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Differenza e (in)determinazione Idea e intensità

Differenza e (in)determinazione. Idea e intensità

Il pensiero è quel momento in cui la determinazione si fa una, a forza di sostenere un rapporto unilaterale e preciso con l’indeterminato. Il pensiero “fa” la differenza, ma la differenza è il mostro. […] Strappare la differenza al suo stato di maledizione sembra allora il progetto della filosofia della differenza254.

Il concetto di differenza emerge in tutta la sua cogenza nel problema della determinazione. Anche se non si risolve affatto in esso, anzi, si direbbe che lo lasci sussistere in quanto campo problematico, solo a partire da tale problema e dalla sua posizione centrale nel pensiero il concetto di differenza può assumere dei tratti intelligibili255. Ma, se la differenza riguarda la determinazione, essa stessa dovrà essere determinata in qualche modo. Il concetto di differenza, quindi, se pone il problema della determinazione in generale, ancor più profondamente pone il problema della propria determinazione. Ne consegue che la prima dipenderà dalla seconda, e non viceversa: la differenza è determinante soltanto nel modo in cui viene

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G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p.44.

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La questione della determinazione concettuale è piuttosto complessa. In essa, naturalmente, non si tratta solo di determinare il concetto in quanto tale, secondo la propria identità formale, ma anche, e più profondamente, di determinare la determinazione stessa in quanto aperta alla differenza. Quest’ultimo caso si riscontra in maniera canonica nella terza Critica di Kant, con le questioni del bello e del sublime, questioni alle quali non corrisponde affatto il concetto in quanto oggettivamente determinante: infatti, si parlerà di giudizio riflettente e non determinante. Cionondimeno, il problema kantiano riguarda sempre la determinazione, anzi, è proprio essa a diventare l’oggetto complesso della ricerca stessa. In breve, come si è cercato di mostrare nel capitolo sulla filosofia critica kantiana, si può riassumere la situazione della terza Critica dicendo che, paradossalmente, l’indeterminazione del concetto introduce un concetto di differenza, e più precisamente, la determinazione della genesi del concetto stesso secondo un esercizio paradossale delle facoltà. Di qui, la differenza pone sempre la questione di una genesi, e viceversa, ad una genesi nel pensiero corrisponde sempre un concetto di differenza.

essa stessa determinata. Un campo oggettuale, preso in sé, è insufficiente, in linea di diritto, a determinare il concetto. Solo il concetto è determinante e, quindi, esso può essere determinato soltanto da un altro concetto. È sotto questo aspetto che la differenza, assunta in quanto concetto, è e deve essere determinante. In quanto tale, essa allora deve essere del tutto originale. La differenza, quindi, deve determinare il concetto, ma, essa stessa concetto, deve anche essere determinata.

Se rimanessimo sul piano logico, qui avremmo da affrontare un regressus ad

infinitum. Per questo si è partiti dalla ripetizione, la quale ci pone immediatamente

nell’ordine dell’esistente256. Non si inizia se non ripetendo, ma ciò che la ripetizione porta avanti, ciò che in essa si porta avanti, non è che la differenza. Nel capitolo precedente abbiamo visto che, rapportata all’identità del concetto, la differenza appare come il suo limite non concettuale. Adesso, nel presente capitolo, si tratta di sviluppare meglio, attraverso il problema della determinazione, proprio il rapporto della differenza con l’identità del concetto, nonché la natura del tutto singolare del

concetto stesso di differenza e le sue modalità di esistenza ed espressione nel

pensiero filosofico che ad esso si vota, definendosi talvolta, appunto, come filosofia della differenza.

Ricondurre la differenza all’identità – cioè, risolvere il concetto di differenza entro una differenza concettuale – non rappresenta certo un momento accidentale del pensiero, bensì, al contrario, in questo tentativo bisogna scorgere un’esigenza specifica del concetto stesso in quanto tale. Infatti, il tentativo di fare del concetto di differenza una semplice differenza concettuale, prima di tutto rappresenta lo sforzo corrispondente alla volontà di salvare la differenza, cioè di farla essere in qualche modo, assegnandole il diritto di cittadinanza del concetto, anche se, come vedremo, in modo inevitabilmente limitante. La limitazione che la riguarda in quanto la assegna all’identità del concetto in generale, evidentemente è dovuta all’ambiguità di fondo che anima il concetto di differenza che, al tempo stesso, è determinante e indeterminata. Determinarla allora implica, almeno in un primo momento,

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Porre il concetto nell’ordine dell’esistente attraverso la ripetizione implica una modificazione interna al concetto stesso, e quindi, implica necessariamente una modificazione della sua identità. Afferma Deleuze: «La ripetizione non si limita a moltiplicare gli esemplari sotto lo stesso concetto, ma pone il concetto fuori di sè facendolo esistere in altrettanti esemplari hic et nunc, e frammenta la stessa identità, come Democrito ha frammentato e moltiplicato in atomi l’Essere-Uno di Parmenide» [G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 348].

qualificarla come una differenza concettuale, ma la sua natura paradossale sembra che contesti quseto uso dell’intelletto basato sul senso comune.

In quanto determinante, la differenza si rapporta all’indeterminato che, inizialmente, appare come indifferenza. Quest’ultima, in quanto indeterminata, indifferenziata, può manifestarsi, se così si può dire, come un mero indistinto, come «il nero niente, l’animale indeterminato in cui tutto è dissolto»257; ma essa può anche presentarsi sotto un altro aspetto: come una «superficie ridivenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate, come membra sparse […] [o come] occhi senza fronte»258. Nell’un caso come nell’altro, nell’indistinto indifferenziato come tutto o nelle determinazioni di parti slegate, si rimane ugualmente nell’indifferenza, poiché, se «l’indeterminato è del tutto indifferente, [è l’indifferente in sé] […] le determinazioni fluttuanti non lo sono meno le une rispetto alle altre»259. Ma, il rapporto della differenza con l’indeterminato non può essere puramente fattuale o estrinseco. Non è aggiungendo un elemento determinante all’indeterminato che si arriva a un determinato, né ad un processo di determinazione. Una tale concezione della determinazione ci costringerebbe a restare ancora nell’indeterminato delle parti sconnesse. La differenza deve differenziare dunque l’indeterminato secondo un suo principio intrinseco. Essa deve agire al suo interno generandolo e differenziandolo, dove per generazione e differenziazione bisogna intendere un unico movimento. Il rapporto della differenza con l’indeterminato è profondo, essenziale. Detto altrimenti, ciò significa che la determinazione non può essere concepita a un livello empirico, dove la differenza tra due cose – e quindi, tra due concetti differenti che le sussumono – non sarebbe che un dato di fatto; se così fosse, la stessa determinazione non sarebbe intrinseca alla cosa, ma ad essa estrinseca – ovvero, la differenza non sarebbe intrinseca al concetto che determina il proprio oggetto, ma si troverebbe ad essere una pura differenza di fatto tra due concetti già determinati. La determinazione come differenziazione deve invece essere pensata a un livello trascendentale, come ciò che vale di diritto: solo in questo modo essa può trovare il proprio principio. Quindi, se pensare la differenza significa pensare la determinazione, ciò significa anche che bisogna pensarla come un atto di genesi nel pensiero stesso, cosa che implica necessariamente una concezione della differenza non semplicemente come

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G. DELEUZE, Differenza e ripetizione (1968), cit., p. 43.

258

Ibid.

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differenza tra, ma, più profondamente, come differenza in. Così si esprime Deleuze a tal proposito:

La differenza «tra» due cose è soltanto empirica, mentre estrinseche sono le determinazioni corrispondenti. Senonché in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingua, eppure ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, senza cessare di essere fondo260.

Il fatto che non si abbiano delle difficoltà nel riconoscere la differenza come un dato empirico, inscrivibile nel concetto, in un campo già determinato da quest’ultimo, ne nasconde quindi un altro, ben più problematico, il quale consiste nella determinazione del concetto stesso di differenza. Se si vuole veramente affrontare la questione della determinazione del concetto di differenza – concetto a sua volta determinante –, il nostro sforzo non potrà non tener conto del rapporto fondamentale che la differenza in quanto tale intrattiene con l’indeterminato, giacché, è proprio come atto di determinazione dell’indeterminato che la differenza balena. Proprio in questo balenare della differenza come concetto determinante, ma, da una parte esso stesso ancora indeterminato e, dall’altra in un rapporto fondamentale con l’indeterminato inteso quale fondo che non si distingue da essa, l’intero campo concettuale diventa problematico. In questo senso, porre la questione della differenza in quanto tale vuol dire, quindi, restituirla al suo vivo fondo problematico e, al contempo, porsi immediatamente nel cuore del problema costituito. «Immediatamente» designa qui l’immediatezza come statuto della differenza in quanto genesi e, pensare tale genesi, comporta necessariamente una posizione del pensiero non ancora mediato. La rappresentazione deve ancora seguire. La stessa identità del concetto non può ancora presentare soluzione alcuna, poiché la determinazione del concetto di differenza pone quest’ultima in quanto problema. Difatti, se si pensa alla differenza tra due cose sotto il concetto dell’Identico, non solo essa appare solamente in quanto già mediata – invece di essere concepita come atto genetico –, ma anche si evita precisamente il problema della sua determinazione in quanto tale, presentandola, appunto, come già determinata.

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Pensare la differenza in sé, allora, prima di tutto vuol dire non sottometterla al concetto dell’Identico, cioè, pensarla in uno stato non mediato dalla rappresentazione la quale, assegnandole una determinazione che viene a configurarsi come differenza concettuale – e quindi, in ultima istanza, come identità concettuale –, cerca in realtà di scongiurarla. Sembra così che alla differenza nella sua dimensione originale e nel suo elemento paradossale si proponga logicamente e storicamente, come si vedrà in modo più concreto appena sotto, un’alternativa: o lasciarsi mediare dalla rappresentazione, divenendo in tal modo una differenza concettuale, la cui identità viene stabilita fondamentalmente dal senso comune e il cui uso corretto rimanda simmetricamente al buon senso, oppure lasciarsi assorbire in un non pensabile rappresentativo che viene ad essere la sua propria maledizione. La prima ala dell’alternativa non può essere condivisa da un pensiero che si appella alla differenza in quanto principio genetico, e quindi, in quanto vero elemento trascendentale e, come tale, determinante, giacché essa, nella misura in cui la sottopone all’identità del concetto indeterminato, ci restituisce un’ombra della differenza. D’altro canto, la seconda ala non rappresenta nessuna opzione positiva. «Strappare la differenza al suo stato di maledizione sembra allora il progetto della filosofia della differenza»261. La differenza dunque segna uno statuto problematico del concetto. Essa mette sotto scacco una certa forma del sapere e restituisce l’inquietudine al pensiero. Non cogliere la potenza di tale problema significa trattare la differenza come un’indagine isolata di fatto ed isolabile di diritto nel campo razionale, il quale si regge quasi interamente sul principio di identità – principio che si sviluppa e si dirama in altri suoi omologhi che al contempo fonda e implica come la rappresentazione e il riconoscimento, e che dà vita a figure e movimenti determinanti il pensiero come l’analogia nel giudizio, l’opposizione nella determinazione del concetto e la somiglianza dell’oggetto determinato da tale concetto, come si è visto nella prima parte del nostro lavoro. Nell’immagine del pensiero corrispondente al sapere razionale classico, è importante precisare che il principio di identità è assunto come forma del concetto indeterminato – cioè, l’identità del concetto è puramente formale –, mentre la rappresentazione quale procedimento essenziale della ragione è di per sé un’atto di mediazione. Rappresentare la differenza significa dunque mediarla, sottoponendola all’Identico – categoria base la quale fonda, sorregge e garantisce la

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legittimità della rappresentazione. «Si dirà che la differenza è “mediata”, nella misura in cui si giunga a sottometterla alla quadruplice radice dell’identità e dell’opposizione, dell’analogia e della somiglianza»262. Isolata dalla rappresentazione e determinata dall’Identico, la differenza non è più pensata come determinante in sé e per sé. Essa, da soggetto della determinazione diventa puro oggetto di rappresentazione. Una tale mediazione, lungi dal rappresentare il tratto genetico della differenza, la assume come generata dal e nell’Identico. In quanto determinata dall’identità formale del concetto, la differenza non sarà, anch’essa, che formale. Si comprende allora come una siffatta concezione della differenza la soffochi nella sua qualità di movimento generatore. Così qualificata, essa non può intervenire nel campo concettuale che a posteriori. Da costitutiva, essa diventa astratta, poiché non opera che formalmente in campi già costituiti dal principio di identità e articolati dalla rappresentazione, essa stessa costituita e mediata. Da limite del concetto in generale qual è, la differenza si trova ad essere del tutto inscritta in una pura differenza concettuale.

Al contrario, pensare la differenza come genesi del pensiero stesso significa pensarla al di là di ogni mediazione, ovvero, non coglierla come differenza tra due dati, ma come differenza in sé, in sé differente. Abbiamo detto che l’Identico designa la forma del concetto indeterminato da determinare, quindi, la determinazione attraverso la rappresentazione si svolge sotto tale forma di identità. Cogliere la differenza al di là di ogni mediazione implica dunque coglierla al di qua, ossia coglierla prima che la forma dell’Identico – in una fondamentale non corrispondenza – ne qualifichi il concetto. In altre parole, si tratta di pensare il concetto della differenza senza ridurla a una semplice differenza concettuale, la quale ne limiterebbe di molto la portata e l’importanza singolare. O, ancora, non coglierla sotto l’Identico, ma coglierla prima di qualsiasi identità formale, giacché, come si è visto nel precedente capitolo e come si vedrà meglio in seguito, la differenza è originaria e quindi, costituente l’identità stessa. Allora, si comprende che la

maledizione della differenza non consiste tanto nel come è stata rappresentata,

quanto consiste, invece, prima ancora, nell’essere stata rappresentata, da una parte, e al tempo stesso nell’essere l’elemento irrappresentabile per eccellenza del pensiero, dall’altra. In tal senso, la sua maledizione è duplice, poiché ne va della questione

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dell’ordine trascendentale medesimo. Tornando all’alternativa di sopra, risulta che o la differenza è determinata dall’identità del concetto e articolata nella rappresentazione, divenendo così empirica, oppure che essa, di per sé, non può essere assunta come il vero elemento trascendentale. Solo che ci si rende conto della falsità di tale alternativa, poiché in entrambi i casi che essa presenta, non ci si muove dallo stesso punto di vista che la formula, e cioè, non si esce dal punto di vista del principio d’identità e dal pensiero in quanto rappresentativo.

L’irrappresentabilità di cui si tratta qui è dovuta all’effetto primario della differenza che è quello di dissolvere le forme generando così dei «mostri». Come si è detto sopra, ciò è dovuto al fatto che la differenza come determinazione si rapporta continuamente e in maniera fondamentale all’indeterminato, a ciò che di indeterminabile vi è per il concetto di identità, a ciò che di indeterminabile vi è in tale concetto stesso. Infatti, come atto genetico, la differenza si presenta come ciò che di indistinguibile vi è nel distinto, come il fondo che, risalendo alla superficie, ne scompone la forma. Solo posta in questi termini, sui quali Deleuze insiste, la differenza trova la propria espressione a un tempo trascendentale e immanente. In questo rapporto essenziale con l’indeterminato che essa porta con sé, la differenza si attua in maniera violenta, facendo risalire in superficie il fondo stesso del pensiero, la sua stupidità, quindi, la sua genitalità.

Il fondo che risale non è più al fondo, ma acquista un’esistenza autonoma; la forma che si riflette nel fondo non è più una forma, ma una linea astratta che agisce direttamente sull’anima. Quando il fondo sale alla superficie, il volto umano si scompone in questo specchio in cui l’indeterminato come le determinazioni vengono a confondersi in una sola determinazione che «fa» la differenza263.

Ma se il fondo è l’indeterminato che risale e le forme sono le varie determinazioni che vi si confondono, qual è questa unica determinazione che «fa» la differenza? Il fondo, emergendo, acquista un’esistenza propria; la forma non ne rimane certo indifferente: essa, come se si contaminasse, si dissolve, si trasforma ed acquista una potenza di affetto. Fondo e forma, in quanto l’uno e l’altra si confondono, perdendo così la loro identità fissa, trovano la propria determinabilità nel pensiero che pensa la differenza nel suo rapporto essenziale con l’indeterminato. È il pensiero che sfiora la

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propria dissoluzione, quindi, che porta in sé il momento della determinazione. «Il pensiero è quel momento in cui la determinazione si fa una, a forza di sostenere un rapporto unilaterale e preciso con l’indeterminato»264. È il pensiero, non ancora qualificato come griglia concettuale, ovvero, in quanto pensiero non ancora categoriale, dunque, che «fa» la differenza. In esso, non solo il fondo, ma anche la forma esige la propria determinazione attraverso questo movimento del fondo medesimo che rimescola e attraversa tutto, cosicché è nel suo rapporto con il fondo che sale, cioè con quel fondo di indeterminatezza che ogni forma porta implicitamente in sé, che essa trova la determinazione come sua possibilità propria. Bisogna allora pensare il fondo che sale come la dimensione originale di ogni forma determinata, come la potenza che ne determina la manifestazione. In questo senso si definisce il fondo come ciò che di indistinguibile vi è nel distinto. Dietro il determinato troviamo sempre l’indeterminato sul punto di determinarsi, dietro ogni forma la trasformazione. Ogni forma o elemento porta con sé il fondo da cui si distingue, ma il fondo stesso non si distingue da essi: in questo senso diciamo che si porta il proprio fondo. Questo è il «peccato» della differenza: far salire il fondo dissolvendo la forma; la ragione per la quale essa appare come maledetta. Vediamo così che la differenza è la determinazione originale dove il determinato e l’indeterminato sono ancora in un rapporto essenziale l’uno con l’altro, e tale rapporto è una «linea rigorosa astratta che trova alimento nel chiaroscuro»265. Quindi, la mostruosità della differenza consiste non solo nell’impossibilità di assegnarla ad un ambito già determinato, materiale o formale che sia, essendo essa una linea astratta o un rapporto fondamentale che attraversa i termini rimescolandoli, ma anche nel dissolvere l’assegnabilità degli ambiti stessi, per cui, essa non solo non è assegnabile al fondo, né alla forma, ma nemmeno il fondo stesso e la stessa forma sono più assegnabili ciascuno a sé, in quanto il primo, emergendo, non è più al fondo del fenomeno, così come la forma non può non dissolversi nel rapporto col fondo che la trasforma. È proprio il rapporto essenziale del determinato con l’indeterminato in cui consiste e si sviluppa la differenza, che fa di quest’ultima una linea mobile, inafferrabile, del fondo, un fondo-che-sale, e della forma, una trasformazione. Tale è la «crudeltà» della differenza, la crudeltà che attraversa il pensiero. Essa mina il

264

Ibid.

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generale nel concetto e ne spezza l’identità formale per lanciare solo delle singolarità e per lanciarsi a sua volta unicamente in esse.

Come si può intuire da quanto detto fin qui, il rapporto della forma col fondo riguarda il problema del fondamento. Determinare un tale rapporto significa fondarlo. D’altronde, il fondamento risponde propriamente al problema della determinazione – determinazione del pensiero nel vero attraverso, appunto, il fondamento. Il fondamento, quindi, è l’istanza primaria del logos, ossia ciò che

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