DIPARTIMENTO DI FARMACIA
Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Nutrizione Umana
TESI DI LAUREA
DIETA MEDITERRANEA E DIETA BASSA IN CARBOIDRATI:
EFFETTO SU VARIABILI ANTROPOMETRICHE E METABOLICHE
Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa Concettina La Motta
Candidato: Dott.ssa Giuliana Mazzarino
1
A ciò che sarò
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Indice
Introduzione ... 3
Caratterizzazione delle diete ... 7
1.1 Dieta mediterranea ... 7
1.2 Dieta bassa in carboidrati ... 10
Effetto delle diete sui parametri antropometrici ... 14
2.1 Peso ... 16
2.1.1 Mantenimento del peso ... 18
2.2 Massa grassa ... 19
2.2.1 Differenze relative al sesso ... 20
Effetto delle diete sui parametri ematochimici ... 23
3.1 Profilo glicemico ... 23
3.2 Profilo lipidico ... 24
3.3 Profilo epatico ... 27
3.4 Profilo renale ... 27
Effetto delle diete sul metabolismo ... 29
Effetto delle diete su soggetti diabetici tipo 2 ... 31
Effetto delle diete sui parametri metabolici in alcune condizioni patologiche ... 34
6.1 Dieta e cancro ... 34
6.2 Dieta e PCOS ... 34
Conclusioni ... 37
Bibliografia ... 41
3
Introduzione
Durante questo mio percorso universitario, più volte, mi sono imbattuta nelle rinomate diete iperproteiche. Tuttavia, a causa del mio scetticismo a riguardo, le ho sempre considerate come qualcosa di distante da quello che credo faccia parte del lavoro di un nutrizionista.
A mio parere, essere un professionista della nutrizione vuol dire, non solo essere in grado di valutare lo stato nutrizionale di un soggetto e identificarne il corretto fabbisogno energetico, ma anche educare alla corretta alimentazione. Per questo motivo, sono sempre stata fautrice della dieta mediterranea, dove i carboidrati hanno un ruolo da protagonisti indiscussi, ma trovano una giusta rappresentazione anche le proteine e i grassi. Per le sue proprietà benefiche sul mantenimento dello stato di salute e sulla prevenzione di alcune malattie, la dieta mediterranea nel corso del ‘900 è stata molto rivalutata.
Esiste infatti una diretta connessione tra dieta e stato di salute e ciò ha fatto sì che, negli ultimi decenni, abbiamo assistito ad un crescente interesse nei confronti dell’alimentazione; diverse patologie sono strettamente correlate con lo stato nutrizionale del soggetto, per cui intervenendo su di esso si potrebbe agire anche sulla patologia.
Non mancano certamente le patologie causate da una scorretta alimentazione; esse possono sommarsi tra loro, complicando il quadro clinico. Esempi di tali patologie possono essere diabete, dislipidemie (es. ipercolesterolemia) e ipertensione arteriosa, le quali sono spesso presenti in soggetti in condizione di sovrappeso o obesità, configurandosi quindi come co-morbilità, in tali casi.
Secondo le ultime stime a cura del programma OsservaSalute 2016, in Italia l’obesità interessa circa il 10% della popolazione adulta mentre il sovrappeso è una condizione comune al 35%. Notevoli sono le differenze dal punto di vista regionale con stime peggiori di obesità e sovrappeso nel Sud Italia: Molise, Abruzzo e Puglia risultano le regioni con i più alti tassi di obesità, mentre Basilicata, Campania e Sicilia le più alte per sovrappeso (38-39%). Le regioni più virtuose risultano invece la provincia di Bolzano, la Lombardia e la Valle d’Aosta, dove si registrano le percentuali più basse.
La sorveglianza Passi (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) si prefigge lo scopo di monitorare la popolazione adulta italiana per valutarne lo stato di salute. La fotografia che risulta dall’ultima indagine, risalente al periodo 2013-2016 su
4 sovrappeso e obesità, riflette la condizione già spiegata da OsservaSalute. Interessante, però, è ciò che gli intervistati hanno espresso: la maggior parte dei soggetti obesi o in sovrappeso non percepisce questa condizione, ritenendo il proprio peso corporeo non così elevato. Questa mancanza di consapevolezza sembra essere più diffusa tra gli uomini, piuttosto che tra le donne, più disposte invece all’adozione di corrette abitudini alimentari.
Fonte: www.epicentro.it
A livello europeo le stime non migliorano; l’obesità interessa il 20% della popolazione adulta in 40 paesi europei. Il sovrappeso risulta essere una condizione comune a oltre il 50% degli adulti in 46 stati europei. La prevalenza di sovrappeso è maggiore in Repubblica Ceca, per gli uomini (72%), e in Turchia, per le donne (64%). Preoccupante è l’incremento dei casi di sovrappeso/obesità anche tra le fasce più giovani.
L’OMS ha dichiarato che, a livello mondiale, dal 1989 al 2014 i casi di obesità sono più che raddoppiati. L’obesità e il sovrappeso si sono dimostrati più pericolosi del sottopeso. La prevalenza di sovrappeso è del 39%, contro il 13% dell’obesità. Tra i bambini al di sotto dei 5 anni di età, 41 milioni sono sovrappeso/obesi.
Le condizioni patologiche, quali diabete, problemi cardiovascolari e alterazioni del profilo lipidico, associate a condizione di sovrappeso e obesità risultano anch’esse interessare un’ampia fetta della popolazione italiana.
In particolare, secondo le stime della sorveglianza Passi riferite al periodo 2012-2015, in Italia circa il 5% della popolazione (18-69 anni) soffre di diabete; anche in questo caso le differenze regionali sono nette con la Sicilia che conquista il primato (6%), mentre la provincia di Bolzano presenta il tasso più basso (3%). La prevalenza cresce tra gli uomini, con l’età (superiore a 50 anni) e nelle fasce di popolazione economicamente e culturalmente meno fortunate.
5 Il quadro che può derivare dalla presenza di obesità o sovrappeso associato a co-morbilità è quello che l’Adult Treatment Panel III (ATP III) ha definito come “sindrome
metabolica”, ovvero una condizione caratterizzata da 3 o più di questi fattori:
• accumulo centrale del grasso corporeo con circonferenza vita superiore a 88 cm nella donna e 102 cm nell’uomo;
• ipertensione arteriosa, superiore o uguale a 130/85 mmHg;
• alterazione del profilo glicemico a digiuno, superiore o uguale a 110 mg/dl; • alterazione del profilo lipidico, con trigliceridi superiori o uguali a 150 mg/dl; • colesterolo HDL basso, inferiore a 50 mg/dl nella donna e 40 mg/dl nell’uomo.
Sulla base di quanto detto fino ad ora, possiamo dedurre che è possibile intervenire sul proprio stato di salute tramite un regime dietetico che ci consenta di ottenere un miglioramento del quadro clinico o, addirittura, di poter prevenire eventuali patologie.
A questo punto è necessario valutare in che modo intervenire, quindi, nel nostro caso, che regime dietetico consigliare al fine di poter ottenere un risultato migliore. Le proposte dietetiche oggi sono molto varie, ma sostanzialmente possiamo suddividerle in due tipi: dieta di tipo mediterraneo e dieta bassa in carboidrati.
Per questo motivo ho deciso dunque di analizzare le due tipologie di dieta, appena descritte, dal punto di vista dell’efficacia in relazione ai parametri antropometrici e metabolici. Numerosi sono infatti gli studi in letteratura che indagano le proprietà di tali diete circa il tempo di raggiungimento della perdita di peso e la riduzione di marker per il rischio cardiovascolare.
A tal proposito, sarebbe interessante valutare se un approccio dietetico può rivelarsi più efficace rispetto all’altro, riguardo ad un parametro indicativo di una particolare patologia (es. insulino-resistenza nel diabete mellito tipo 2).
Potrebbe anche esserci una dieta più efficace nella perdita di peso, in termini temporali o in termini di massa grassa; sappiamo infatti che tutte le diete che comportano un dimagrimento causano una perdita, oltre che della massa grassa, anche della massa magra, nonostante questa sia una condizione non favorevole. O ancora potrebbe una dieta rivelarsi più efficace su una particolare tipologia di obesità piuttosto che su un’altra: si parla infatti di obesità androide e ginoide, indicando la tendenza all’accumulo di grasso localizzato soprattutto a livello addominale, per l’uomo, e a livello femorale, per la donna. Ancora, una dieta in grado di incidere prevalentemente sulla massa grassa, preservando
6 la massa magra delle gambe, potrebbe aiutare a combattere l’obesità sarcopenica - il rischio di sarcopenia è più elevato soprattutto tra gli anziani.
Inoltre, durante un dimagrimento si assiste anche ad una riduzione della spesa energetica a riposo (REE); un abbassamento del metabolismo basale è un meccanismo di difesa per il nostro organismo, ma al tempo stesso ciò ci predispone ad accumulare energie, per un rallentamento del nostro consumo energetico. Questa, nonostante sia una condizione non auspicabile, risulta inevitabile.
Queste sono dunque le domande alle quali proverò a rispondere nel presente elaborato, facendo riferimento ai dati presenti in letteratura scientifica.
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Caratterizzazione delle diete
Il termine “dieta” deriva dal greco δίαιτα e indica uno stile di vita, un’abitudine; anche se nel linguaggio quotidiano il termine viene sempre più usato per indicare regimi dietetici restrittivi, finalizzati alla perdita di peso, l’etimologia del termine dà un’indicazione riguardo a ciò che la “dieta” rappresenta realmente.
In questo lavoro analizzeremo due tipologie di dieta, definendone innanzitutto le caratteristiche e le peculiarità di ciascuna.
1.1 Dieta mediterranea
Il termine venne coniato nel ‘900 da Ancel Keys, un fisiologo americano il quale diede l’avvio ad uno studio prospettico, coinvolgendo numerosi specialisti provenienti da tutto il mondo, per valutare gli effetti che l’alimentazione e lo stile di vita hanno sull’incidenza delle malattie cardiovascolari. In realtà, un medico italiano, Lorenzo Piroddi aveva già notato una connessione tra dieta e disturbi metabolici.
Keys si accorse che i casi di attacco cardiaco erano più alti negli Stati Uniti, in Finlandia e nei gruppi europei in Sud Africa, mentre erano inferiori in vari stati del bacino del Mediterraneo, in Giappone e tra i nativi del Sud Africa. Si pensò quindi ad una influenza della dieta e dello stile di vita sull’incidenza delle malattie cardiovascolari, in particolare relazione con l’assunzione di grassi tramite l’alimentazione e con i livelli di colesterolo nel sangue. Da queste evidenze iniziò a delinearsi lo “Studio dei Sette Paesi”, il Seven Countries Study.
Per lo studio pilota, iniziato nel 1957, fu scelto un piccolo paesino calabrese, Nicotera, e altri piccoli villaggi presenti nell’isola di Creta. Lo studio formale sui sette paesi iniziò l’anno successivo, grazie ad un team di ricercatori.
Alla fine dello studio emerse che l’assunzione di grassi con la dieta, i livelli elevati di colesterolo nel sangue, il diabete ed il fumo di sigaretta, rappresentavano dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari e che i modelli dietetici – successivamente indicati con il termine di “dieta mediterranea” - presenti in quegli anni in Italia e in Grecia, insieme ad una moderata attività fisica, erano positivamente correlati ad una riduzione delle malattie cardiovascolari e della mortalità da tutte le cause. È stato notato infatti che i valori medi di colesterolo nel siero variavano, presumibilmente, in base al consumo di grassi saturi e che i valori medi di colesterolemia erano strettamente correlati al tasso di
8 incidenza di malattie cardiovascolari a 5 o 10 anni. È stato concluso quindi che le relazioni che intercorrono tra questi elementi sono di tipo causale. La dieta mediterranea è dunque associata a una durata di vita più lunga, a riduzione di eventi cardiovascolari, di ipercolesterolemia, ipertensione, obesità e diabete mellito tipo 2.
Vista la notevole eterogeneità dei paesi interessati nello studio, seppur affacciandosi sul bacino del Mediterraneo, la dieta dei vari stati presenta delle differenze; per questo motivo è difficile definirla in termini stretti. Nonostante ciò, possiamo indubbiamente riconoscere degli elementi che si ripetono al suo interno, a prescindere dal paese.
La dieta mediterranea utilizza olio di oliva, cereali, legumi, frutta e verdura; il consumo di pesce è moderato, mentre quello di carne e latticini è basso; abituale è il consumo di vino durante i pasti. Dal punto di vista quali-quantitativo, il consumo di grassi saturi è basso, alto quello in fibra e in antiossidanti, quali vitamine e flavonoidi; inoltre l’indice glicemico di questi alimenti è generalmente medio-basso.
Nel 2007 Grecia, Italia, Marocco e Spagna hanno chiesto all’UNESCO che la dieta mediterranea venisse inserita “nell’elenco del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”; la richiesta fu accolta tre anni dopo, in particolare il 16 novembre del 2010, durante un convegno, la dieta fu inserita tra il patrimonio UNESCO. I natali della dieta furono inizialmente attribuiti ai quattro paesi che ne avevano fatto richiesta, ma nel 2013 altri tre paesi (Cipro, Croazia e Portogallo) furono aggiunti.
All’interno della dieta mediterranea non troviamo solo ed esclusivamente alimenti originari delle terre del bacino mediterraneo, ma appartengono ad essa anche alimenti introdotti in seguito a contatti con altre culture; rappresentano un esempio di ciò la patata e il pomodoro, introdotti dall’America in seguito al viaggio di Cristoforo Colombo.
Possiamo dunque riassumere gli alimenti base della dieta mediterranea:
• Grassi di origine vegetale, ricchi in omega-6 e omega-9, rappresentati dall’olio di oliva; grazie alla sua porzione insaponificabile presenta polifenoli e fitosteroli ad azione antiossidante e anticolesterolemizzante.
• Frutta e verdura, ricche in antiossidanti, vitamine e minerali, e legumi, che favoriscono un giusto apporto di fibra.
• Carboidrati a indice glicemico medio-basso, principalmente rappresentati da alimenti integrali, quali pane, pasta e cereali.
9 • Consumo moderato di carni magre e pesce; il pesce ricco in omega-3, risulta un alimento fondamentale, visto che alcuni acidi grassi delle serie ω-3 sono essenziali.
Quanto detto fino ad ora, viene comunemente rappresentato in maniera grafica attraverso la piramide alimentare, un modello statunitense che permette, in maniera abbastanza intuitiva, di far applicare tali nozioni alla popolazione generale. La sua stesura è avvenuta grazie al Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, per limitare la diffusione dell’obesità, problema piuttosto ricorrente tra la popolazione americana e non solo. La piramide permette di distinguere facilmente tra alimenti che vanno consumati con una maggiore frequenza rispetto ad altri, il cui consumo deve essere evitato o, quantomeno, limitato; questi alimenti infatti occupano l’apice della piramide, al contrario invece degli alimenti che troviamo alla base della piramide, dove l’ampio spazio è indice di un consumo più abbondante e frequente.
Fino a pochi anni fa, i carboidrati occupavano la base della piramide, tuttavia in virtù dell’alto indice glicemico, è stata rivalutata la loro posizione all’interno della piramide. La nuova piramide alimentare, che rappresenta tutti gli elementi della dieta mediterranea, predilige il consumo di frutta e verdura, presenti alla base della piramide; subito al di sopra, troviamo i carboidrati con pane, pasta, riso, patate e cereali (preferibilmente integrali). Tra i lipidi preferire il consumo di olio d’oliva. Ci avviciniamo all’estremità
Piramide alimentare
10 superiore della piramide dove si ritrovano le proteine quindi alimenti quale latte e derivati; poi carne, pesce, legumi e uova. In cima alla piramide, uno spazio ridotto è lasciato ai dolci.
1.2 Dieta bassa in carboidrati
Questo tipo di dieta prevede una drastica riduzione della quota glucidica, a favore di quella proteica e lipidica; in tal modo l’organismo si trova privato della quota di carboidrati, principale fonte di energia, ed è costretto a ricorrere ad altre vie, quali la gluconeogenesi e la chetogenesi. In condizioni di digiuno o di carenza di carboidrati, l’organismo garantisce glucosio al cervello mediante glicogenolisi, quindi ottiene glucosio a partire dalle scorte di glicogeno epatico; man mano che le scorte si riducono, il glucosio può essere ottenuto a partire da glicerolo, lattato e dallo scheletro carbonioso degli amminoacidi gluconeogenetici.
La riduzione dei livelli di insulina in seguito a riduzione dell’apporto di carboidrati, determina una riduzione della lipogenesi e dell’accumulo di grassi. Dopo pochi giorni di digiuno o di consumo insufficiente di carboidrati (sotto 50 g/die), la quantità di glucosio è insufficiente per fornire ossalacetato al ciclo di Krebs e al SNC. Il SNC è costretto, dunque, a trovare energia da altre fonti, ovvero da una super produzione di acetilCoA; questa condizione è tipica del diabete tipo 1, del digiuno prolungato e delle diete basse in carboidrati e determina la produzione di livelli più elevati del normale di corpi chetonici (acetone, acido β-idrossibutirrico e acetoacetato), attraverso le chetogenesi, presente nella matrice mitocondriale degli epatociti.
L’acetoacetato, il principale corpo chetonico prodotto dal fegato, in condizioni normali viene rapidamente metabolizzato dal tessuto scheletrico e cardiaco; in condizione di over-produzione si accumula e viene convertito negli altri due corpi chetonici, determinando chetonuria e chetonemia. I corpi chetonici vengono utilizzati dal SNC quando raggiungono una concentrazione di 4 mmol/L (normalmente hanno una concentrazione di 0,3 mmol/L), poiché corpi chetonici e glucosio hanno una Km simile per il trasportatore del glucosio a livello del cervello. L’energia viene ottenuta dai corpi chetonici che vengono scissi con formazione di due molecole di acetilCoA, le quali potranno entrare nel ciclo di Krebs.
La glicemia rimane, anche se ridotta, all’interno dei range di normalità perché il glucosio viene prodotto da amminoacidi gluconeogenetici e dal glicerolo che deriva dalla
11 lisi dei trigliceridi. Nella chetoacidosi fisiologica (ovvero quella che si verifica con la dieta bassa in carboidrati), il livello di chetoni nel sangue non supera 7-8 mmol/L senza determinare variazioni del pH del sangue, invece nella chetoacidosi provocata dal diabete tipo 1, la chetonemia supera 20 mmol/L, per cui avvengono abbassamenti del pH sanguigno.
Come detto, i corpi chetonici possono essere usati dai vari organi, incluso il cervello; in realtà cervello e globuli rossi sono tra i principali tessuti glucosio-dipendenti, i quali cioè possono ottenere energia solo da questo substrato. Tuttavia, in assenza o in condizione di limitata presenza di glucosio, viene sfruttata la chetogenesi.
L’acetoacetato e il β-idrossibutirrato sono gli unici che vengono utilizzati come fonte di energia, mentre l’acetone viene eliminato con le urine o tramite i polmoni. In risposta alla produzione di corpi chetonici, nell’organismo può comparire uno stato di chetosi. Le diete basse in carboidrati vengono spesso definite anche diete chetogeniche, proprio per la loro capacità di indurre lo stato di chetosi.
La dieta chetogenica venne utilizzata per la prima volta negli anni ’20 del Novecento, in ambito neurologico, per trattare episodi di epilessia resistente ai farmaci nei bambini; fu ideata infatti da un pediatra, il dottor Woodyatt. La dieta prevede un contenuto alto di grassi e basso di carboidrati, con un rapporto di 4:1 lipidi:non lipidi (carboidrati e proteine); ci si accorse che in uno stato di fame o di alimentazione bassa in carboidrati, i livelli di acetone, acetoacetato e β-idrossibutirrato aumentavano e venivano usati come fonte di energia alternativa al glucosio. Questo trattamento si è rivelato efficace soprattutto nei bambini con encefalopatia epilettica, anche se il meccanismo d’azione non è chiaro. (6)
Successivamente, vari specialisti hanno pensato di adottare questa tipologia di regime dietetico come strategia per il dimagrimento, perché viene favorita l’utilizzazione degli acidi grassi e si evita il loro accumulo. In tal senso, l’offerta di diete chetogeniche è cresciuta sempre più negli anni; se consideriamo questa tipologia, al suo interno ne ritroviamo molte che differiscono per la distribuzione dei nutrienti, pur mantenendo i principi base.
Il principale rischio connesso all’impiego di tali diete è il danno renale, provocato dagli alti livelli di escrezione di azoto, causa di un aumento della pressione glomerulare, così come descritto in alcuni studi animali; altri specialisti, invece, sostengono che non
12 avviene nessun tipo di danno al rene, così come descritto in altri studi animali o umani e studi di metanalisi. Infatti, in soggetti con buona funzionalità renale un alto intake di proteine ha determinato degli adattamenti morfologici e funzionali senza portare a effetti negativi; tuttavia, proprio per questo motivo, deve essere prestata la massima attenzione a soggetti con insufficienza renale, anche subclinica, o a soggetti con trapianto di rene.
Un’altra importante preoccupazione generata dall’impiego delle diete chetogeniche è relativa alla chetoacidosi, causata dall’innalzamento dei livelli dei corpi chetonici. Sono stati condotti degli studi sull’equilibrio acido-base in risposta a dieta chetogenica; ebbene, è stato osservato che i parametri hanno valori che non superano quelli comunemente accettati come normali. I risultati sono diversi rispetto a quelli dei soggetti diabetici che hanno avuto un episodio di chetosi, infatti non avvengono modifiche al pH sanguigno, né alla concentrazione di bicarbonati plasmatici e i livelli di β-idrossibutirrato non superano 2,9 mmol/L. Considerato che la sintesi epatica di chetoni avviene a bassi livelli di insulina e alti di glucagone e in maniera proporzionale all’ossidazione degli acidi grassi, il mantenimento dell’idrossibutirrato entro valori normali potrebbe coinvolgere diverse vie metaboliche. Studi precedenti avevano parlato di una mite acidosi metabolica indotta dalla dieta chetogenica, anche se in questo caso non sono state notate variazioni dei parametri riferiti all’equilibrio acido-base. Bisogna inoltre distinguere tra acidosi indotta dalla dieta e acidosi diabetica; l’acidosi diabetica viene diagnosticata con glicemia > 250 mg/dl, pH sanguigno < 7,3, bicarbonati < 15 mEq/L e presenza di chetonemia; nessuno di questi eventi si è verificato con la dieta chetogenica.
In condizioni di disponibilità di carboidrati, la glicolisi genera citrato che blocca la beta ossidazione degli acidi grassi e quindi la chetogenesi. Tuttavia, la disidratazione e una predisposizione enzimatica alla condizione potrebbero essere coinvolte nello sviluppo della chetoacidosi in alcuni soggetti, ad esempio una condizione di deficienza insulinica. (16)
Il rischio di una possibile acidosi è dunque inesistente nei soggetti che hanno una funzionalità insulinica normale. (5) Per tali motivi, la dieta chetogenica ipocalorica viene considerata un intervento nutrizionale sicuro, in termini di equilibrio acido-base, nel trattamento dell’obesità. (16)
Ma come mai la risposta alla dieta chetogenica avviene in maniera talmente efficace? La riduzione del peso nelle diete chetogeniche sembra essere causata da vari fattori, quali:
13 • maggiore effetto saziante, provocato dalle proteine;
• riduzione della sintesi dei lipidi e aumento della lipolisi;
• riduzione del quoziente respiratorio a riposo e quindi aumento dell’uso dei lipidi nei processi metabolici;
• aumento della spesa energetica causata da TID e gluconeogenesi.
Le ipotesi circa il meccanismo alla base dell’effetto dimagrante di tali diete sono piuttosto diversificate; alcuni suggeriscono che la perdita di peso sia dovuta semplicemente ad una riduzione dell’intake energetico, a causa dell’effetto saziante, e non ad un’azione diretta sul metabolismo. Quel che ne risulta è che, nel breve termine, questo tipo di dieta determina effetti positivi su perdita di peso, preservazione della massa magra, miglioramento del profilo lipidico e glicemico.
La dieta bassa in carboidrati, inoltre, si è rivelata efficace sui fattori di rischio cardiovascolare determinando una riduzione della circonferenza vita e della pressione sanguigna, due fattori di rischio per eventi cardiovascolari. L’abbassamento della pressione arteriosa è associato ad una riduzione dell’incidenza di infarto del miocardio, insufficienza cardiaca ed eventi coronarici.
14
Effetto delle diete sui parametri antropometrici
Procediamo a questo punto alla comparazione delle due tipologie di dieta in riferimento ai parametri antropometrici; negli studi si ritrovano le seguenti definizioni relative alle diete:
❖ dieta bassa in carboidrati; ❖ dieta alta in carboidrati; ❖ dieta bassa in grassi.
Considerando la distribuzione degli alimenti all’interno delle diete che vogliamo analizzare in questo lavoro, si può ricondurre la tipologia di dieta alta in carboidrati ad una dieta simil-mediterranea. Ricordiamo infatti che in questo tipo di dieta l’intervallo di riferimento per l’assunzione di nutrienti (RI) è 20-35% di grassi e 45-60% di carboidrati, secondo i LARN (Livelli di Assunzione Raccomandata di Nutrienti, 2014). Per le proteine i LARN non indicano un RI ma un PRI (assunzione raccomandata per la popolazione) di 0,9 g/kg di peso corporeo/die; considerando l’individuo di riferimento “uomo di 70 kg”, sono circa 63 g di proteine, ovvero 252 Kcal. Rispetto al fabbisogno energetico medio dell’uomo adulto di 2670 Kcal (1,6 LAF, attività fisica moderata), la quota proteica rappresenta circa il 10-15% del fabbisogno energetico quotidiano.
Per “antropometria” si intende, in questo caso, la misurazione di peso, circonferenza vita, circonferenza fianchi e massa grassa. Conoscendo queste misure è possibile poi determinare, sperimentalmente, il BMI e il rapporto vita/fianchi (WHR).
La misurazione del peso da sola non ci consente di valutare cosa è avvenuto durante un dimagrimento, perché non ci permette di conoscere se la perdita di massa abbia interessato quella grassa o la magra; per questo motivo si procede alla determinazione della massa grassa. Inoltre, la valutazione del grasso viscerale è importante perché la sua riduzione ha un impatto positivo sul metabolismo glucidico, migliorando la sensibilità all’insulina e la tolleranza al glucosio.
Tale misurazione può essere effettuata utilizzando diverse metodiche quali la plicometria, la DEXA o la bioimpedenziometria; i metodi principalmente utilizzati negli studi riportati sono stati la DEXA e la misurazione delle pliche cutanee.
La plicometria consente di stimare la massa grassa grazie all’utilizzo di un apposito apparecchio, il plicometro, che viene posizionato su pliche cutanee localizzate in regioni
15 ben precise (es. plica bicipitale, tricipitale, sottoscapolare, sovrailiaca). Il limite della plicometria è rappresentato dall’abilità del suo esecutore e dallo stato di idratazione del tessuto; entrambi i fattori possono determinare errori nella stima della massa grassa.
La DEXA si basa sulla valutazione della densità ossea; viene emesso un doppio fascio di raggi X che saranno assorbiti in maniera diversa dal tessuto osseo e dal tessuto molle (rappresentato da massa magra e grassa). Un algoritmo trasforma i dati ottenuti in contenuto minerale e in quantità di massa magra e grassa. È attualmente utilizzato come
gold standard per la validazione delle metodiche relative alla misurazione della massa
grassa e magra.
La bioimpedenziometria valuta la conducibilità elettrica, ovvero il passaggio di una debole corrente attraverso un corpo; la massa magra è un buon conduttore di elettricità, al contrario della grassa che è un isolante. Valutando quindi la resistenza che il corpo oppone al passaggio della corrente, viene valutata la quantità di massa magra e grassa.
La misurazione della circonferenza vita risulta utile per valutare il grasso depositato a livello addominale; la misurazione deve essere fatta nel punto più stretto della vita. Il grasso presente in questo compartimento predispone alle malattie cardiovascolari, perché il grasso viscerale può rilasciare acidi grassi liberi all’interno della vena porta e giungere quindi al fegato, dove questi si accumulano. L’accumulo influisce negativamente sullo stato di salute, per cui all’aumentare della circonferenza vita, aumenta il rischio associato. Come già detto, la circonferenza vita è uno dei parametri utilizzati anche dall’ATP III per definire la sindrome metabolica; esistono dei valori di cut-off per la circonferenza vita che non deve essere superiore a 102 cm nell’uomo e a 88 cm nella donna. La misurazione della circonferenza vita è fondamentale perché spiega, meglio del BMI, il rischio per la salute correlato all’obesità. Conoscere la misura anche della circonferenza fianchi permette quindi di calcolare il WHR (Waist to Hip Ratio); in questo caso i valori di cut-off sono 0,8 per la donna e 0,95 per l’uomo.
L’indice di massa corporea (BMI dall’inglese, Body Mass Index) o indice di Quetelet è stato usato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per classificare in base al rapporto tra due parametri – peso in kg/altezza in m2 – la popolazione in: sottopeso (valori
inferiori a 18,5 kg/m2), normopeso (tra 18,5 kg/m2 e 24,9 kg/m2), sovrappeso (tra 25
kg/m2 e 29,9 kg/m2) o obesa (al di sopra di 30 kg/m2); avviene poi una classificazione
16 nutrizionale del soggetto, in presenza di alcune condizioni particolari (es. sovrastima del peso in caso di edema).
Il BMI non dà alcuna informazione sulla composizione corporea, ma l’appartenenza alla classe sovrappeso o obesità aumenta statisticamente il rischio di incorrere in disturbi cardiometabolici (es. diabete mellito tipo 2, malattie cardiovascolari). La perdita anche solo del 5-10% del peso iniziale comporta una riduzione del rischio associato.
Esiste un interesse piuttosto importante da parte della comunità scientifica nei confronti delle diete chetogeniche basse in carboidrati perché, rispetto ad una dieta bassa in grassi, porterebbero ad una maggiore perdita di peso; la caratteristica principale è l’abbassamento della quota glucidica inferiore a 50 g/die e l’aumento di quella proteica e lipidica. Questa condizione induce la formazione di corpi chetonici, che vengono poi usati come fonte di energia; la chetosi generata è quella che Krebs ha definito “fisiologica”, distinguendola da quella causata dal diabete.
I meccanismi responsabili della perdita di peso tramite diete di tipo chetogenico sono oggetto di dibattito e le ipotesi sono varie:
• l’uso di energia derivante dalle proteine della dieta chetogenica determina un costo energetico maggiore per cui aumenta la spesa energetica e di conseguenza la perdita di peso – in realtà altri autori hanno smentito cambiamenti nel metabolismo basale;
• riduzione dell’appetito a causa del maggior effetto saziante delle proteine; • soppressione dell’appetito ad opera dello stato di chetosi generatosi.
2.1 Peso
Il POUNDS LOST trial ha effettuato una comparazione tra diverse tipologie di dieta che variavano per il contenuto in grassi (dal 20 al 40% dell’energia totale), in proteine (dal 15 al 20% dell’energia totale) e in carboidrati (dal 35% al 65% dell’energia totale). I soggetti sottoposti allo studio presentavano un BMI tra 25 e 40 kg/m2, per cui si trovavano
in una condizione di sovrappeso o obesità, più o meno grave. Il trattamento dietetico prescritto prevedeva inoltre un’assunzione di acidi grassi saturi inferiori o uguali all’8%, di fibre superiore a 20 g/die, di colesterolo inferiore o uguale a 150 mg/1000 Kcal e un basso indice glicemico degli alimenti. Le diete avevano un deficit calorico di circa 750 Kcal/die rispetto al fabbisogno energetico, la cui stima è avvenuta grazie alla misurazione del metabolismo basale mediante calorimetria indiretta. I pazienti sono stati valutati
17 durante due follow-up: a 6 mesi, quando la perdita di peso era pari al 6,7% del peso iniziale, e a due anni, quando si era verificata una ripresa del peso pur mantenendo una perdita netta del 4,1% rispetto al peso d’inizio. Nessuna differenza tra i vari tipi di intervento dietetico è stata osservata né a 6 mesi, né a 2 anni (1).
Uomini obesi e in sovrappeso che hanno seguito due tipi di diete, una ipocalorica bassa in grassi con alto intake in proteine e una dieta isocalorica alta in carboidrati, hanno riscontrato una simile perdita di peso e di circonferenza vita e un equivalente miglioramento per i fattori di rischio cardiovascolare tra le due diete. (9)
Un’ulteriore conferma alla teoria secondo la quale non avviene una perdita ponderale maggiore in risposta a diete basse in carboidrati proviene da una metanalisi di trial controllati che ha valutato due tipi di diete: basse in carboidrati e basse in grassi; anche in questo caso, entrambe le diete si sono dimostrate ugualmente valide per la perdita di peso e per la riduzione della circonferenza vita. Infatti non si sono registrate differenze significative riguardanti la perdita di peso tra le due tipologie di dieta; entrambe si sono rivelate efficaci per la perdita di peso a prescindere da sesso, età, condizione di diabete e durata del trattamento dietetico. (2)
Uno studio condotto su soggetti obesi trattati con dieta alta in proteine o dieta alta in carboidrati ha dimostrato che possono essere raggiunti simili risultati per la perdita di peso e simili effetti sui fattori di rischio cardiovascolare dopo un anno; trattandosi di casi di obesità, l’intervento dietetico è stato associato ad una terapia cognitivo-comportamentale. L’impiego di tale strategia si è rivelato efficace, infatti, la percentuale di peso perso era superiore alla media dei risultati ottenuti con programmi di modifica delle abitudini alimentari. Per questo motivo, tali risultati si mostrano in linea con gli studi che affermano che, in presenza di un contenuto energetico fissato, la composizione dei macronutrienti influenza poco. (7)
È stata indagata anche la componente proteica della dieta, per valutare se questa abbia qualche impatto sullo stato nutrizionale o sulla perdita di peso. Lo studio è stato condotto su pazienti sottoposti a due differenti regimi dietetici, entrambi molto ipocalorici (diete inferiori a 800 Kcal/die) e chetogenici: le due diete differiscono per il contenuto quali e quantitativo delle proteine. In una dieta il 50% dell’intake proteico è sostituito con amminoacidi sintetici, nella seconda, invece, con placebo. I risultati hanno dimostrato che la dieta con placebo ha determinato una notevole perdita di peso e di massa grassa sia in
18 zona androide che ginoide. Di conseguenza, l’effetto dimagrante è stato causato dal regime fortemente ipocalorico, più che dalla composizione dei nutrienti. La dieta non ha dimostrato variazione dello stato nutrizionale, per cui non sono state osservate conseguenze come la sarcopenia. (17)
2.1.1 Mantenimento del peso
Una delle più comuni critiche mosse nei confronti della dieta chetogenica è la presenza del cosiddetto “effetto yo-yo”, ovvero effetti transitori. Wing e Hill nel 2001 hanno proposto come definizione di mantenimento per la perdita di peso “un soggetto che ha perso almeno il 10% del suo peso e che lo mantiene per l’anno successivo”. È stato scelto come criterio il 10% per gli effetti positivi sul rischio cardiovascolare e sul diabete, mentre il criterio dell’anno successivo è stato scelto in accordo con l’Institute of Medicine degli USA. È interessante dunque affrontare anche questo aspetto. (5)
È stata saggiata una variante mediterranea chetogenica che si è mostrata in grado di indurre significative perdite di peso e di massa grassa, mantenute poi per almeno un anno. In particolare, il peso perso dopo 6 mesi (dopo il ciclo di dieta chetogenica), è stato mantenuto, senza ripresa di peso, nei seguenti mesi di dieta mediterranea normocalorica. (5)
In un gruppo di pazienti trattati con dieta chetogenica molto ipocalorica (VLCK), più dell’88% aveva perso oltre il 10% del peso iniziale. La riduzione di peso era il doppio nei primi 15 giorni e la perdita massima è stata raggiunta a 8 mesi, sebbene anche a 6 e 10 mesi si siano ottenuti risultati simili. La perdita di peso del 10% è stata raggiunta nel 96% dei soggetti con dieta VLCK dopo 2 mesi, contro il 3,8% del gruppo “dieta ipocalorica”. È stato inoltre notato che una maggiore perdita di peso all’inizio del periodo di trattamento, incoraggia il mantenimento nel lungo termine. Il problema del mantenimento nel lungo termine è molto comune anche tra gli obesi trattati con successo. (26)
Il Department of Agriculture US ha concluso che la perdita di peso è indipendente dalla composizione in macronutrienti della dieta.
Una review ha confrontato l’efficacia di 4 tipi di diete che si basavano su un principio comune: la riduzione della quota glucidica nella dieta; i parametri studiati riguardavano la perdita di peso e il miglioramento dei fattori di rischio per il sistema cardiovascolare. Interessante è anche la valutazione che viene eseguita a 12 mesi, indice del mantenimento del peso raggiunto. Tutte le diete determinavano perdita di peso nel breve termine, mentre
19 nel lungo termine non tutte raggiungevano questo scopo, anzi, in taluni casi, si verificava anche una ripresa del peso dopo 24 mesi. (27)
2.2 Massa grassa
Qualsiasi regime dietetico finalizzato alla perdita di peso determina la perdita di massa grassa e di massa magra; la perdita di massa magra non è auspicabile, seppur inevitabile, ecco perché si è cercato di utilizzare delle diete che limitino quest’effetto. Sembrerebbe che una perdita preferenziale della massa grassa avvenga con le diete basse in carboidrati e alte in proteine.
Innanzitutto, è bene notare le differenze strutturali nel corpo dei due sessi; in base a misurazioni su migliaia di soggetti, sono stati ricavati due individui di riferimento, l’uomo e la donna. Sono misure ideali che però possono aiutarci a comprendere le differenze tra i due sessi. L’uomo di riferimento è un individuo di 20-24 anni con una percentuale di massa grassa pari al 15%, di cui il grasso di deposito rappresenta la quota principale (12%) e la restante parte (3%) è grasso essenziale. Il muscolo rappresenta circa il 45% del peso, mentre la massa magra totale è l’88%. La donna di riferimento ha 20-24 anni con una percentuale di massa grassa pari al 27%, di cui 15% come grasso di deposito e 12% grasso essenziale. Il muscolo rappresenta il 36%, mentre la massa magra totale è l’85%. La differenza sostanziale nella massa magra è legata alla funzione biologica del sesso femminile: l’aumento della quota di grasso essenziale è fondamentale per la riproduzione infatti è legato alla funzione di ormoni sessuali. Il grasso essenziale riguarda anche quello presente in organi quali cuore, milza, fegato, reni; il grasso di deposito è la riserva energetica dell’organismo (1 g = 9 Kcal).
Il POUNDS LOST ha dimostrato che, in realtà, non avviene una perdita preferenziale della massa grassa viscerale in risposta ad una qualsiasi delle diete testate, per cui la perdita di grasso viscerale è quella che ci si aspettava come risposta da ciascuna dieta. In tutte le variazioni dietetiche testate, la perdita di massa grassa, soprattutto di tipo sottocutaneo piuttosto che viscerale, era sempre maggiore rispetto alla massa magra. (1)
Il POUNDS LOST trial ha utilizzato come metodica per la stima della massa grassa la DEXA; la perdita di massa grassa raggiunta dopo 6 mesi era il doppio rispetto a quella di massa magra senza differenza alcuna tra le varie diete somministrate. Il follow-up è stato ripetuto anche 2 anni dopo e i risultati confermavano quelli ottenuti nel precedente, sebbene fosse avvenuta una ripresa del peso, con aumento della massa magra e grassa.
20 Una lieve differenza in termini di perdita di massa magra era stata notata a 6 mesi quando era stata persa più massa magra tra i soggetti con dieta media in proteine rispetto al gruppo con dieta alta in proteine e in quello con dieta alta in carboidrati rispetto a quello con contenuto di carboidrati basso. (1)
Una simile riduzione relativa alla massa grassa è stata osservata anche in uno studio su uomini obesi, trattati con dieta a contenuto alto o basso in carboidrati. I soggetti con dieta bassa in carboidrati avevano perso meno massa magra rispetto alla dieta alta in carboidrati; la preservazione della massa magra osservata nella dieta ad alto intake proteico è stata imputata alla quantità di proteine presenti in quel regime dietetico (1,24 g/kg di p. c./die di proteine contro 0,8 g/kg di p. c./die della dieta alta in carboidrati). (9)
Il contributo della massa magra nella perdita di peso totale durante la dieta iperproteica era circa la metà rispetto a quella osservata nel gruppo della dieta alta in carboidrati. Visto che la massa magra è strettamente correlata al metabolismo basale, la minor riduzione della massa magra, avutasi con la prima dieta, può aver avuto effetti positivi sul raggiungimento del controllo di peso, quando è stata reintrodotta la dieta ad libidum; inoltre, poiché il tessuto muscolare rappresenta la più vasta area di tessuto insulino-dipendente, la minore riduzione di massa magra può aver causato benefici alla salute (es. diabete mellito tipo 2 e rischio cardiovascolare); tuttavia mancano studi a lungo termine che possano confermare questa ipotesi. La migliore riduzione della massa grassa potrebbe essere dovuta alla minore efficienza energetica nel metabolismo proteico rispetto ad un equivalente intake calorico di carboidrati o grassi. (9)
Si può quindi affermare che con entrambe le diete si è osservata una riduzione della massa magra; ne consegue che le diete ipocaloriche chetogeniche possono essere usate in tutta sicurezza per brevi periodi (circa 3 settimane) per stimolare la perdita di massa grassa, di peso e migliorare il metabolismo. (17)
Infine, sembrerebbe che la perdita di massa grassa dipenda principalmente dall’assunzione di calorie con la dieta e che la distribuzione dei nutrienti all’interno della dieta non provochi differenze nei cambiamenti del corpo, in soggetti in condizione di sovrappeso o obesità.
2.2.1 Differenze relative al sesso
Esistono nette differenze relative alla percentuale di massa grassa tra uomini e donne: gli uomini hanno una percentuale di massa grassa inferiore alle donne, ma la quantità di
21 grasso a livello addominale e viscerale, in un campione testato, era maggiore. Per questo motivo gli uomini presentavano una circonferenza vita maggiore, nonostante la minore massa grassa totale. (1)
È stata valutata la perdita di massa grassa e magra tra i due sessi, sia a 6 mesi, che a 2 anni ed il risultato era simile. La perdita di grasso a livello addominale proveniva soprattutto dal compartimento sottocutaneo piuttosto che da quello viscerale; gli uomini hanno dimostrato di perdere una quantità maggiore di grasso addominale e viscerale, tuttavia considerando il rapporto grasso viscerale/massa grassa le donne perdono più grasso viscerale rispetto agli uomini. Possiamo dunque affermare che, in seguito ad un intervento dietetico, si è avuta una riduzione del grasso viscerale in entrambi i sessi ma, il fatto che la riduzione maggiore sia stata superiore negli uomini, viene spiegata dalla loro tendenza ad immagazzinare grasso soprattutto in tale compartimento. (1)
Uno studio è stato condotto utilizzando due tipi di diete: una dieta chiamata PRO, prevedeva un intake proteico pari a 1,6 g/kg di peso/die (pari a circa il 30% del fabbisogno energetico), e una dieta chiamata CARB, con un intake proteico di 0,8 g/kg di peso/die (pari a circa il 15% dell’energia totale); lo scopo dello studio era valutare le differenze tra i due sessi nei cambiamenti della composizione corporea in risposta ai due differenti interventi dietetici. Non è stata rilevata nessuna interazione del sesso o del tipo di dieta sulla composizione del corpo suggerendo quindi che uomini e donne rispondono in maniera simile ad un regime di restrizione calorico.Non vi sono evidenze significative tra i sessi neanche riguardo ai tempi necessari alla perdita di massa grassa e magra. Gli uomini presentavano un contributo maggiore della massa grassa sulla perdita di peso totale, rispetto all’altro sesso; inoltre, uomini e donne del gruppo PRO avevano perso più massa grassa rispetto alla magra. (3)
Come è stato detto prima, nelle donne il livello di adiposità è maggiore rispetto al sesso opposto e, mentre gli uomini accumulano di più a livello addominale (si parla di obesità androide), nelle donne le riserve adipose tendono a concentrarsi principalmente a livello gluteo-femorale; a causa di questa disomogeneità strutturale, sembra che le donne perdano di più a livello femorale mentre gli uomini a livello addominale. I dati a disposizione supportano tale disparità di genere sulla perdita di massa grassa da determinate regioni del corpo, ma non si registrano differenze legate al sesso sull’effetto delle diete. Una possibile spiegazione delle differenze tra uomo e donna nella risposta a
22 diete dimagranti iperproteiche potrebbe derivare dalla maggiore TID (Termogenesi Indotta dalla Dieta) dell’uomo nella fase post-prandiale o dal fatto che il contenuto proteico del pasto possa fungere da stimolo per la sintesi proteica muscolare, con successivo incremento della spesa energetica. In particolare, sembrerebbe che la presenza dell’amminoacido leucina presente nelle proteine, all’interno di una dieta iperproteica, favorisca la preservazione della massa magra. Possono intervenire anche influenze ormonali sulla composizione del corpo; ad esempio, trattandosi di donne adulte, si può avere l’influenza dello status menopausale sulla distribuzione del grasso corporeo, sul peso e sul metabolismo basale. (3)
23
Effetto delle diete sui parametri ematochimici
Dopo aver considerato ciò che le due diete determinano a livello antropometrico, passiamo alla valutazione dal punto di vista ematochimico. La valutazione prevede indici del profilo glicemico, lipidico, epatico e renale.
3.1 Profilo glicemico
Per il profilo glicemico i parametri considerati sono glicemia, insulinemia, emoglobina glicata (HbA1c) e indice HOMA. I valori alterati di glicemia e insulinemia possono suggerire il riscontro di diabete tipo 2, la forma più comune di malattia diabetica nella popolazione adulta. L’emoglobina glicata è in grado di dare un’informazione relativa agli ultimi 2-3 mesi; infatti, l’emoglobina presente all’interno del globulo rosso può legare il glucosio, in base alla sua concentrazione ematica. Poiché la vita media di un eritrocita è 120 giorni, il valore di emoglobina glicata sarà riferito all’ultimo trimestre e indicherà la quantità di glucosio presente nel sangue in quel periodo. L’indice HOMA valuta la resistenza all’insulina, anch’essa una condizione tipica del diabete tipo 2; quando le cellule dell’organismo non rispondono all’azione dell’insulina, il pancreas risponde aumentandone la sintesi, con conseguenti livelli elevati di ormone nel sangue (iperinsulinemia). Quando però le cellule pancreatiche non rispondono più a questa richiesta di over-produzione, la glicemia non viene abbassata dall’azione dell’insulina e si instaura una condizione di iperglicemia.
Le concentrazioni di insulina 2 ore dopo il carico si riducono negli uomini, invece nelle donne non si notano cambiamenti con dieta mediterranea, ma questa differenza non è significativa. Non si notano cambiamenti significativi per la glicemia e l’insulinemia a digiuno, per la glicemia a 120’ e per l’indice HOMA, sia negli uomini che nelle donne in risposta a dieta mediterranea. La riduzione dell’insulinemia nell’uomo potrebbe essere spiegata dall’adiponectina, una adipochina prodotta a livello del tessuto adiposo; le sue concentrazioni sono influenzate dagli ormoni sessuali e da fattori dietetici: sembra infatti che la dieta mediterranea ne aumenti le concentrazioni (14), mentre in condizioni di insulino-resistenza, la sintesi sia bloccata.
Limitando il consumo di carboidrati, la fonte di energia è rappresentata dagli acidi grassi liberi quindi, al contrario dell’insulina che stimola l’uso di glucosio, interviene il glucagone che stimola la chetogenesi, la produzione epatica di glucosio e la lipolisi. È
24 stata osservata una riduzione di insulina dopo due diete chetogeniche e un aumento dell’insulino-sensibilità. (17)
La riduzione di glicemia e insulinemia a digiuno è stata ritrovata anche in altri trial randomizzati, a conferma quindi della capacità delle due diete di intervenire sul profilo glicemico, migliorandolo. (2)
3.2 Profilo lipidico
Il colesterolo è una molecola di natura lipidica, ritrovata in diversi alimenti di origine animale, quali carne, pesce, latte e derivati; è assente, invece, negli alimenti di origine vegetale, quali frutta, verdura e cereali. È usato come precursore per la sintesi di altri composti quali ormoni e vitamina D. Distinguiamo il colesterolo esogeno, introdotto con l’alimentazione, dal colesterolo endogeno, prodotto dall’organismo a partire da acetilCoA. Il trasporto del colesterolo nel sangue avviene mediante lipoproteine VLDL, IDL, LDL e HDL, le quali differiscono per la densità e quindi per il contenuto di colesterolo. Le lipoproteine valutate per il rischio cardiovascolare sono le LDL e le HDL. Le HDL trasportano il cosiddetto “colesterolo buono” ovvero raccolgono il colesterolo dai tessuti periferici e lo riportano al fegato, il quale provvederà poi ad eliminarlo; le LDL vengono definite invece “colesterolo cattivo” perché partono dal fegato e lo distribuiscono ai vari tessuti extra-epatici. Le LDL possono andare facilmente incontro ad ossidazione, con successiva formazione della placca ateromatosa a livello dei vasi sanguigni; nel lungo termine, l’accumulo ateromatoso nei vasi può determinarne l’ostruzione o causare un trombo, per distacco della placca. Sono considerati normali valori di colesterolo totale entro 200 mg/dl di sangue; per il colesterolo LDL entro 100 mg/dl; per il colesterolo HDL superiori a 50 mg/dl. Una dieta sbilanciata, una condizione di sovrappeso/obesità e la mancanza di attività fisica possono essere causa di ipercolesterolemia; il concomitante fumo di sigaretta può aggravare la situazione, poiché contribuisce al danneggiamento dei vasi.
La metanalisi condotta su studi che comparavano diete basse in carboidrati con diete basse in grassi rivela, dal punto di vista ematochimico, uno scenario piuttosto interessante; in tutte le diete si era registrata una riduzione di: colesterolo totale (CT), colesterolo LDL, rapporto CT/HDL, trigliceridi, mentre un incremento è stato osservato per il colesterolo HDL. Quest’ultimo in particolare risultava maggiormente aumentato tra i soggetti che avevano seguito la dieta bassa in carboidrati; questi soggetti presentavano,
25 inoltre, una maggiore riduzione di trigliceridi, e una meno marcata diminuzione di colesterolo totale e LDL, rispetto all’altro gruppo. Possiamo concludere dunque che è stato ottenuto un miglioramento del profilo lipidico in entrambe le diete, infatti anche il rapporto CT/HDL, che è considerato un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, non era significativamente diverso tra i due tipi di trattamento. (2)
La valutazione del colesterolo HDL rispecchia il tipo di dieta seguita: il valore è più basso dopo aver consumato la dieta alta in carboidrati rispetto a quella bassa, perché l’HDL è un indice dell’assunzione di carboidrati. (1)
Gli effetti di riduzione sul colesterolo sono probabilmente dovuti all’attività dell’insulina in grado di stimolare l’HMGCoA reduttasi, l’enzima chiave nella sintesi endogena di colesterolo; in questo modo, viene dunque favorita la sintesi endogena. (11)
Alcuni studi sull’impiego di diete chetogeniche mostrano, oltre alla riduzione delle LDL, anche un aumento della loro taglia; questo può essere considerato un fattore protettivo per il sistema cardiovascolare perché la taglia più piccola ha un maggiore effetto aterogenico. (11)
Un altro parametro valutato è la concentrazione di trigliceridi nel sangue; i trigliceridi possono essere prodotti dal fegato o assunti con gli alimenti. Rappresentano la scorta energetica del nostro organismo, che in carenza di energie mobilita le scorte; l’accumulo avviene a livello del tessuto adiposo.
Sebbene la sintesi endogena di trigliceridi aumenti in risposta ad un regime di dieta alto in carboidrati, tra le diete non si sono avuti risultati diversi e questo potrebbe essere spiegato dal fatto che la differenza tra le due diete circa la quantità di carboidrati (~ 37 g) potrebbe non essere stata sufficiente a causare una variazione nei livelli di trigliceridi; è anche possibile che i carboidrati a basso indice glicemico, prescritti nella dieta, possano non aver apportato questi effetti indesiderati. (9)
Una dieta mediterranea è stata somministrata a donne e uomini (25-50 anni) che presentavano un leggero aumento del colesterolo LDL o del rapporto CT/HDL (> a 5) e con almeno 1 dei 4 fattori di rischio per la sindrome metabolica (circonferenza vita > a 102 cm per gli uomini e > a 88 cm per le donne, trigliceridi > a 150 mg/dl, glicemia a digiuno > a 110 mg/dl, pressione arteriosa ≥ a 130/85 mmHg). È stato visto un miglioramento del profilo lipidico e della pressione arteriosa in uomini e donne.
26 Componenti della dieta mediterranea che possono influenzare i cambiamenti delle LDL sono legati agli acidi grassi provenienti dall’intake di fibra solubile e di fitosteroli. (14)
L’aderenza alla dieta mediterranea induce una protezione dose - dipendente riguardante le placche aterosclerotiche, indipendente da altri fattori di rischio; è stato osservato che l’associazione è più netta tra i fumatori e a livello delle arterie femorali. I meccanismi coinvolti nel processo di protezione da malattie cardiovascolari non sono ancora ben chiari; le ipotesi includono il ritardo dello sviluppo di aterosclerosi attraverso un miglioramento dei fattori di rischio quali colesterolo LDL, HDL e pressione arteriosa. Altre ipotesi riguardano invece la stabilizzazione di placche esistenti e la prevenzione di una rottura e di trombosi. Uno studio dimostra che una maggiore aderenza alla dieta mediterranea è correlata ad una minore presenza e importanza di aterosclerosi. Il ruolo protettivo della dieta mediterranea nelle zone femorali è stato trovato solo nei soggetti fumatori. Alla base di questo sembra esserci il fatto che il fumo è ricco di agenti ossidanti, che inducono dunque l’ossidazione delle lipoproteine aterogeniche, e che prodotti della perossidazione lipidica e LDL ossidate sono abbondanti tra i fumatori. La dieta mediterranea è ricca in antiossidanti e acidi grassi omega-3 che hanno effetti positivi sulla composizione delle membrane, sull’infiammazione sistemica e sull’ossidazione delle lipoproteine. (15)
Sebbene non si siano registrate differenze significative tra le diete per i parametri sopra elencati, la riduzione del fattore di rischio per il sistema cardiovascolare è risultata maggiore nel gruppo che seguiva la dieta alta in proteine.
Oltre ai parametri relativi al profilo lipidico, interessante è anche il risultato sui livelli di PCR (proteina C reattiva); è una proteina la cui sintesi epatica risulta particolarmente aumentata durante uno stato infiammatorio. La PCR è una molecola infiammatoria implicata anche nel processo aterosclerotico, identificato come predittivo di malattie cardiovascolari. La PCR risulta ridotta nello studio, senza differenza alcuna tra i due trattamenti dietetici; in particolare, in condizioni di dieta libera, lo studio Diogenes ha dimostrato che l’ipersensibilità alla PCR è ridotta quando si seguiva una dieta a basso indice glicemico e a basso contenuto di proteine. Sebbene non si siano notati effetti della dieta sulla PCR, i livelli della proteina risultano due volte più bassi rispetto ai valori osservati durante terapia con statine per un periodo di tempo uguale. (9)
27
3.3 Profilo epatico
Per il profilo epatico i parametri presi in considerazione sono AST (aspartato amino transferasi) e ALT (alanina amino transferasi); questi enzimi sono delle transaminasi, quindi sono strettamente associati a funzionalità dell’organo. Vengono studiati poiché un’alterazione nei loro valori può essere indice di epatite, cirrosi o ittero.
Diversi studi hanno mostrato una relazione tra sindrome metabolica, diabete mellito tipo 2, obesità e steatosi epatica non alcolica (NAFLD); per diagnosticarla si usano come indici ALT (> a 40 U/l) e il rapporto AST/ALT < a 1 per la fibrosi; nello studio con due varianti di diete chetogeniche, ALT era < a 40 e anche se si è notato un aumento di AST con la prima dieta, i valori erano comunque all’interno del range di normalità. (17)
3.4 Profilo renale
La clearance della creatinina indica la quantità di sangue privato della creatinina in un minuto; è un indice di funzionalità renale infatti la creatina è il prodotto di scarto della creatina fosfato muscolare e viene eliminata totalmente tramite i reni. Un innalzamento dei valori di creatinina, indica un rallentamento della velocità di filtrazione glomerulare. Non risulta modificata in entrambe le diete, ma lo studio interessava soggetti con rischio renale basso (funzionalità renale normale al baseline); inoltre, trattandosi di diete calorie-restricted veniva ingerita una quantità di proteine ridotta che poteva essere simile a quella presente in una dieta bilanciata. (9)
La creatinina è usata come indice della funzionalità renale ed è un marker della massa muscolare, per cui bassi livelli di creatinina possono essere dovuti a poca massa muscolare o basso intake dietetico di proteine. Alla fine dello studio si è notato un incremento della creatinina con la dieta bassa in carboidrati dovuto al più alto intake dietetico. L’aumento della creatinina potrebbe rappresentare un possibile rischio per i reni e un possibile danno epatico. (17)
L’azotemia indica la quantità di azoto non proteico nel sangue; valori diversi da quelli accettati come normali indicano un’alterazione della funzionalità renale. Il prodotto di scarto delle proteine ingerite è l’urea, eliminata principalmente con le urine; se la funzionalità renale diminuisce, aumenta la concentrazione di azoto in circolo (iperazotemia). Un tasso elevato di azotemia può essere riscontrato anche durante una dieta iperproteica o chetogenica, soprattutto se non avviene contemporaneamente una corretta idratazione.
28 L’escrezione di azoto è direttamente correlata all’assunzione di proteine, infatti i risultati lo confermano: l’azoto urinario si è ridotto nei soggetti con dieta bassa in proteine ma è rimasto immutato nei soggetti con dieta ad alto contenuto proteico. (1)
L’assunzione di proteine con la dieta, determina la presenza di purine che, in seguito alla digestione, vengono convertite in acido urico ed immesse nel sangue; l’eliminazione di acido urico avviene principalmente con le urine, ma una piccola quota anche tramite le feci. L’aumento dei livelli di acido urico può determinare la sua deposizione a livello delle articolazioni e dei tessuti molli, sotto forma di cristalli di urato; questa condizione determina uno stato infiammatorio, noto come gotta. L’aumento di acido urico in entrambe le diete viene spiegato dal fatto che è correlato in maniera inversa ai marker di adiposità: l’acido urico è in grado di inibire i radicali liberi quindi protegge contro lo stress ossidativo. (17)
29
Effetto delle diete sul metabolismo
Il consumo energetico totale di un individuo può essere distinto in: spesa energetica basale (BEE), termogenesi indotta dalla dieta (TID) e spesa energetica legata all’attività fisica. La somma di BEE e TID rappresenta la spesa energetica a riposo (REE).
La spesa energetica basale è relativa all’energia utilizzata dall’organismo per svolgere le normali funzioni vitali; rappresenta circa il 60-75% del dispendio energetico totale quotidiano, anche se la percentuale è variabile in base allo stato nutrizionale (es. nei soggetti obesi è aumentata). I valori di metabolismo basale sono in genere più alti negli uomini, piuttosto che nelle donne; ciò dipende dalla maggiore rappresentazione di massa magra nell’uomo, poiché la massa magra ha un consumo energetico che può arrivare anche a 40 Kcal/kg/die, al contrario della massa grassa il cui consumo è circa 5 Kcal/kg/die, quindi nettamente inferiore.
La termogenesi indotta dalla dieta rappresenta circa il 7-13% della spesa energetica; include l’energia necessaria a tutti i processi di digestione e assorbimento dei substrati introdotti con la dieta.
La spesa energetica legata all’attività fisica è una quota molto variabile, legata al grado di esercizio fisico svolto dal soggetto; in un individuo sedentario varia dal 15% al 30% del dispendio totale.
La misurazione della spesa energetica basale può avvenire sperimentalmente mediante calorimetria indiretta, una metodica che consente di stimare l’energia prodotta dall’organismo, valutando il consumo di O2 (VO2), la produzione di CO2 (VCO2) e
l’eliminazione urinaria di azoto. L’ossigeno infatti viene utilizzato per l’ossidazione dei substrati energetici, mentre la CO2 è il prodotto di tali reazioni; il rapporto tra O2
consumato/CO2 prodotta è chiamato quoziente respiratorio (RQ). Il valore di RQ è
diversificato a seconda dei substrati, ovvero è 1 per i carboidrati, 0,707 per i lipidi, 0,809 per le proteine. Quando l’ossidazione riguarda i carboidrati il valore è 1 perché si
generano tante molecole di CO2 quante sono quelle di O2 consumato; generalmente in
fase post-prandiale prevale l’ossidazione glucidica quindi RQ si avvicina a 1, con il digiuno si avvicina a 0,707. Il quoziente respiratorio può risultare modificato in seguito alla formazione di corpi chetonici o nel caso di diabete (riduzione di RQ per utilizzo di substrati lipidici).
30 Le diete chetogeniche molto basse in carboidrati (VLCKD, Very Low Carbohydrate Ketogenic Diet) hanno posto dei dubbi in merito a modifiche del metabolismo basale a riposo e del quoziente respiratorio; soprattutto, non era noto cosa avvenisse al valore di RQ dopo il ritorno ad una dieta di tipo non chetogenico. Per questo motivo, sono stati paragonati gli effetti su REE e RQ durante 20 giorni di dieta chetogenica, di dieta mediterranea ipocalorica e nel periodo successivo alla fase chetogenica. Il trattamento con una dieta chetogenica di tipo mediterraneo è associato alla riduzione del quoziente respiratorio e aumento dell’ossidazione lipidica a riposo, senza alcuna modifica all’REE; chiaramente la modifica al quoziente respiratorio è in linea con il trattamento dietetico intrapreso. Invece, con la dieta ipocalorica di tipo mediterraneo non è stata osservata nessuna differenza.
Questo meccanismo potrebbe essere alla base della maggiore perdita di massa grassa e di peso registrata nel gruppo che seguiva tale regime dietetico; presumibilmente è riconducibile ad un miglioramento nell’ossidazione dei nutrienti, accompagnato da dimagrimento efficace e perdita di massa grassa. Questo effetto si è dimostrato durare oltre il periodo di dieta chetogenica, infatti anche dopo 20 giorni gli effetti perduravano. (8)
Come è stato detto nei capitoli precedenti, il problema del dimagrimento è il suo mantenimento nel lungo termine; il mantenimento può risultare difficile da raggiungere anche a causa dell’abbassamento del metabolismo a riposo, dovuto alla mancanza di massa magra per un inadeguato intake proteico; nel caso della dieta chetogenica, tuttavia, si è visto che questa non influenza il metabolismo basale, ma il suo effetto è limitato all’ossidazione lipidica, per cui si assiste alla riduzione del quoziente respiratorio. (5)
31
Effetto delle diete su soggetti diabetici tipo 2
Il diabete mellito tipo 2 (T2DM) è la più comune forma di diabete e si presenta generalmente dopo i 30-40 anni; è una malattia caratterizzata da una riduzione della secrezione o dell’efficacia insulinica. L’ormone insulina viene secreto dalle cellule β-pancreatiche in risposta ad un rialzo della concentrazione di glucosio nel sangue, come avviene in seguito ad un pasto. Quando la secrezione non è sufficiente o si sviluppa insulino-resistenza, il glucosio non viene internalizzato nelle cellule, rimane in circolo determinando una condizione di iperglicemia. Se l’iperglicemia perdura, si instaura una iperglicemia cronica e si parla di diabete; l’elevata concentrazione di glucosio in circolo può provocare gravi danni ad una serie di organi, principalmente occhi, reni, vasi sanguigni e a livello nervoso.
Come già accennato, una condizione caratteristica del diabete tipo 2 è l’insulino-resistenza, ovvero la mancanza di sensibilità dei tessuti nei confronti dell’ormone. L’insulino-resistenza è una condizione tipica dell’obesità, infatti l’associazione diabete – obesità è ormai nota da tempo; il rischio di diabete aumenta all’aumentare del BMI, suggerendo una serie di possibili meccanismi alla base.
I primi metodi di trattamento per T2DM consistevano nella restrizione della quota di carboidrati in maniera tale che si riducesse la richiesta di insulina. Negli anni ’70, gruppi di ricerca stavano sperimentando diete ad alto contenuto di carboidrati complessi o non raffinati, basse in grassi e ricche di acidi grassi polinsaturi e fibra. Questo genere di diete furono chiamate successivamente “high carbohydrate, low fat” e si rivelarono più efficaci per il controllo della glicemia rispetto a quelle basse in carboidrati; negli anni ‘80 infatti l’assunzione di fibre con la dieta era il consiglio standard nelle indicazioni per il diabete. Tuttavia, il crescente numero di casi di sovrappeso e diabete nella popolazione occidentale ha fatto pensare che la dieta non stesse funzionando o che non venisse seguita nel modo giusto, per questo motivo l’attenzione si è spostata verso altre tipologie di dieta in cui viene aumentata la quantità di proteine. In realtà, non ci sono evidenze sufficienti per consigliare diete basse in carboidrati a soggetti con diabete tipo 2. I risultati, infatti, supportano la teoria che differenti approcci dietetici possono risultare utili per il controllo glicemico, poiché questi approcci sono spesso restrittivi dal punto di vista calorico, per cui determinano una riduzione del peso. È proprio il calo ponderale ad influenzare il risultato finale, migliorando lo stato di salute. (4)
32 L’importanza del peso risulta anche da uno studio in cui sono state comparate tre tipologie di dieta: la mediterranea, la bassa in carboidrati e alta in grassi, l’iperproteica. I soggetti con iperinsulinemia, ma senza diabete, trattati con dieta iperproteica mostravano un miglioramento del controllo glicemico, mentre soggetti diabetici trattati con dieta bassa in carboidrati presentavano riduzioni della glicemia e dell’emoglobina glicata, anche se mancano studi sugli effetti nel lungo termine. Soggetti che seguivano la dieta mediterranea, mostravano una elevata aderenza alla dieta, presentavano una riduzione dell’emoglobina glicata e della glicemia post-prandiale (2 h). È stato evidenziato che non c’è un unico trattamento dietetico consigliato per il diabete ma l’unico approccio dietetico per questi soggetti è quello che funziona meglio per quel dato individuo e che gli permette di mantenere il peso nel tempo. (10)
L’interesse nei confronti della dieta mediterranea nel diabete 2 è nato in seguito allo studio PREDIMED (PREvención con DIeta MEDiterránea), in cui è stata studiata l’associazione tra la dieta mediterranea e il rischio cardiovascolare. La dieta mediterranea prevede una sostituzione parziale della carne rossa con pesce e pollame, il consumo moderato di vino, di olio d’oliva come grasso da condimento, molti vegetali, legumi, cereali, frutta e nocciole (frutta secca). È stato osservato che l’incidenza di diabete nel gruppo che seguiva la dieta mediterranea con aggiunta di olio d’oliva era del 10,1%, mentre nel gruppo che seguiva la dieta mediterranea con aggiunta di nocciole dell’11%, rispetto al 17,9% del gruppo di controllo. (10)
Una caratteristica dell’insulino resistenza è la mancanza di capacità delle cellule del muscolo scheletrico di captare il glucosio circolante, che viene quindi convertito a livello epatico in grassi, attraverso la lipogenesi de novo. Quando però l’intake di carboidrati è al di sotto della soglia utile per la conversione in grassi, i sintomi dell’insulino-resistenza regrediscono o addirittura scompaiono del tutto. Bistrian ha riportato che soggetti con diabete mellito tipo 2 in trattamento con dieta ipocalorica, bassa in carboidrati, presentavano una maggiore riduzione del peso e calo dell’insulina. Soggetti obesi con T2DM alimentati con dieta bassa in carboidrati riportavano calo della glicemia, dell’emoglobina glicata e miglioramenti nella sensibilità all’insulina. Il controllo glicemico quindi migliorava non perché arrivava meno zucchero, ma perché migliorava la sensibilità all’insulina a livello tissutale. (12)