Nonostante quanto finora detto, come sottolinea Antonino Checco, nel quadro regionale complessivo, caratterizzato da sostenuti incrementi
16 Cfr. Ibidem. 17 Cfr. Ibid. p. 22.
demografici e da varie migrazioni interne, l’emigrazione siciliana di fine Ottocento non assunse la fisionomia e le proporzioni di massa che comunemente vengono attribuite a tale fenomeno. Infatti, su 100 italiani che in quegli anni lasciarono il paese, i siciliani furono soltanto nel numero di 4-5. In termini comparativi, dunque, i flussi in uscita verso l’estero furono contenuti e comunque molto al di sotto sia delle medie assolute che di quelle relative alla popolazione, rispetto ad altre regioni quali Veneto, Piemonte, Campania e Calabria. Le province maggiormente investite dal fenomeno furono quelle della Sicilia centro-occidentale: Palermo (51%) ed Agrigento (14,7%), che da sole annoverarono tra il 65 e il 66% dell’intera emigrazione siciliana del periodo, mentre Messina, in una situazione di sostanziale contenimento del fenomeno in tutto il resto della regione, fu la sola provincia della Sicilia orientale che registrò medie di un certo rilievo (circa il 6% delle partenze dell’intera regione), le quali, tuttavia, rapportate alla popolazione presente nella provincia stessa, si abbassano al 6-7%, nonostante risultino essere in ogni caso decisamente superiori alla corrispettiva media regionale.18
I dati statistici esposti, seppure significativi, non dicono tuttavia molto sulla qualità dell’emigrazione siciliana, né spiegano se fosse soltanto il latifondo cerealicolo-pastorale a costituire il serbatoio dell’emigrazione e il battistrada che ha aperto il varco alla diffusione progressiva ed omogenea
18 Cfr. A. Checco, “L’emigrazione siciliana, i luoghi e le comunità di partenza.”, cit.,
delle partenze sul territorio. Significativamente, nella provincia di Palermo il primo dato che emerge con evidenza è la precocità (dal 1882) e l’omogeneità territoriale dell’emigrazione nei suoi quattro circondari (Palermo, Corleone, Termini e Cefalù), che spesso investì in pari proporzioni i comuni costieri e i comuni dell’interno, nei quali cui la resistenza a partire si manifestò più fortemente che altrove, nonostante essi appartenessero a delle zone agrarie dove il latifondo riguardava oltre il 50% della proprietà fondiaria. Ancora più stridente risulta tuttavia la contraddizione nelle province, nei circondari e nelle zone agrarie dove le partenze per l’estero nell’ultimo ventennio del secolo furono più contenute. Ad esempio, nella provincia di Messina, è fuor di dubbio che il comprensorio “milazzese”, caratterizzato da una prevalente agricoltura viticola e arborea, registrò tassi di emigrazione pari al “mistrettese”, la sola zona della provincia messinese a regime fondiario e ad ordinamento colturale di tipo nettamente latifondistico, con oltre il 55-60% della superficie concentrata in proprietà superiori ai 200 nettari.19
Sempre nella provincia messinese, le partenze per l’estero registrate negli anni ottanta e novanta dal “circondario di Messina” (comprendente il capoluogo, Milazzo e le aree costiere ionica e tirrenica ad agricoltura intensiva e con una popolazione pari al 47,1% di quella provinciale) ammontarono ad oltre il 61% dell’intera provincia, che pure annoverava nel suo territorio le
zone agrarie interne dei monti Nebrodi, dell’alta valle del Simeto, dei versanti tirrenico ed etneo dei monti Peloritani e anche della zona del “mistrettese”.
La prevalenza delle partenze dai distretti e dai comprensori più “moderni” del messinese è confermata dalle percentuali relative al rapporto emigrati-popolazione che risultano dalle analisi statistiche: nel “mistrettese” essa si mantenne intorno al 4%, contro il 10% del circondario di Messina. Inoltre, nella fascia costiera tirrenica, e più precisamente nelle zone di pianura e nei Comuni di grandi dimensioni, come Barcellona Pozzo di Gotto (oltre 20 mila abitanti), in cui esistevano l’agricoltura ortiva, della vite e dell’olivo e un regime fondiario di piccole-medie proprietà, le percentuali degli emigrati risultano superiori a quelle dei comuni di montagna, come Novara di Sicilia e Tortorici, comune cerealicolo-pastorale con oltre 10 mila abitanti che nelle statistiche dell’emigrazione entrerà soltanto nei primi anni del Novecento.20
Tali statistiche, sinteticamente esposte e certamente meritevoli di considerazioni e verifiche più sistematiche, intendono semplicemente sottolineare la necessità di superare il paradigma latifondo-emigrazione. Se infatti è fuor di dubbio che nella fase dell’avvio del fenomeno le province maggiormente investite per quantità e precocità, Palermo e Agrigento, risultano essere quelle a prevalente struttura latifondistica, è anche vero che affiorano situazioni locali più complesse, contraddittorie e comunque
rivelatrici dell’esistenza di cause non univoche dell’emigrazione. Nelle grandi città, superiori a centomila abitanti, Messina può senz’altro essere annoverata tra i Comuni dove le partenze per l’estero, rispetto alla popolazione presente, assunsero un certo rilievo quantitativo già dalla seconda metà degli anni Ottanta, tali da attestarsi su percentuali superiori alle medie della provincia. Non dissimile si rivela la situazione di Milazzo, cittadina che per strutture produttive e mercantili (il porto) più si avvicina al capoluogo. La media delle partenze negli ultimi quindici anni del secolo fu di gran lunga superiore a quella provinciale (11,1 contro 6,4). Ciò si spiega non solo con il dato dell’alta concentrazione di popolazione, di gran lunga superiore agli altri Comuni del circondario, e per essere città-scalo dei piroscafi transoceanici, ma anche per le difficoltà crescenti che investivano alcuni settori dell’artigianato locale (calzolai, barbieri, sarti), del tessile (operai), della marineria e della pesca, del commercio al minuto (merciai) e del lavoro domestico, e, in altre parole, di tutto quell’universo di mestieri in ambito urbano che non era ormai in grado di resistere ai processi di modernizzazione indotti dalla rivoluzione commerciale e dal mercato dei prodotti manufatti.21
Come infatti specifica puntualmente Checco, a proposito dei vari dati statistici:
Le partenze e i paesi di destinazione erano, comparativamente ad altre regioni italiane, ancora contenuti entro una gamma di opzioni che fotografano nitidamente la natura sociale del fenomeno nella sua fase
d’avvio: contadini colpiti (per i cattivi raccolti e per la diminuzione del prezzo del grano e del vino) nella loro capacità di cumulare redditi di varia natura e provenienza […] e per le concomitanti difficoltà del commercio d’esportazione dello zolfo; marittimi e pescatori, colpiti dalla crisi della navigazione a vela e dalle limitazioni della pesca nelle coste africane […]; operai attratti dai lavori pubblici e dalla possibilità di colonizzazione e di cessione delle terre dei governi magrebini; contadini, piccoli proprietari e coloni […] allettati dagli alti salari e dalla crescente offerta di lavoro nelle città e nelle pianure delle Americhe […]; trafficanti e mercanti […] che avvertono irresistibile il fascino del “tentar miglior fortuna” altrove. 22
Come si può intuire, il quadro risulta essere molto composito e certamente coinvolgente soggetti provenienti da situazioni e “mondi” diversi, non tutti assimilabili ad una condizione di miseria endemica e di crisi senza ritorno. A dimostrazione di ciò, possono essere citati numerosi casi di emigrazione temporanea e programmata nelle stagioni di flessione del lavoro bracciantile, tra un raccolto e l’altro. Inoltre, vi sono anche casi di emigranti che partirono da soli con qualche più o meno sostanzioso risparmio, per far fronte agli imprevisti tipici del viaggio e per avviare delle attività autonome.23