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Filosofia e storia della filosofia

La storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella filosofia, e anche nel pensiero. […] Un’immagine del pensiero che si chiama filosofia si è costituita storicamente ed impedisce alla gente proprio di pensare34.

La storia della filosofia non è una disciplina particolarmente riflessiva, assomiglia piuttosto all’arte del ritratto in pittura. Si tratta di ritratti mentali, concettuali. Come in pittura, bisogna farli somiglianti, ma con mezzi dissimili, differenti35.

La produzione di Deleuze nell’ambito della storia della filosofia è notevole, sia per la quantità di scritti che vi si annoverano sia per la centralità che vi occupano a livello concettuale. Infatti, sono memorabili le monografie dedicate a Nietzsche, Spinoza, Bergson, ma anche a Kant e a Hume e, in un senso più particolare e sfumato, a Leibniz. In special modo i testi su Nietzsche e Bergson segnano anche un rigenerarsi dell’interesse generale nei confronti di questi autori – un po’ abbandonati in quegli anni – nel panorama filosofico francese e oltre, ponendosi, in qualche modo, come vere e proprie (ri)letture iniziatiche, discusse, criticate, ammirate, ma che sicuramente hanno il grande merito di aver risvegliato la curiosità e l’innovazione di pensieri filosofici che si consideravano, secondo l’allora gusto

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G. DELEUZE, C. PARNET, Conversazioni (1977), trad. it. di G. Comolli e R. Kirchmayr, Ombre Corte, Verona, 1998, p. 19.

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dell’epoca, oramai superati36. Nel contesto generale degli interessi degli allora giovani filosofi, che vertevano per lo più sulla fenomenologia, su Heidegger, su un certo Hegel, ma anche su Marx, su Freud, quando non sull’epistemologia in generale, nel crinale che si andava costituendo e che avrebbe contrapposto frontalmente di lì a poco lo strutturalismo all’esistenzialismo alla Sartre, risulta a dir poco sorprendente il gusto filosofico di Deleuze in materia di autori già passati alla storia37. Vi si nota una provocazione, in questo contropiede intrapreso nel bel mezzo di un attacco generale che, apparentemente, portava altrove, ma anche una lezione proficua. Una tale scelta implica l’innovazione concettuale come necessariamente intrinseca alla rilettura delle filosofie classiche e, perciò stesso, una concezione innovativa della storia della filosofia medesima. Ma procediamo per gradi.

In questo capitolo la nostra intenzione non è quella di mettere a fuoco qualche testo particolare di Deleuze in ambito storico-filosofico, né vorremmo occuparci di qualche ricostruzione contestuale degli interessi specifici del nostro nei riguardi di concetti dei filosofi su elencati – se non in qualche caso, più che altro a titolo esemplificativo: piuttosto, nell’economia funzionale al tema dell’immagine del pensiero, vogliamo concentrarci sulla posizione – filosofica in senso teoretico – di Deleuze nei confronti della storia della filosofia in quanto tale, cioè come disciplina del pensiero filosofico che lui stesso ha esercitato in maniera originale. In primis, tale originalità consiste nell’aver fatto storia della filosofia da filosofo. Così, la storia della filosofia nella sua intenzionalità costitutiva verrà chiarita in rapporto alla filosofia come pensiero creativo.

Già di per sé, a un livello di pura riflessione teorica, confrontare la filosofia come un esercizio originale del pensiero e la storia della filosofia come una ricostruzione di tale pensiero, che necessariamente sottintende ed implica l’individuazione di concetti

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Se su Nietzsche, pressappoco negli stessi anni ‘60, si andava formando un interesse originale in autori come Klossowski, Foucault, Derrida – per nominarne soltanto alcuni – che comunque saluteranno più o meno tutti l’apparizione di Nietzsche et la philosophie (1962), particolarmente esemplare a questo riguardo appare invece la scelta di Bergson da parte di Deleuze, che allora era davvero caduto nel dimenticatoio generale, essendo considerato uno spiritualista ormai di vecchio stampo. Sul contesto della “Nietzsche renaissance” e il ruolo giocatovi da Deleuze rimandiamo a: F. DOSSE, Gilles Deleuze et Félix Guattari. Biographie croisée, Éditions La Découverte, Paris, 2007, pp. 159-167. Allo stesso testo rimandiamo per quanto riguarda le ricostruzioni del contesto storico concernenti il testo di Deleuze dedicato a Bergson (pp. 167-176).

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Sul panorama del pensiero filosofico francese del XX secolo cfr: V. DESCOMBES, Le même et

l’autre. Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Cambridge University Press et Les

Éditions de Minuit, Paris, 1979, e anche il più recente F. WORMS, La philosophie en France au XX

e linee di articolazione che si privilegiano e si approfondiscono secondo una inflessione in certa misura nuova, come una messa in luce, come un evidenziare qualcosa non del tutto esplicitata in origine – se non si vuole ripetere alla lettera il già detto – ci pone all’interno di un rapporto stratificato, attraversato da una serie di operazioni complesse. Di fronte a una posizione nei confronti del merito del pensiero che si va elaborando, che sia il proprio o quello altrui, avanzare una questione di metodologia in senso stretto ci sembra riduttivo. Forse, prima di tutto, bisognerebbe trovare quel punto specifico eppure mai chiaro, quella soglia di risonanza che, non permettendo più di distinguere nettamente le due voci entrate in gioco – quella propria e quella altrui, appunto – permetta, al contrario, l’avvio di una interpretazione o di una sperimentazione – nei casi più spinti – del pensiero cui ci si rivolge, trovando una comune spersonalizzazione, approdando così a un impersonale si pensa che, parafrasando lo stesso Deleuze, sarebbe lo splendore del pensiero medesimo38. Detto in altri termini ancora, si tratta sempre di piegare e dispiegare, sforzi questi che rendono possibile il pensiero: il pensiero dell’uno nell’altro e viceversa, ma anche e soprattutto il pensiero come tale, sempre terzo, a patto che giunga a un nuovo piano problematico dove avanza nuove consistenze concettuali.

Naturalmente, ci sono vari modi di piegare e dispiegare39. Ma piegare e dispiegare è pensare, e si pensa solo in questo esercizio congiuntivo-disgiuntivo dove ci si pone necessariamente. In questo senso, pensiamo che non ci sia una differenza significativa nel gesto filosofico di Deleuze storico della filosofia e Deleuze filosofo originale, giacché in entrambi i casi l’autorialità viene a cristallizzarsi come una particolare piega del pensiero che porta la sua cifra. Tuttavia, pur non sostenendo una divisibilità del gesto filosofico deleuziano, è ovvio che il problema qui posto deve essere trattato nella sua specificità, sia vista in rapporto alla tradizione che alla posizione peculiare che ne assume Deleuze.

Più nello specifico, il tema verte sull’analisi di una eventuale delineazione di un

rapporto nel rapporto, ossia esso si concentra sulla posizione, come dire, diretta e – si

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Cfr: G. DELEUZE, Lettera a un critico severo (1973), in ID., Pourparler, cit., p. 15: «Dire qualcosa a proprio nome è un fatto molto curioso; perché non è affatto nel momento in cui ci si ritiene un io, una persona o un soggetto che si parla a proprio nome. Al contrario, un individuo acquista un vero nome proprio al termine del più severo esercizio di spersonalizzazione, quando si apre alle molteplicità che lo attraversano da parte a parte, alle intensità che lo percorrono».

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A questo proposito, cfr: J-L. NANCY, Piega deleuziana del pensiero, «Aut Aut», 276 (1996), pp. 31-38.

suppone – in sé distinguibile che Deleuze assume e sviluppa nei confronti della storia della filosofia. Da una parte, l’espressione positiva di un proprio pensiero filosofico, in quanto individuabile come tale, già implica una posizione implicita nei confronti del pensiero filosofico in generale, mentre l’individuazione e la trattazione di quello studio specifico della tradizione, che assume il titolo di storia della filosofia, dall’altra parte, dovrebbe implicare tanto l’esplicazione del proprio porsi nei confronti di essa quanto la tematizzazione di un metodo – di un atteggiamento filosofico – che vi è alla base. Questo studio specifico della tradizione ha quindi una doppia valenza: tanto l’oggetto di studio quanto lo studio stesso si caratterizzano come storia della filosofia, cioè a dire che essa non si studia se non facendola al tempo stesso – e in tal senso, ogni filosofia è storica. Ma, riguardo a Deleuze, la questione così formulata risulta esser posta davvero nel modo giusto? A rigor di termini, si può davvero sostenere l’esistenza di un filone propriamente storico- filosofico, individuabile in quanto tale, nel suo pensiero? Se sì, quali sono i suoi veri moventi? Se no, in che cosa si rende indistinguibile o, al limite, distinguibile e tuttavia indiscernibile dal resto del suo pensiero? È indubbiamente un dato di fatto che Deleuze abbia dedicato diverse monografie a diversi filosofi, ma è tale dato di fatto sufficiente ad autorizzarci la sua considerazione come più o meno autonoma? Inoltre, la stessa scelta di momenti determinati nella storia del pensiero filosofico va considerata come adeguatamente e sufficientemente omogenea da poter ragionevolmente sostenere una sua identità tematica, o, piuttosto, essa sarebbe meglio comprensibile come un’eterogenesi della filosofia di Deleuze medesimo? La coerenza di tale supposto filone nella riflessione deleuziana – se di coerenza si può parlare – è dovuta ai filosofi stessi, divenuti oggetto di ricerca, o è dovuta per lo più a una coerenza immanente di un pensiero deleuziano già formato? D’altronde, così come si è rivolto ai filosofi, Deleuze ha fatto altrettanto con scrittori, pittori, cineasti, ecc.: vi è una differenza sostanziale, tipologica, tra i ricorsi, o essi sono ugualmente assimilabili all’intercessione e al suo ruolo fondamentale in quanto aprente le possibilità del pensiero? Ora, non intendiamo rispondere direttamente a queste domande, esaminandole una ad una: piuttosto, vogliamo considerarle come costitutive di un gesto filosofico che cercheremo qui di trattare, a partire dalla tematizzazione dei termini del rapporto, vedendo se in tal modo si crea o meno una

configurazione genetica del rapporto di Deleuze con la storia della filosofia, e come essa si determini nei confronti dell’immagine del pensiero.

Se si vedono i filosofi cui si è diretta l’attenzione di Deleuze nei suoi studi monografici – ad eccezione di Kant, forse, di cui ci occuperemo in modo specifico sotto –, è difficile attribuire a loro un qualche cosa in comune, che sia individuabile come tale in ciascuno di essi. Ognuno profondamente originale, sembra che si ponga nei confronti degli altri più nella modalità del non-rapporto che del rapporto. Eppure, in Deleuze, questi filosofi – in particolare la triade Nietzsche, Bergson, Spinoza – funzionano come un vero e proprio concatenamento. Evidentemente, prima di tutto, essi saranno accomunati dallo stesso Deleuze a partire da una loro distinzione da, una differenziazione da. Ecco come si esprime lo stesso Deleuze a tal proposito: «Io […] ho “fatto” storia della filosofia […] preferendo autori che si opponevano alla tradizione razionalista di quella storia (e tra Lucrezio, Hume, Spinoza, Nietzsche c’è, per me, un legame segreto, costituito dalla critica del negativo, la cultura della gioia, l’odio dell’interiorità, l’esteriorità delle forze e delle relazioni, la critica del potere… ecc.)»40.

Sono, questi elencati sopra e altri ancora sottintesi, dei tratti che accompagneranno tutto il pensiero di Deleuze. In prima istanza, evidentemente, si tratta di prendere una posizione nei confronti del modello maggiore della tradizione metafisica, più precisamente, nei confronti dell’immagine de pensiero che essa produce e su cui poggia al tempo stesso. Tale posizione è una posizione contro. In seconda istanza, questa posizione contraria, in particolare nei confronti del negativo e del potere, non potrebbe formularsi come tale, cioè come contrapposizione frontale, dal momento che così facendo, ne diventerebbe inevitabilmente parte di. Allora, bisogna moltiplicare le linee, attraversare le articolazioni differenti che percorrono tale tradizione, ma in quanto differenti, segnando cioè una differenza interna e aprendo un’alternativa positiva dal di dentro. Si tratta, insomma, di creare alleanze, di pensare

con. In terza istanza, queste alleanze dovranno collegarsi tra di loro attraverso una

linea esterna mobile – punto di vista di chi li allea – che le faccia prolungare e operare nell’orizzonte filosofico attuale, appunto, come possibilità effettiva, rinnovata e differenziata, secondo l’immagine di un innesto. Se, in generale,

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scorgiamo un’affermatività di fondo nelle scelte storico-filosofiche di Deleuze, la terza istanza, nella propria operatività in atto, dovrà evidentemente essere considerata come l’affermazione dell’affermatività, la sua propria rivendicazione.

Denunciare una determinata immagine del pensiero; creare alleanze (intercessori); affermare il pensiero in quanto affermativo: sono questi i tre imperativi che attraversano tutta l’opera di Deleuze. Allora, a livello di principio, non si può effettuare una distinzione intrinseca tra le sue monografie e i suoi testi propri. A questo punto, si fanno avanti due linee che si intrecciano tra di loro, ma che andrebbero chiarite separatamente per evitare una possibile confusione, anche se tale separazione è da considerare una pura esigenza metodologica, visto che, nella sostanza, esse rimandano continuamente l’una all’altra. D’altronde, una separazione simile, sempre per una questione di metodo, sembra suggerircela lo stesso Deleuze, in quanto egli stesso la adopera quando ricapitola la propria attività filosofica. Da una parte possiamo considerare e avvicinare i suoi studi monografici – eccezion fatta per Leibniz – all’arte del ritratto in pittura, o anche alla timidezza nell’affrontare da subito il colore in pittura, come ci suggerisce lui stesso, parlando dei grandi coloristi41. In tal senso, come giustamente si è sostenuto, si può parlare di questi studi come di un apprendistato42. D’altronde, le monografie sembrano già contenere virtualmente una buona parte della batteria concettuale di Deleuze filosofo, e che ci possano offrire una loro genesi, un loro apparire in divenire.

Da una parte, cioè, ci si trova davanti a un pensiero che si esercita su un altro pensiero già esistente e che viene a configurarsi come un fondamentale apprendere, più che come un sapere. L’apprendimento come tale, opposto al sapere che ci restituisce le proprie verità secondo una logica del riconoscimento e secondo una dicotomia del vero e del falso, si presenta come un punto centrale metodologico e come una posizione eticamente rivendicata dell’intero pensiero filosofico di Deleuze. Esso si discosta dalla verità e falsità intesi come valori supremi in vista dei quali si articola e si esercita il giudizio, per focalizzarsi sulla nozione stessa di valore e quella di senso, intesi come le vere istanze trascendentali del pensiero – o anche come

paideia dell’individuo che pensa –, e quindi anche del falso e del vero in quanto

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Cfr. L’abécédaire de Gilles Deleuze (con C. Parnet), 3 DVD, Éditions Montparnasse, Paris, 2004, lettera I come Idea.

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M. HARDT, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, trad. it. di E. De Medio, a cura di G. De Michele, a-change, Milano, 2000.

risultati e non principi di tale esercizio. L’apprendere implica fondamentalmente come proprio elemento l’Altro, l’alterità, il divenire-altro, svolgendosi sempre al di là della rappresentazione e del riconoscimento. Infatti, non si apprende per imitazione, riproducendo tale quale il modello, ma per differenziazione, producendo inconsciamente la somiglianza. Non si apprende «facendo come», ma si apprende «facendo con». Nel pensiero vi è sempre una dimensione eterogenea, più profonda e più importante rispetto a quella omogenea su cui si stabilizza il sapere. «Apprendere non è se non la mediazione tra non-sapere e sapere, il passaggio vivente dall’uno all’altro»43. In tal modo, esso implica un metodo intuitivo che, per quanto complesso, si oppone a quello ricognitivo44.

Dall’altra, i concetti e le problematiche trattate nei testi così detti di storia della filosofia, soprattutto quelli precedenti la produzione originale di Deleuze, si prolungano senza contraddizione nei suoi testi successivi, pur apparendo più consistenti e posti questa volta per sé. Solo che, nei primi, tali concetti sono ancora in qualche modo avvolti da una specie di nebbia, propria ai momenti concentrati di genesi che li partoriranno, tale per cui diventa difficile l’attribuzione di paternità del concetto stesso. Ma come già detto in precedenza, il pensiero nasce nel più severo esercizio di spersonalizzazione, in questo caso, di una doppia spersonalizzazione, da cui diventa possibile quella particolare forma di articolazione spesso chiamata

discorso libero indiretto. È proprio in questa zona indecidibile che i concetti

dispiegano le proprie virtualità e, quindi, anche le proprie congiunzioni. Partiamo dalla trattazione di quest’ultima linea.

Sempre riferendosi alla storia della filosofia, nella lettera già citata, Deleuze scrive:

Il mio modo di cavarmela, a quell’epoca, consisteva soprattutto, almeno credo, nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che poi è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e di fargli fare un figlio, che fosse suo e che tuttavia fosse mostruoso. Che fosse davvero suo, era importantissimo, perché occorreva che l’autore dicesse effettivamente tutto ciò che gli facevo

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G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, cit., p. 215.

44

È Alain Badiou che sviluppa l’argomento di un metodo intuitivo di impronta bergsoniana in Deleuze. Si veda: A. BADIOU, Deleuze. «Il clamore dell’essere», trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino, 2004, pp. 36-48. Sempre sulla delineazione di un possibile metodo di Deleuze, si veda anche: A. VILLANI, La guêpe et l’orchidée. Essai sur Gilles Deleuze, Éditionss Belin, Paris, 1999, pp. 53- 64.

dire. Altrettanto necessario era però che il figlio fosse mostruoso, perché occorreva passare per ogni tipo di decentramenti, slittamenti, rotture, emissioni segrete che mi hanno procurato non poco piacere. Il mio libro su Bergson è per me esemplare sotto questo aspetto45.

I decentramenti, slittamenti, ecc., di cui parla Deleuze, ci inducono a porre qualche concetto che li dispieghi, fermo restando che essi devono trasformare senza espropriare il contenuto che decentrano e fanno slittare. Partiamo proprio dal

concetto. La filosofia crea dei concetti. «Ogni concetto ha un contorno irregolare,

definito dalla cifra delle sue componenti. È per questo che, da Platone a Bergson, si ritrova l’idea che il concetto sia una questione di articolazione, di ritaglio e di accostamento. È un tutto, […] ma è un tutto frammentario»46. In quanto tale, esso è suscettibile di modificazioni interne (endoconsistenza) e di modificazioni esterne (esoconsistenza) nella misura in cui viene concatenato con altri concetti con i quali risuona. Questa natura complessa del concetto si può anche esprimere – usando altri due termini deleuziani fondamentali – parlando di un suo lato attuale e un altro lato

virtuale. Infatti, è grazie alla sua virtualità che esso non si esaurisce mai del tutto nel

suo aspetto attuale, rimanendo sempre capace, in potenza, di subire differenziazioni, o anche di produrle. È la capacità propria del concetto di produrre novità, come se vi fosse in esso una riserva nascosta di senso, in grado di avanzare sul già fissato. Parliamo allora di una virtualità del concetto e la sua differenziazione la chiamiamo (ri)attualizzazione. Inoltre, il concetto – e anche la sua (ri)attualizzazione – si pone e/o si effettua in quanto risponde a un problema.

Il problema, secondo Deleuze, è ciò che, in qualche modo, rimane nascosto, o non del tutto esposto nelle trattazioni filosofiche. Esso è però l’istanza che dona una necessità e un’originalità al concetto che gli (co)risponde. A partire da un concetto manifestato, bisogna dunque individuare il problema che in esso è implicitamente posto, e proprio in base a tale problema va analizzato il concetto medesimo. Anche se si tratta di una coppia imprescindibile – secondo la concezione filosofica di Deleuze – i cui termini non possono funzionare separatamente, il problema e il concetto in quanto tali appartengono a ordini differenti: uno è latente, l’altro patente, l’uno è imperativo, l’altro esplicativo, il primo appartiene a un orizzonte interrogativo e si pone come domanda e/o come questione, il secondo cerca di

45

G. DELEUZE, Lettera a un critico severo, in ID., Pourparler, cit., pp. 14-15.

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svilupparlo nella propria positività e si pone come una risposta locale, suscettibile di mutare. Proprio la differenza d’ordine fra i due termini fa di questo rapporto un orizzonte mobile, da cui diventano possibili le varie riattualizzazioni dei concetti in base alla variazione del senso che pone il problema (senso problematico). Si possono considerare i problemi, infatti, come una prova di selezione attraverso la quale devono passare i concetti per trovare il proprio elemento genetico della loro verità47. La selettività dei temi trattati da Deleuze nei suoi scritti storico-filosofici si

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