Senza dubbio, il carattere dell’immigrazione italiana subì un drastico mutamento nel corso degli anni ottanta dell’Ottocento, allorché cominciarono ad arrivare negli USA, a decine di migliaia l’anno, esuli di origine contadina. Nell’ultimo quarto di secolo, dal 1876 al 1900, nonostante la maggior parte dell’immigrazione transatlantica fosse diretta in Sud America, gli Stati Uniti accolsero circa 800.000 italiani. Inoltre, come già accennato, i primi quindici anni del XX secolo segnarono il culmine dell’immigrazione italiana: circa tre milioni e mezzo di italiani sbarcarono negli Stati Uniti, in gran parte a Ellis Island, la cosiddetta Golden Door, anche se il tasso di rimpatrio dagli USA, in questi anni, si mantenne alto, corrispondente circa al 50%. Principalmente, come si è visto, si trattava di immigrati temporanei, in maggioranza giovani,
maschi e di origine contadine, anche se tra di essi era presente una significativa minoranza di artigiani, ma pochissimi erano comunque coloro che avevano un’istruzione o che possedevano un capitale proprio. E’ opportuno ricordare, inoltre, che i quattro quinti circa degli immigrati italiani provenivano dal Mezzogiorno, in particolare dalla Calabria, dalla Campania, dall’Abruzzo, dal Molise e dalla Sicilia, mentre il 20%, di essi, corrispondente a circa 900.000 persone, proveniva dal Centro e dalle regioni del Nord Italia.65
Dalla maggior parte di questi esuli, l’emigrazione veniva vista come un‘esperienza non definitiva, il cui scopo principale era guadagnare più dollari americani possibili, con cui estinguere debiti e comprare terreni. Disinteresse a imparare l’inglese, lento tasso di naturalizzazione, resistenza all’assimilazione sono tutti aspetti del fenomeno che possono essere compresi soltanto se ricondotti alla mentalità propria dell’emigrazione temporanea.66
Dal punto di vista lavorativo, risultavano essere pochi gli immigrati che, nell’entrare in contatto con un’economia industriale fortemente sviluppata, potevano vantare un’esperienza di occupazioni non legate all’agricoltura. All’interno della forza lavoro americana, gli italiani che sopraggiungevano venivano considerati dai datori di lavoro e dagli altri lavoratori come manodopera di secondo ordine, venendo esclusi per anni da impieghi che
65 Cfr. R. J. Vecoli, “L’arrivo negli Stati Uniti”, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, et al,
Verso l’America, cit., p. 110.
richiedessero minime capacità tecniche, e relegati a compiere lavori di bassa manovalanza. In generale, per l’appunto, gli italiani venivano impiegati come manodopera non qualificata nella costruzione e nella manutenzione di ferrovie e fognature, oppure venivano a volte utilizzati, e sfruttati, allo scopo di scavare tunnel, scaricare merci dalle navi e costruire città.67
Effettivamente, capitava spesso che gli italiani, e i siciliani in particolare, venissero esclusi da paghe più alte e da lavori migliori, non solo a causa della loro mancanza di capacità tecnica, ma anche a causa di un certo pregiudizio razziale che si diffuse in maniera massiccia presso la popolazione americana. Anche emigrati con una certa istruzione e discrete capacità professionali furono costretti ad impugnare il piccone e la pala, dal momento che, nelle acciaierie, negli stabilimenti di inscatolamento della carne, e nelle fabbriche tessili, i datori di lavoro americani preferivano agli italiani non solo i lavoratori anglofoni, ma anche gli immigrati slavi. In tal proposito, Rudolph Vecoli sottolinea che:
Anche come lavoratori non qualificati, gli italiani del Sud erano all’ultimo posto nelle preferenze dei sopraintendenti alla costruzione di ferrovie, che segnalavano la loro bassa statura e la loro mancanza di forza. Un’altra ragione addotta era “il loro insuperabile spirito di clan che porta un’intera squadra ad andare via quando uno di loro viene trattato male”. Nondimeno, alla fine del secolo XIX, gli italiani cominciarono a rimpiazzare gli irlandesi nei lavori di squadra per la costruzione delle
ferrovie e nell’edilizia. […] Nel 1900, circa metà degli italiani presenti in USA erano impiegati come lavoratori comuni; e questa percentuale restò praticamente immutata fino alla prima guerra mondiale. A causa della sua propensione alla mobilità, e della sua forzata disponibilità a subire forme intense di sfruttamento, l’italiano pala-e-piccone divenne una figura tipica del mondo del lavoro americano.68
A causa delle prevalenti origine contadine, gli italiani giunti in America dimostravano di non essere preparati ad affrontare un paese tumultuoso e brutale come erano gli Stati Uniti agli inizi del XX secolo. In aggiunta all’ignoranza dell’inglese, e spesso anche dell’italiano, dal momento che parlavano generalmente in dialetto, gli immigrati italiani mostravano una marcata incapacità di comprensione degli elementi basilari della vita quotidiana all’interno di un ambiente urbano industriale che li rendeva fragili e vulnerabili. Bisognosi di lavoro, di alloggio e di consigli, spesso si rivolgevano ad un paesano, cioè a qualcuno che conosceva un po’ di inglese e trasformava i bisogni dei suoi interlocutori in un’attività redditizia, mentre il
padrone o boss fungeva da mediatore fra gli immigrati disorientati ad un paese
che appariva così estraneo. Il cosiddetto padrone, in qualità di agente di lavoro, procurava squadre di lavoratori alle compagnie ferroviarie e agli appaltatori, mentre come mediatore politico scambiava i voti dei lavoratori con posti di lavoro nelle opere pubbliche. Divenuto depositario dei risparmi dei lavoratori,
e spesso per tal motivo soprannominato banchista, richiedeva di solito il pagamento di un onorario, facendosi pagare a caro prezzo l’alloggio, il cibo, i vestiti e gli utensili. Tale “sistema padronale” coincideva perfettamente con gli interessi dei datori di lavoro americani, dal momento che costituiva per essi un metodo estremamente redditizio per assumere ed impiegare centinaia di migliaia di lavoratori italiani, che contribuivano alla grande stagione dei lavori edilizi, divenendo così un punto di forza dello sviluppo economico locale.69
Risulta significativo il fatto che dopo pochi anni di occupazione in lavori saltuari, molti emigrati ritornassero in Italia, mentre altri provavano ad assicurarsi un’attività più stabile; ad esempio, la scarsità di forza lavoro durante la prima guerra mondiale accelerò l’integrazione degli italiani nel proletariato industriale. Non a caso, gli italiani divennero una parte consistente della forza lavoro negli stabilimenti tessili a Patterson, nel New Jersey e a Lawrence nel Massachusetts, nei laboratori di abbigliamento a New York, Chicago e Philadelphia, negli stabilimenti metalmeccanici del New
England, e nei laboratori di lavorazione dei sigari di Tampa in Florida. Gli italiani del Sud costituivano una presenza significativa nel campo
dell’estrazione del carbone, mentre gli italiani del Centro e del Nord rappresentavano la maggioranza nelle miniere di ferro e rame del Lago Superiore e delle Montagne Rocciose. Una minoranza di immigrati
specializzati, superando i pregiudizi dei datori di lavoro e l’opposizione dei sindacati, riuscivano anche a praticare il loro mestiere originario: sarti, barbieri, calzolai, tagliapietre, scalpellini, mosaicisti e stuccatori: in determinate occupazioni e in determinati contesti, essi costituivano addirittura l’élite della forza lavoro.70
A differenza dei contadini irlandesi, quelli italiani una volta stabilitisi definitivamente, mostrarono grande iniziativa imprenditoriale. La loro ambizione era di essere lavoratori autonomi, cioè di diventare i capi di se stessi e di mettere su un “bizness”. Inoltre, gli italiani immigrati disdegnavano il cibo “americano”: chiedevano pasta, olio d’oliva, pane “vero”, pesce e verdura. Man mano che il loro numero aumentava, cresceva anche il numero di importatori e produttori locali di alimentari italiani che cercavano di rispondere alla crescente domanda. Gli immigrati, specialmente quelli che erano arrivati dalla Liguria e dalla Sicilia, raggiunsero ben presto una posizione dominante nella vendita di frutta all’ingrosso e al dettaglio, mentre i pescatori, spesso provenienti dalle stesse regioni, salpavano con le loro navi dai moli di Boston, San Francisco e di altri porti americani. Certamente, l’approvvigionamento di cibo e bevande costituì la strada del benessere per molti italo-americani; ma altrettanto certamente, un effetto duraturo dell’emigrazione italiana è stato quello di educare il palato e i gusti degli
americani. Tuttavia, il successo negli affari non era sempre il frutto di duro lavoro e di acume commerciale. Il lato nascosto dell’economia delle Little Italies era anche abbondantemente costituito dalla gestione dei racket, dal controllo monopolistico di certi beni di consumo, dalla continue e violente rese dei conti con clienti e lavoratori, e persino dall’eliminazione fisica dei concorrenti. L’attività criminale divenne essa stessa un’importante forma d’impresa, e insieme ai contadini e agli artigiani, arrivarono dall’Italia anche personaggi provenienti dai margini della borghesia: preti falliti, bancarottieri, truffatori e ladri. Nei casi migliori, tali individui diventarono giornalisti, insegnanti, impiegati, notai, e persino pastori protestanti. Nei casi meno virtuosi divennero invece dei “padroni”, estorsori e criminali temuti e senza scrupoli.71
La cosiddetta mano nera e la mafia, furono infatti alcuni dei prodotti più negativi ed eclatanti di questo complesso contesto sociale. In effetti, pochi furono gli italiani che perseguirono il sogno di diventare “agricoltori americani”: il futuro degli immigrati italiani si trovava nelle grandi città e nei piccoli centri industriali, dove furono vittime di vari pregiudizi e molteplici stereotipi. Complice la mentalità dell’agricoltore piccolo proprietari terrieri americani, lo stereotipo degli italiani abitatori di catapecchie divenne un’ulteriore fonte di pregiudizio, mentre, dagli anni ’80 dell’Ottocento in poi, le Little Italies cominciarono a spuntare come funghi in tutti gli Stati Uniti.72
71 Cfr. Ibid. p. 114. 72 Cfr. Ibid. p. 115.