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Le caratteristiche organizzative della PMI

2. Le politiche di Diversity Management in Italia, un confronto con il mondo

2.1.1 Le caratteristiche organizzative della PMI

La definizione di PMI non è univoca, dal punto di vista letterario e normativo. Questo genera un certo grado di soggettività quando si analizza il fenomeno. Esistono varie classificazione sulla materia, sia quantitative sia qualitative. Per esempio in Italia, per la normativa vigente, sono quattro. La prima classificazione si riferisce all’articolo 2083 del codice civile, in cui “ si definisce piccolo imprenditore il coltivatore diretto del fondo, l’artigiano, il piccolo commerciante e coloro che esercitano un attività professionale organizzata con il lavoro proprio o della propria famiglia ”. La seconda classificazione si riferisce alla legge fallimentare in cui si dice che è esclusa dalle

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procedure concorsuali il piccolo imprenditore e per tale si considera colui che nei tre esercizi precedenti al fallimento ha un attivo e dei ricavi lordi per un ammontare, rispettivamente, almeno di 300.000 e 200.000 euro e un ammontare di debiti, anche non scaduti, almeno di 500.000 euro. La terza classificazione fa riferimento ai parametri per la facoltà di redazione del bilancio abbreviato, ovvero sono obbligate alla redazione del bilancio coloro che hanno un ammontare di attivo e di fatturato, rispettivamente pari ad almeno 4.4 milioni, 8.8 milioni di euro e un numero di dipendenti almeno di 50. L’ultima classificazione è di matrice europea e in particolare nasce con la raccomandazione della commissione europea 2003/361/CE in cui si considerano piccole imprese, quelle con un numero di dipendenti inferiore a 50, medie con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249 e grandi quelle che superano i 250 dipendenti. Non esistono solo parametri normativi, ma possono nascerne di ulteriori per fini analitici, spostando così il grado di soggettività verso l’alto. La piccola dimensione è caratterizzata da una struttura organizzativa elementare, dove le figure manageriali non sono sempre presenti e l’apporto dell’imprenditore è molto forte in tutti gli ambiti gestionali. I rapporti con i dipendenti sono informali e i criteri di reclutamento e selezione del personale sono soggettivi e spesso poco validi (si va per conoscenze e sensazioni personali). Inoltre le risorse finanziarie sono scarse e spesso non esistono strategie formalizzate, anche dal punto di vista formativo. La gestione si focalizza su una visione di brevissimo periodo e si concentra su aspetti fiscali, ovvero nell’imprenditore si genera quella miopia manageriale che lo fa concentrare su aspetti operativi e non strategici che sono fondamentali per la crescita economica, e la creazione del valore per il cliente, attraverso il soddisfacimento dei suoi bisogni. Ulteriori svantaggi della piccola dimensione sono l’incapacità di gestione dei processi di internazionalizzazione che sta subendo l’ambiente competitivo, non solo in termini di mercati di sbocco, ma anche dal punto di vista della forza lavoro e il mancato accesso alle commesse pubbliche per motivi di capacità produttiva. La piccola dimensione non ha solo svantaggi,ma anche dei vantaggi e in particolare: la nascita di rapporti informali crea coesione e senso di appartenenza tra i soggetti e l’azienda. Inoltre la nascita di procedure non convenzionali che possono essere fonte di vantaggio competitivo, anche se spesso non è riconosciuto come tale (Padroni, 2007). Si può dire che le PMI sono paragonabili a “ laboratori organizzativi “ per quanto appena detto. Altri vantaggi da ricordare sono : il maggior controllo direzionale da parte dell’imprenditore che consente di perseguire in modo più mirato gli obiettivi aziendali, senza che i manager perseguano

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prima i propri e poi quelli organizzativi (come è avvenuto in molte aziende di grandi dimensioni, in cui i manager stessi speculavano sull’azienda stessa come nei casi Parmalat, Cirio, Enron, ecc..), la maggiore celerità di risposta al mercato per la vicinanza degli operatori allo stesso che genera nell’azienda la capacità di interpretazione e gestione dei cambiamenti ambientali in modo più contingente e veloce, la maggior efficacia delle politiche di diversity management, perché più specifiche e più attente ai bisogni dei singoli. Questo aspetto è molto importante, perché farà in modo che anche i benefici che nasceranno saranno maggiori rispetto alle politiche intraprese nella grande dimensione. L’unico aspetto delle politiche di diversity management negativo è la necessità di ingenti risorse finanziarie che come detto è uno degli svantaggi della PMI. Questo problema, come quello dell’internazionalizzazione dei mercati e del mancato accesso alle commesse pubbliche, possono essere risolti attraverso la nascita di rapporti di collaborazione tra le aziende stesse. Ai fini del diversity management dovranno essere trovati dei piani strategici comuni, e in particolari gli argomenti da trattare, le modalità di svolgimento, la gestione delle risorse comuni. La visione della PMI in letteratura è molto discussa e trova pareri discordanti, da un lato il lato il paradigma della matrice nord americana e dall’altro quella europea. La prima considera la PMI come la fase embrionale prima di raggiungere lo stato di grande azienda. Alla teoria nord americana è collegata quella ecologica delle popolazioni, in cui avviene una selezione naturale tra le aziende che si trovano nell’ambiente competitivo. Quindi per questa teoria la PMI va a morire. Nelle fasi espansive dell’evoluzione aziendale, l’azienda dovrà adeguare la propria struttura organizzativa alle necessità gestionali, focalizzando l’attenzione su molti aspetti, ogni volta in relazione alla fase evolutiva che sta attraversando. A tal proposito è da segnalare il modello Kroeger, in cui si evidenziano i 5 stadi evolutivi e in funzione di questi il ruolo dell’imprenditore, le qualità manageriali, le capacità fondamentali richieste e l’ enfasi funzionale.

- 61 - Le fasi del ciclo di vita dell’azienda in relazione alle peculiarità organizzative secondo Kroeger. ( Fonte: Rielaborazione di Zifaro, 2010)

ciclo di vita Avvio Sviluppo Espansione Maturità Declino Ruolo Fondatore/ Pianificatore/ realizzatore amministratore Successore/

Imprenditore Inventore Organizzatore Riorganizzatore

Qualità Innovazione Organizzazione Leadership Coordinamento Agente del

Manageriali Indipendenza Programmazione Delega Ricerca dell' Cambiamento Fiducia in sé Valutazione scelte Motivazione efficienza Propensione al

Propensione Contrattazione e rischio

al rischio assunzioni Ricerca dell'

Immaginazione Decisioni efficienza

Capacità Percettive e Analisi Budgeting Relazioni Percettive e

fondamentali Concettuali Relazioni P&C interne concettuali

richieste interpersonali Relazioni Budgeting

Esterne interne controllo rel.

interne

Enfasi Tecnologia Finanza Marketing Marketing Tecnologia

Funzionale Nuovo prodotto Finanza Finanza

Processo

Servizio

La Teoria nord americana è stata un modello di riferimento fino agli anni ’70, in cui in seguito alla crisi petrolifera e del modello burocratico applicato sistematicamente nella grande dimensione, vide il suo declino, perché l’elevato grado di burocrazia e accentramento decisionale al vertice non era più contingente alle dinamiche ambientali. Uno dei motivi che hanno causato la crisi del modello è stata sicuramente la globalizzazione dei mercati, ovvero l’abbattimento delle barriere fisiche, temporali e culturali, che hanno portato in breve tempo all’aumento della competitività e della complessità gestionale di questi. In questo scenario trovò successo l’approccio europeo in cui si enfatizzava la flessibilità organizzativa e gestionale della PMI, che non era più considerata una fase evolutiva dell’azienda, ma una vera e propria tipologia aziendale che riesce ad essere competitiva sui mercati, soprattutto in quelli altamente competitivi e complessi. I limiti dimensionali, come detto prima, possono essere superati da una crescita qualitativa della stessa, ovvero attraverso la creazione di collegamenti interorganizzativi più o meno forti per creare dei rapporti di collaborazione. Tra i più diffusi ci sono: le partnership, in cui le parti collaborano dal punto di vista commerciale (Organizzazione di eventi di settore, vendita in stessi punti vendita, ecc..); le

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comakership, in cui si stipula un rapporto cliente-fornitore, ma che va oltre la tradizionale concezione, perché le parti collaborano tra di loro per trovare l’input più idoneo per l’azienda richiedente; i codesign, in cui le aziende mettono in comune i propri know-how per la produzione di un output che soddisfi il cliente finale.

2.2 Le differenze tra il sistema industriale italiano ed anglosassone ai fini del