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Le differenze tra il sistema industriale italiano ed anglosassone ai fini del

2. Le politiche di Diversity Management in Italia, un confronto con il mondo

2.2 Le differenze tra il sistema industriale italiano ed anglosassone ai fini del

Le teorie di diversity management, che si possono trovare in letteratura, sono studiate in funzione del mondo anglosassone, che si discosta molto da quello italiano dal punto di vista normativo, economico, sociale e culturale. Questo significa che le aziende italiane per introdurre le politiche di diversity management, non possono applicare in pieno questi modelli, ma ne devono creare di nuovi, anche partendo da quelli già esistenti. I modelli anglosassoni si basano su due realtà molto significative che in Italia troviamo raramente, ovvero:

La prevalenza di public companies : La prevalenza delle aziende anglosassoni sono delle public companies, ovvero di grandi dimensioni, quotate in borsa e con un azionariato diffuso, a differenza del contesto italiano in cui oltre il 95% delle aziende sono medio-piccole. Questo significa che sono sempre alla ricerca di un equilibrio di governo, perché hanno una forte visibilità pubblica, un esteso gruppo di portatori di interesse, una funzione strutturata per la gestione delle risorse umane, personale eterogeneo ed esteso, anche, a livello manageriale. In queste aziende le politiche di diversity management devono essere ben integrate alle strategie aziendali ed hanno bisogno di risorse economiche, umane e relazionali significative per essere portate in essere in modo efficace, ovvero raggiungere un elevato grado di comunicazione sia internamente, che esternamente all’azienda.

La presenza di vincoli normativi :Nei contesti anglosassoni esistono molte leggi che tutelano i lavoratori stranieri, introducendo delle quote di assunzione obbligatorie per le aziende. Questo non vuol dire che le aziende si occupino, necessariamente di diversity management, perché le leggi in sé, portano allo sviluppo, obbligatoriamente, di politiche di pari opportunità. Le quote obbligatorie non sono sufficienti ad introdurre il diversity management, perché non c’è la certezza che le aziende sviluppano percorsi di carriera specifici per i lavoratori con un alto rischio di marginalità sociale.

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Il contesto italiano, come dimostrano molti studi empirici, trova delle caratteristiche molto diverse dal mondo anglosassone e in particolare (Visconti, 2007):

La logica di network management:Le teorie tradizionali, quando si parla di diversity management, affrontano il problema mettendo al centro di questo l’impresa stessa. In Italia, invece, questo non avviene, perché il problema è affrontato da più soggetti e si creano vere e proprie negoziazioni tra: impresa, sindacati, associazioni dei consumatori fornitori, le aziende clienti, le istituzioni pubbliche, la collettività e gruppi locali con cui l’azienda interagisce per la sua posizione geografica. Per esempio l’IKEA di Sesto Fiorentino, ha accompagnato l’inserimento di lavoratori stranieri con una serie di serate interculturali, che attraverso la visione di film sul tema dell’immigrazione e l’assaggio di piatti delle varie tradizioni, hanno permesso un miglior inserimento della manodopera straniera. Ulteriori iniziative sono state promosse in tutta Italia, tra le aziende, che hanno intrapreso queste politiche ci sono: IKEA di Roma, Ascoser di Milano (cooperativa di assistenza agli anziani), Naga (associazione non profit per immettere sul lavoro gli immigrati), Confindustria Veneto. Le motivazioni del diverso approccio sono molte tra cui: le scarse risorse finanziarie, che incentivano la cooperazione tra imprese, il forte peso sociale dei sindacati, soprattutto quando si parla di stranieri, associazioni industriali di settori, il coinvolgimento dello stato, che ha radici storiche, anche se, le politiche pian piano vanno verso la sussidiarietà, ovvero lo stato deve dare le basi e le condizioni per tali politiche, ma non le deve perseguire in prima persona, ovvero devono essere le imprese ad progettarle.

Prevalenza della PMI:Come già detto in precedenza il tessuto imprenditoriale italiano è prevalentemente medio-piccolo, e questo ha molte ripercussioni organizzative tra cui: La scarsa probabilità di avere una strutturata gestione delle risorse umane, un numero non elevato di lavoratori stranieri, tale, da giustificare politiche di diversity management, mancanza di competenze specifiche sulla valorizzazione delle risorse umane, scarse disponibilità finanziarie, una bassa cultura aziendale sulla diversità, ecc.. Il ruolo delle donne in Italia: La posizione delle donne nel mercato del lavoro è marginale, perché rispetto ai contesti anglosassoni e europei ha un tasso di occupazione molto basso. Inoltre, guardano le percentuali di queste che ricoprono ruoli direzionali la situazione è ancora più allarmante. Da segnalare che la situazione, da circa quindici anni, sta cambiando per i mutamenti sociali del contesto italiano, in quanto la

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concezione di famiglia e il ruolo della donna in questo ambito è stato rivalutato, soprattutto per l’aumento del livello di istruzione di questa. In Italia il tema delle donne è stato affrontato, per la prima volta, con la legge 1207 del 1971 per tutelare le lavoratrici madri. Successivamente sono state introdotte ulteriori norme in particolare la legge 203 del 1977 per la parità sul lavoro tra uomo e donna e la legge 125 del 1991 per favorire il passaggio culturale da parità a pari opportunità. Si può dire che sono state le prime politiche di diversity management in Italia e da queste sono nate le altre leggi a tutela delle ulteriori diversità, come la disabilità con la legge 68 del 1999 “norme per il diritto al lavoro dei disabili” in cui si incentiva ad una collaborazione fruttuosa tra disabile, datore di lavoro e servizi per l’impiego per superare le barriere all’entrata del mercato del lavoro.

Assenza di normativa per lo straniero: Questo comporta, da un lato la maggiore probabilità che si creino politiche di diversity management, per l’assenza stessa di norme che incentiverebbero politiche di pari opportunità, e dall’altro lato il rallentamento dei processi di implementazione delle politiche stesse. Inoltre l’assenza di norme aiuta lo straniero a migliorare la propria immagine, perché non nasceranno processi retorici di uguaglianza nei suoi confronti.

Profili bassi per i lavoratori immigrati: Il lavoratore straniero, tipico, è giovane con un’elevata flessibilità e mobilità lavorativa, e ricopre mansioni con scarse prospettive professionali e poco motivanti (operai generici, edili, settore alberghiero). Questo profilo è diverso da quello che presuppone in origine il diversity management, perché questo nasce per gestire e valorizzare i soggetti che ricoprono ruoli manageriali. Questo implica che sono soggetti facilmente reperibili sul mercato del lavoro e quindi decadono le motivazioni economiche del diversity management.

Il forte ruolo dei sindacati: In Italia, i sindacati hanno sempre avuto, e continuano ad avere, una forza rilevante nelle contrattazioni tra aziende e lavoratori. Questa forza è ancora più forte quando si parla del lavoratore straniero, perché ben il 45% della forza lavoro straniera è iscritta ad un sindacato, contro il 27% di quella italiana (2004). Questo implica che lo straniero si senta messo in disparte nella società italiana, ricerca nel sindacato uno strumento di tutela e che è un soggetto consapevole che vive nel mercato del lavoro a fronte degli scarsi servizi che la quotidianità li offre. Da segnalare che, spesso, i sindacati vanno oltre la sola rappresentanza e offrono servizi di assistenza

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sociale e orientamento ai cittadini stranieri. I sindacati svolgono un ruolo molto importante, per le politiche di diversity management, perché devono garantire un trattamento paritario dei soggetti del mercato lavoro, anche se questo implica un trattamento differenziato per alcune categorie per eliminare i gap di trattamento esistenti. Tali differenze non devono essere visti come trattamenti discriminatori dai soggetti che non usufruiscono di tali servizi, ma come strumenti per bilanciare le condizioni lavoratori delle varie categorie.

I modelli di governo delle migrazioni e di inclusione sociale: In Italia le politiche sull’immigrazione riguardano principalmente il contenimento dei flussi di ingresso, il controllo dei confini e delle acque territoriali, l’espulsione dei clandestini. In passato questa linea di governo è stata criticata, incentivando politiche di diverso tipo, ovvero di tutela sui luoghi di lavoro per ridurre le irregolarità presenti e il lavoro nero (Boeri & Fasani, 2004). Successivamente le richieste di intervento furono diverso e in particolare verso l’integrazione dei lavoratori stranieri con quelli italiani (Bonetti, 2007). Questa nuova visione porterebbe la politica sull’immigrazione da contenitiva a valorizzatrice nei confronti del cittadino straniero presente sul territorio italiano, anche se ancora non esiste una politica ben strutturata a riguardo. La nuova visione inclusiva dei lavoratori stranieri deve essere affrontata velocemente per vari motivi tra cui: la crescita veloce del fenomeno, per aumentare il coinvolgimento dei lavoratori stranieri e attuare processi di empowerment, necessità di norme chiare e strutturate per la tutela del lavoratore straniero, soprattutto perché le aziende non riescono a capire come valorizzare i cittadini stranieri, pur capendo i benefici che questo porterebbe alle loro aziende in termini di vantaggio competitivo. Questa politica deve essere intrapresa anche se in altri contesti, applicando modelli non coerenti con le situazioni locali non hanno portato ottimi risultati (Francia, Olanda, UK, Germania, ecc..).

La forte dinamicità delle imprese etniche: Il cittadino straniero non deve essere visto come semplice lavoratore, ma sul territorio italiano è presente anche come imprenditore. I cittadini stranieri che hanno intrapreso quest’avventura sono soprattutto cinesi, egiziani, albanesi, rumeni, marocchini. Da aggiungere, che l’imprenditorialità straniera è uno dei motivi della marginalità del lavoro straniero, perché le realtà lavorative non offrono un’adeguata crescita professionale e retributiva. La situazione è confermata da alcune interviste agli stessi lavoratori, in cui l’88% dei soggetti si dichiara felice dei risultati intrapresi, ma per l’87% non consiglierebbe ai propri figli di seguire la loro

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strada. Per quanto riguarda le politiche di diversity management, in questi casi, si devono pensare ulteriori modelli di implementazione di tali politiche per le ulteriori particolarità che verrebbero riscontrate.

2.3 Dall’Affirmative Action al Diversity management, il percorso statunitense