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La Digital Public History e il nuovo rapporto con il pubblico

Paragrafo 3. Digital Public History.

A seguito delle considerazioni fatte fino a questo momento, dovremmo avere ormai una chiara idea di che cosa sia la Digital Public History. Occuparsi di storia pubblica, attingendo anche alle risorse digitali, non significa solamente interagire con il pub- blico e includerlo nel processo di costruzione del discorso storico. Sarebbe ridutti- vo definire la disciplina come “la storia fatta per e con il pubblico”, come avvolte si cerca di sintetizzare. Ciò che distingue veramente lo storico pubblico dal resto del panorama accademico è il suo essere al servizio della comunità e la complessità della dimensione civica legata alla sua professione: il lavoro che egli svolge nei centri di ricerca o nelle università trova applicazione oltre i confini della torre d’avorio in cui lo storico spesso si chiude, per abbracciare nuove pratiche sociali che si appoggiano alla capacità delle memorie locali di farsi globali; il public historian è il custode del- la memoria individuale e collettiva, colui che raccoglie sul territorio testimonianze dirette e oggetti sociali, ricollega i frammenti di ogni singola memoria e li riconte- stualizza all’interno dei prodotti comunicativi più adatti. È una pratica bottom-up nel momento in cui il pubblico viene coinvolto direttamente nella fase di produzione, ma è allo stesso tempo anche una pratica top-down perché non prescinde dall’autorità scientifica, che guida sempre la narrazione. Non potendo limitarsi ad una definizione operativa, vista la complessità del fenomeno, Noiret illustra dettagliatamente le carat- teristiche della disciplina.

Public History è discesa della storia nell’arena pubblica, confronto

con pubblici diversi, ed uso sistematico, per farlo, dei media di comunicazione di massa: la radio, la televisione, la rete per fare storia. Inoltre, la Public History porta anche la storia ed i problemi storici nella società intesa con le sue variegate sfaccettature. La Public History è anche fruizione di discorsi storici per diletto culturale, ma esprime anche la volontà di molti soggetti che si situano al di fuori dell’ambiente universitario, di capire più in profondità i problemi del presente alla luce della loro storia. È una pratica scientifica della storia e dei metodi storici, è soprattutto la capacità di offrire una profondità analitica agli eventi da

contestualizzare e da documentare con le fonti; si tratta con il metodo storico di rendere più problematica l’analisi degli eventi. È anche fare la storia di alcuni eventi contemporanei per conto di datori di lavoro pubblici e privati fuori dell’università stessa. Si tratta infine di investire sulla memoria non soltanto usando le tecniche di conservazione delle fonti della contemporaneità, ma anche costruendole in ambiti virtuali (radio, televisione, fotografia, rete) o ‘fisici’ (quando si pianificano parchi storici, musei e monumenti commemorativi), che immettono la storia nel quotidiano e introducono nella vita pubblica delle società la ricerca delle loro identità passate102.

Lo storico pubblico abbandona la torre di avorio anche perché, per potersi mettere completamente al servizio della società, si allontana sempre più spesso dalle aule accademiche per accettare committenze private, come sottolinea lo stesso Noiret. Se non mantenesse un saldo contatto con la realtà che lo circonda, lo storico pubblico non sarebbe in grado di rispondere alle necessità effettive del presente che è chiamato invece a soddisfare in ragione del ruolo civico da lui ricoperto: la conoscenza appro- fondita del passato è sempre e comunque funzionale alla risoluzione dei problemi presenti.

Prende parte ai lavori di allestimento di mostre, musei e varie istituzioni culturali rea- lizzando prodotti comunicativi innovativi, come illustra ad esempio Enrica Salvadori. In materia di visualizzazione dei dati storici, uno campo sempre più spesso battuto da musei ed altri enti culturali è la modellazione tridimensionale di oggetti o edifici di rilevanza storica, archeologica, architettonica o artistica103. I beni culturali in que-

stione sono in molti casi danneggiati o erosi dal tempo, nei peggiori dei casi andati perduti, ma grazie alla riproduzione virtuale possiamo accedere ad un’appropriazio- ne del passato nuova e coinvolgente. Solitamente si distingue tra l’acquisizione 3D104,

quando l’oggetto che si vuole modellare esiste ancora e viene riprodotto utilizzando dati estrapolati con fotografie o scanner, e la ricostruzione 3D, quando invece l’ogget- to non esiste più o esiste solo in parte e se ne vuole dare una ricostruzione digitale

102 S. Noiret, “Public History” e “storia pubblica” nella rete, in Francesco Mineccia e Luigi Tomassini (a cura di), “Media e storia”, numero speciale di “Ricerche storiche”, anno XXXIX, n°2-3, maggio-dicembre 2009, pp. 277-278.

103 E. Salvadori, Digital (Public) History: la nuova strada di una antica disciplina, in “RiMe - Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea”, n°1/I n.s., dicembre 2017, pp. 57- 94 (la rivista è elettronica ed è reperibile in http://rime.cnr.it/2012/index.php, consultato il 27 aprile 2018).

104 Si veda il caso del progetto CENOBIUM, che consiste nella modellazione 3D (che ha come base la fotografia digitale) di capitelli romanici sparsi in diverse zone dell’area me- diterranea ma riuniti in virtuale per essere confrontati ed esaminati nel dettaglio (http:// cenobium.isti.cnr.it/).

completa105. Entrambe le tecniche possono essere impiegate dai public historians che

vogliano costruire percorsi di visita museale interattivi e virtuali, per meglio intera- gire con il pubblico nel frangente di momenti partecipativi appositamente studiati (come all’interno del participatory museum di Nina Simon), o anche soltanto una sezione del sito internet a cui gli utenti possano accedere in qualsiasi momento. Si tratta di progetti che necessitano di risorse e finanziamenti cospicui per poter es- sere prima realizzati e poi mantenuti, con alle spalle il lavoro di molti esperti di va- ria provenienza scientifico-professionale, e per queste ragioni, purtroppo, non sono sempre di facile accesso106. Tra gli strumenti a disposizione dei curatori che intenda-

no gettare le basi di un museo 2.0, il sito web è certamente uno dei meno dispendiosi: il costo per acquisire un dominio è ridotto e non pesa sul bilancio, senza contare che le competenze necessarie per la gestione sono ormai abbastanza diffuse tra i collabo- ratori (e gli storici). Pertanto, proprio da qui potrebbe partire una strategia comuni- cativa funzionale rispetto agli obiettivi della storia pubblica. Salvadori, prendendo come esempio il sito del Metropolitan Museum of Art (MET), spiega che è possibi- le applicare filosofie di comunicazione diverse in base agli intenti ed alle necessità dell’istituzione per cui, se l’obiettivo è a breve termine, come nel caso delle iniziative temporanee, si preferisce fare affidamento su media che servono a creare interesse (gallerie di immagini, podcast e giochi interattivi); mentre, se l’obiettivo è a lungo termine, come le esposizioni permanenti, si consente all’utente di creare un percorso di lettura personale (la world map interattiva dà accesso a specifiche aree tematiche ed oggetti contenuti nel sito)107.

Quel che è certo è che gli istituti culturali stanno progressivamente affiancando alla loro tradizionale missione, ovvero la conservazione, nuovi obiettivi per i quali non è nemmeno necessario possedere un patrimonio fisico di reperti. Si potrebbe arri- vare a dire che “più un ente culturale diventa digitalmente centrato sull’utente (user

centered) e sulla partecipazione e interazione con il pubblico, più le caratteristiche di

funzione e di ‘statuto’ che lo hanno contraddistinto in origine vanno a confondersi con quelle di altri enti culturali […]”108.