, è più importante l’aderenza ad una dieta che la sua composizione in macronutrienti. Infine, gli effetti simili su HDL, LDL, trigliceridi, colesterolo totale, glicemia e insulinemia supportano l’ipotesi che in presenza di un basso contenuto di grassi, il contenuto in carboidrati e proteine della dieta non esercita effetti maggiori sul sistema cardiovascolare.

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Un ringraziamento speciale alla relatrice della tesi, la Prof.ssa Concettina La Motta per l’ampia disponibilità, professionalità e comprensione dimostratami; è stato fondamentale avere una guida come Lei in questo lavoro di stesura.

“Abbiamo bisogno del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà”. A. Gramsci

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