capitolo I, al quale quindi si rinvia per ulteriori approfondimenti.
372 S. M. CORSO, Un nuovo soggetto processuale penale: il civilmente obbligato per il ripristino dello stato dei luoghi a seguito di delitto ambientale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2017, 1, 241 e ss.
373 Come evidenziato da S. LARIZZA, op. cit., sia la legittimazione dell’imputato a citare
in giudizio il civilmente obbligato per la pena pecuniaria quanto l’abolizione dell’intervento spontaneo da parte quest’ultimo costituiscono due innovazioni considerevoli rispetto alla disciplina contenuta nel codice Rocco e confermano la totale disapprovazione del legislatore del 1989 per quell’orientamento di matrice giurisprudenziale che nella partecipazione al processo penale del soggetto di cui all’art. 89 c.p.p. ravvisava il mero soddisfacimento dell’interesse dello Stato al pagamento dell’ammenda, con la conseguente attribuzione del relativo potere di citazione al solo Pubblico Ministero. In realtà, secondo quanto emerge dalla stessa Relazione al Progetto Preliminare
del 1988, in G. CONSO – V. GREVI – G. NEPPI MODENA (a cura di), Il nuovo codice di procedura penale, dalle leggi delega ai decreti delegati. Il progetto preliminare del 1988, cit., 332 e
ss., accanto all’interesse pubblico, è riscontrabile un non meno importante interesse dell’imputato ad ottenere la partecipazione del civilmente obbligato al procedimento penale, atteso che l’inadempimento dell’obbligazione in esame implica per il condannato l’applicabilità della disciplina dettata in materia di conversione della pena pecuniaria, circostanza che giustifica dunque l’estensione della legittimazione a citare in giudizio il civilmente obbligato anche al soggetto accusato del reato. Nonostante gli intenti garantistici perseguiti dal legislatore del codice Vassalli, la disciplina introdotta non ha mancato di suscitare notevoli perplessità in chi, come A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli sanzionatori, Giuffrè, 1984, 126 e ss., nella formulazione dell’art. 197 c.p. ravvisa il rischio di un contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto “si subordina
l’applicazione della sanzione penale sostitutiva alle capacità economiche di un terzo, estraneo alla commissione del reato”. Per l’A., da una simile regola scaturisce inevitabilmente il rischio di una
“irragionevole disparità di trattamento tra i condannati che sono garantiti da preponenti, o enti, in
grado di pagare la somma e condannati non efficacemente garantiti per cause a loro del tutto estranee e comunque assolutamente non significative rispetto ad una ragionevole e corretta estrinsecazione della libertà punitiva”. Per un maggior approfondimento sull’argomento in
questione si rinvia, altresì, a E. DOLCINI, Pene pecuniarie e principio costituzionale di
Nonostante, dunque, quello di cui agli artt. 89 c.p.p. e 197 c.p. sia un istituto
scarsamente applicato nel modello processuale classico, più di recente, e proprio
con riguardo al microcosmo originato dal d.lgs. n. 231/2001 pare, invece, stia
attraversando una stagione di rinnovato interesse. A confermare il trend di una sua
rivitalizzazione concorre certamente l’attenzione prestata alla figura in questione
dal legislatore degli ultimi anni, il quale – nell’ottica di implementare la tutela
prevista per gli illeciti in materia ambientale – dopo aver ampliato il catalogo dei
reati idonei a fondare la responsabilità amministrativa della societas
374, ha altresì
374 Come sottolineato da A. PICCILLO, La responsabilità da ecoreato degli enti: il criterio dell’imputazione oggettiva, in Archivio penale, 2013, 3, la versione originaria del d.lgs. n. 231/2001,
con riguardo al profilo in esame, risultava piuttosto scarna e “minimalista”, difettando, tra gli altri, di qualsiasi riferimento agli illeciti ambientali, i quali sono stati aggiunti all’elenco dei reati presupposto solo a seguito delle modifiche apportate a mezzo del d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, a cui si deve l’introduzione dell’art. 25 undecies. Sebbene, infatti, la responsabilità degli enti in materia ambientale costituisse già oggetto della legge delega 29 settembre 2000, n. 300, sono occorsi ben undici anni perché il legislatore delegato ne recepisse i contenuti. La tardività della previsione normativa in questione è, secondo l’A., certamente imputabile alle pressioni promananti dal mondo dell’imprenditoria sull’esecutivo, atteso l’aumento dei costi aziendali connessi all’attività di prevenzione che da un simile ampliamento sarebbero derivati: per la classica piccola e media impresa italiana, invero, l’adozione di misure idonee a circoscrivere il rischio di verificazione dell’illecito ambientale avrebbe potuto rappresentare un vero e proprio “fardello economico”. Senza dimenticare che l’introduzione della corporate liability rappresentava, più in generale, un elemento di forte innovazione per l’intero ordinamento giuridico, con la conseguenza che è sembrato opportuno, quanto meno nella fase iniziale, contenerne la sfera di operatività, “anche allo scopo di
favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio numero di reati”, avrebbe potuto facilmente provocare
notevoli difficoltà di adattamento.
E, tuttavia, la spinta politica fornita dalla direttiva 2008/99/CE – che imponeva agli Stati
membri l’obbligo di adottare sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive” anche in capo alle persone giuridiche per le ipotesi di realizzazione dei reati ambientali ricompresi agli artt. 3 e 4 della direttiva medesima – aveva reso non più procrastinabile un intervento del legislatore sulla materia: “un bene poliedrico quale è l’ambiente, la cui consistenza immateriale, indeterminata e diffusa, e
forse anche istituzionale (sotto il profilo della gestione pubblica delle risorse ambientali), è costantemente messo in pericolo dallo smisurato potere offensivo del settore industriale”, con il
risultato che non si poteva continuare a privarlo della ulteriore protezione garantita dall’apparato sanzionatorio delineato nel d.lgs. n. 231/2001. Radicali modifiche in materie ambientale sono state, più di recente, apportate dalla legge 22 maggio 2015, n. 68, che ha introdotto nel codice penale un nuovo Titolo appositamente dedicato ai “delitti contro l’ambiente”, al quale viene correlato l’effetto di uno speculare ampliamento del catalogo dei reati idonei a fondare la responsabilità amministrativa degli enti e che fino a quel momento era stato caratterizzato dalla presenza di illeciti aventi natura prevalentemente contravvenzionale. Per una valutazione critica ed approfondita degli interventi legislativi in esame, oltre ad A. PICCILLO, op. cit., si rinvia integralmente ad A. SCARCELLA, Responsabilità degli enti e modelli organizzativi ambientali: il recepimento della
direttiva 2008/99/CE, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2011, 4, 60 e
ss.; M. L. PICCINNI, Reati ambientali e d.lgs. 231/2001: quali prescrizioni e conseguenze per enti,
società e associazioni?, in Ambiente e sicurezza, 2013, 12, 45 e ss.; L. BRUNOZZI – C. FIORIO, Ecoreati e responsabilità amministrativa degli enti, in Archivio penale, 2015, 3, 851 e ss.; R.