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4. Le variabili che determinano l’ampiezza del margine di apprezzamento

4.1. Casi in cui il margine di apprezzamento dipende dalla natura del

4.1.4. Il diritto all’identità sessuale: la protezione della vita privata dei

Affrontiamo ora l’ultimo tassello che compone il cerchio intimo della vita privata ricostruito dalla Corte di Strasburgo, ossia la tutela dell’identità sessuale. Questo aspetto della vita privata è emerso nella giurisprudenza in relazione alla rivendicazione di soggetti transessuali del proprio diritto a vedere riconosciuta la

61 Espressamente la Corte afferma: «La Corte non è qui chiamata a risolvere la questione di

sapere se il diritto di adottare, tenuto conto dell’evoluzione della legislazione in Europea e del fatto che la Convenzione è uno strumento vivente da interpretarsi alla luce delle condizioni attuali, debba o meno essere compreso nel campo di applicazione dell’art. 8 della Convenzione»

(§46).

62 Alcuni giudici dissenzienti non contestano il principio di fondo, bensì che nel caso di specie vi sia stata effettivamente discriminazione in base all’orientamento sessuale, cosa che non risulterebbe con evidenza dagli atti di causa. Generalmente, essi ritengono che il rifiuto della convivente di condividere la scelta della ricorrente sulla adozione abbia potuto costituire un motivo sufficiente e non discriminatorio per il rigetto della richiesta in oggetto. Così si esprimono il giudice J. P. Costa, §4-6 e il giudice Mularoni.

loro nuova identità negli atti dello stato civile, nella patente, nel passaporto e in ogni altra attestazione ufficiale63.

L’esame di questa giurisprudenza costituisce un esempio lampante delle modalità attraverso cui la Corte giunge ad un révirement della sua giurisprudenza in corrispondenza di un’evoluzione delle legislazioni degli Stati membri e dei costumi sociali. Mentre nella prima sentenza in tema, Rees c. Regno Unito del 1986, la Corte giunse a concludere che l’ordinamento giuridico del Regno Unito predisponeva già un riconoscimento minimo dell’identità sessuale dei transessuali e che non esisteva ai sensi della Convenzione un’obbligazione positiva che vincolasse lo Stato a modificare le norme in materia di atti dello stato civile, nella recente sentenza Goodwin c. Regno Unito del 2002 la Corte dichiara che esiste una obbligazione positiva per la quale lo Stato deve porre in essere ogni misura idonea al riconoscimento giuridico della nuova identità di un soggetto transessuale.

Anticipiamo, dunque, una considerazione conclusiva che emerge dall’analisi di questa giurisprudenza: se nel caso Rees il margine di apprezzamento dello Stato gioca al livello del contenuto essenziale dell’obbligazione dello Stato di adottare misure a tutela della identità sessuale, nel recente caso Goodwin la Corte definisce compiutamente tale obbligazione e il margine di apprezzamento scende al livello delle modalità attraverso cui garantire l’esercizio del diritto tutelato. Cercheremo ora di evidenziare come è avvenuto questo passaggio.

Il caso Rees nasceva dal ricorso di un soggetto che lamentava l’impossibilità di ottenere una rettificazione dell’atto di nascita attestante la sua identità biologica e non corrispondente al suo sopravvenuto mutamento di sesso. La Corte riconobbe che nell’ordinamento inglese non esistevano documenti ufficiali di identificazione personale; che l’identità di un soggetto era desumibile dal passaporto e dalla

63 Sentenze Van Oosterwijck c. Belgio del 6 novembre 1980; Rees c. Regno Unito del 17 ottobre 1986; Cossey c Regno Unito del 27 settembre 1990; B c. Francia del 25 marzo 1992; X, Y e Z c.

Regno Unito del 20 marzo 1997; Sheffield et Horsham c. Regno Unito del 30 giugno 1998; Goodwin c .Regno Unito del 11 luglio 2002 e I. c. Regno Unito, dello stesso giorno e con identica

motivazione in diritto; Van Kück c. Germania del 22 maggio 2003. In dottrina, V. ZENO

ZENCOVICH, Art.8, in S.BARTOLE,B.CONFORTI,G.RAIMONDI, Commentario alla Convenzione

europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 309; CARLO RUSSO, Art.

8 par. 1, in L.PETTITI,E.DECAUX,P-HIMBERT, La Convention européenne des droits de l’homme,

Commentaire article par article, Parigi, 1995, 311; P. VAN DIJK E G.J.H.VAN HOOF, Theory and

practise of the European Convention on Human Rights, The Hague, 1998, 500-502; F.G.JACOBS E R.C.A.WHITE, The European Convention of Human Rights, Oxford, 1996, 192-193.

patente, ma che le autorità inglesi consentivano ai transessuali di indicare su tali documenti una fotografia del loro aspetto attuale e il prenome modificato in funzione della nuova condizione sessuale, in quanto il mutamento di nome non era soggetto in Inghilterra ad alcuna formalità particolare. Al contrario, il registro degli atti di nascita costituiva in Inghilterra una attestazione storica dell’identità e del sesso del soggetto al momento della nascita e non era soggetta ad alcuna rettificazione o adeguamento nel corso della vita della persona interessata. Il registro era pubblico, ma un estratto dell’atto di nascita poteva essere rilasciato soltanto su istanza dell’interessato o di una pubblica autorità. Tale certificato veniva normalmente richiesto dalle compagnie di assicurazione per ottenere la pensione o per stipulare polizze assicurative. Per ciò che attiene al matrimonio, si affermò nella common law il principio, poi recepito nel Matrimonial Causes Act del 1973, che il matrimonio fosse nullo ab inizio se non fosse intercorso tra soggetti di sesso diverso, ove per sesso si intendeva, per costante interpretazione della giurisprudenza, il sesso biologico determinato dai cromosomi e dalle risultanze fisiche.

La sentenza in commento è di grande rilevanza per tutta la successiva giurisprudenza relativa in generale all’art. 8 CEDU perché in essa la Corte enuclea alcuni principi di base in materia di obbligazioni positive, affermando che compito della Corte è accertare se tali obbligazioni esistono e quale sia il loro contenuto e chiarendo che nella stessa determinazione della loro esistenza lo Stato gode di un ampio margine discrezionale:

«(35) La Corte ha già evidenziato in alcune occasioni che, anche se l’oggetto essenziale dell’art. 8 consiste nella protezione dell’individuo contro le interferenze arbitrarie delle pubbliche autorità, possono in aggiunta esservi delle obbligazioni positive inerenti al rispettivo effettivo della vita privata, anche se soggette al margine di apprezzamento dello Stato (si veda, come pronuncia più recente, Abdulaziz, Cabales e Balkandali del 28 maggio 1985, serie A n. 94, pp. 33-34, par. 67). Nel presente caso è l’esistenza e l’ampiezza di questa obbligazione “positiva” che deve essere determinata. […]

(37) Come la Corte ha puntualizzato nel precedente citato Abdulaziz, Cabales, Balkandali, la nozione di “rispetto” non è chiaramente definita: alla luce della diversità delle prassi seguite e delle situazioni acquisite negli Stati

contraenti, i requisiti della nozione variano considerevolmente da caso a caso. […] Nel determinare se una obbligazione positiva esiste o meno, occorre operare un giusto bilanciamento (fair balance) tra l’interesse generale della comunità e gli interessi dell’individuo; la ricerca di questo equilibrio inerisce all’intera Convenzione. […] Nell’operare questo bilanciamento, le finalità previste nel secondo comma dell’art. 8 possono rivestire una certa importanza, anche se queste previsioni si riferiscono soltanto alle “interferenze” con i diritti protetti dal primo paragrafo - in altre parole concernono le obbligazioni negative…».

Secondo la Corte, dunque, il margine di apprezzamento è correlato alla stessa individuazione dell’esistenza di un’obbligazione e la sua ampiezza è fatta dipendere ancora una volta dalle caratteristiche peculiari del singolo caso e dall’esistenza in capo agli Stati di un minimo denominatore comune nella disciplina della materia in questione.

Rileva la Corte che, nel caso del riconoscimento giuridico della nuova identità dei transessuali, mentre alcuni Stati hanno riconosciuto per via legislativa o giurisprudenziale la possibilità per i transessuali di modificare il proprio status civile, sottoponendo tale modifica a condizioni più o meno restrittive, in altri Stati tale opzione non esiste. L’argomento comparativo porta la Corte a concludere che «esiste nel momento attuale un piccolo nucleo comune (little common ground) tra gli Stati contraenti in questa materia e che, in generale, la disciplina normativa attraversa una fase di transizione. Conseguentemente, in questa materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento».

Il Regno Unito non aveva adottato decisioni generali in materia né per via legislativa né per via giurisprudenziale; ciononostante, l’assetto vigente dell’ordinamento civile in UK consentiva ai transessuali di modificare con una certa facilità il loro nome e di ottenere alcuni documenti conformi alla nuova identità, ciò in maniera maggiore di quanto fosse permesso in altri Stati europei. La rettificazione degli atti dello stato civile avrebbe richiesto allo Stato di modificare l’intera disciplina dell’attestazione dello stato civile delle persone. Una soluzione complessiva alle censure del ricorrente del pari avrebbe comportato che il Regno Unito adottasse una dettagliata legislazione in materia, al fine di stabilire

gli effetti del mutamento di sesso in ogni contesto in cui questi potessero venire in rilievo. In conclusione, «(§44) avuto riguardo all’ampio margine di apprezzamento di cui gode lo Stato in questa materia e alla rilevanza della protezione degli interessi altrui nell’operare il richiesto bilanciamento, l’obbligazione positiva derivante dall’art. 8 non può ritenersi così estesa». Non sussiste pertanto violazione dell’art. 8.

La Corte, tuttavia, lasciò sin da allora aperto uno spiraglio per un futuro mutamento della giurisprudenza, affermando che:

«Stando così le cose, occorre per il momento lasciare allo Stato la determinazione dell’estensione delle misure che voglia adottare per venire incontro alle ulteriori domande dei transessuali. Comunque, la Corte è cosciente della serietà dei problemi che affliggono queste persone e dell’angoscia che essi sopportano. La Convenzione deve sempre essere interpretata e applicata alla luce delle circostanze presenti. La necessità di misure legali appropriate è comunque soggetta a revisione alla luce in particolare degli sviluppi scientifici e sociali».

Questo passaggio rivela che ciò che la Corte non si spinse ancora a definire era «l’estensione delle misure» che lo Stato doveva adottare per assicurare una adeguata tutela alle persone transessuali. Se ne ricava che sin da questa prima pronuncia la Corte diede per presupposta l’esistenza in seno all’art. 8 della Convenzione del diritto alla tutela dell’identità sessuale, lasciando però impregiudicata la compiuta individuazione delle obbligazioni che costituiscono il contenuto essenziale di tale diritto. La Corte, però, si dichiarò pronta a riconoscere l’esistenza di un’obbligazione positiva consistente nel riconoscimento giuridico generalizzato del cambiamento di sesso non appena l’evoluzione delle legislazioni degli Stati membri, ma anche delle conoscenze scientifiche e della concezione sociale avessero reso evidente che esiste un minimo denominatore comune tra gli Stati e le opinioni pubbliche in seno al Consiglio d’Europa tale da essere recepito nel contenuto della Convenzione e da divenire lo standard minimo di base dal quale i Contraenti non possono discostarsi.

Per ciò che attiene alla violazione dell’art. 12 della Convenzione, che tutela il matrimonio, la Corte affermò brevemente che la disposizione invocata tutela il matrimonio in senso tradizionale tra persone di sesso biologico opposto, come si

desume dagli stessi termini impiegati, che si riferiscono a “uomo” e “donna”. In secondo luogo, l’art. 12 rinvia espressamente alle legislazioni degli Stati contraenti, cosicché le limitazioni da essi adottate non sono in principio vietate dall’art. 12, a meno che non comportino una violazione alla sostanza (the very essence) del diritto stesso. Non comportava una lesione alla sostanza del diritto il divieto vigente nel Regno Unito di matrimonio per i transessuali.

In numerose occasioni sono pervenuti alla Corte ricorsi volti a modificare il precedente Rees, tentando di dimostrare l’intervenuto mutamento delle risultanze scientifiche e del contesto giuridico e sociale e facendo leva proprio sulla dichiarata disponibilità della Corte a garantire una più intensa tutela del diritto all’identità sessuale.

La Corte, tuttavia, ha atteso il 2002 per rivedere globalmente la sua posizione nei confronti del Regno Unito. Nella sentenza Cossey del 1990, la Corte puntualizzò le condizioni necessarie per giungere ad una revisione dei propri precedenti, affermando che l’esigenza di garantire la certezza del diritto e lo sviluppo coerente della giurisprudenza relativa alla Convenzione avrebbero giustificato un révirement soltanto in presenza di «ragioni imperative», tra le quali la Corte annoverava, a titolo di esempio, l’esigenza di garantire che l’interpretazione della Convenzione fosse in linea con l’evoluzione della società e rimanesse coerente alle condizioni vigenti. Tali condizioni non sussistevano nel caso della tutela dell’identità sessuale dei transessuali nell’ordinamento inglese: ancora in merito all’esistenza di un’obbligazione positiva, la Corte rilevava che non constavano progressi scientifici significativi e che, nonostante il sopravvenire della risoluzione adottata dal Parlamento europeo del 12 settembre 1989 e della raccomandazione 1117 dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa del 29 settembre 1989, entrambe volte ad incoraggiare un’evoluzione della legislazione nazionale in materia, non era possibile rilevare all’epoca una convergenza tra gli ordinamenti degli Stati membri. Di conseguenza, gli Stati continuavano a godere di un ampio margine di apprezzamento in materia. La stessa conclusione veniva confermata in relazione all’art. 12.

Deve notarsi che la decisione fu adottata dalla Corte plenaria a maggioranza, per dieci voti contro otto in relazione all’art. 8 e per quattordici a quattro per l’art. 14. Le opinioni dissenzienti, in particolare quella del giudice Martens, ripercorrevano la motivazione della Corte proponendo puntuali rilievi: in primis, attesa la delicatezza del diritto invocato, non sarebbe esistito alcun margine di apprezzamento in capo allo Stato, poiché il margine scatta allorché lo Stato già riconosce un diritto ed attiene soltanto alle condizioni e alla forma di tale riconoscimento. Il margine, dunque, non si porrebbe mai, per la parte minoritaria della Corte, al livello dell’esistenza di un nuovo diritto, ma soltanto al livello della sua concreta attuazione. In secondo luogo, in relazione al diritto al matrimonio, la minoranza suggeriva che il termine “sesso” utilizzato nell’art. 12 potesse essere interpretato non soltanto come sesso biologico, ma anche come sesso psicologico e sociale, secondo un approccio «funzionale che tenga pienamente in considerazione le condizioni fattuali della vita moderna». In terzo luogo, in merito all’accertamento di una sopravvenuta evoluzione delle legislazioni e della società, il giudice Martens ricorreva all’argomento comparativo per dimostrare che mentre all’epoca dell’arrêt Rees solo cinque Stati del Consiglio d’Europa riconoscevano una nuova identità giuridica ai transessuali, nel 1990 ben sei nuovi Stati si erano dotati di una legislazione ad hoc e altri due garantivano alcune tutele per via di interpretazione giurisprudenziale. La minoranza lamentava, pertanto, la non veridicità dell’affermazione della Corte secondo la quale non era rinvenibile nel panorama europeo una «comunanza di vedute» e, in definitiva, l’eccessiva circospezione della Corte in materia di diritto alla famiglia e alla sessualità. Concludeva il giudice Martens:

«Credo che questa circospezione non concordi in principio con la missione della Corte, che è di proteggere l’individuo contro la collettività e di farlo elaborando delle norme comuni. E’ certo necessario dar prova di prudenza, ma in un’altra direzione: se una collettività opprime un individuo perché non si rifiuta di riconoscere i cambiamenti che subisce la società, la Corte deve prestare attenzione a non inclinarsi troppo facilmente agli argomenti che poggiano sul particolarismo culturale e storico».

Forse sulla scia di queste opinioni dissenzienti, la Corte giunse ad una conclusione diversa nel successivo caso B. c. Francia del 1992, seppure sulla base delle differenze riscontrabili tra ordinamento inglese e ordinamento francese in materia di stato civile e identità personale.

La Corte accertò che la Francia aveva violato gli artt. 8 e 12 della Convenzione a motivo che l’ordinamento francese, che pure consentiva la rettificazione del registro dello stato civile, non la ammetteva per i transessuali. Per costoro, inoltre, non era neppure possibile ottenere il cambiamento nel nome sulla carta di identità o sul passaporto. Rispetto al Regno Unito, pertanto, il grado di tutela dell’identità sessuale offerto dalla Francia fu ritenuto insufficiente rispetto alle esigenze della Convenzione, in quanto tale da impedire nella quotidianità ai soggetti interessati di trovare una corrispondenza tra la nuova condizione fisica e l’identità attestata in ogni documento di rilevanza pubblica. Ne risultava rotto l’equilibrio minimo pur raggiunto dall’ordinamento inglese tra interesse del singolo e interesse generale. La Corte non indicava, d’altra parte, alla Francia quali misure fosse necessario adottare per conformarsi al minimum standard richiesto dalla Convenzione, lasciando allo Stato la scelta delle modalità attraverso cui porre rimedio alla violazione accertata.

Anche questa decisione fu adottata a maggioranza, per quindici voti contro sei. Si assistette, dunque, ad uno spostamento della maggioranza dei giudici rispetto al caso Cossey, motivato tuttavia, pare intendersi tra le righe della motivazione, dal fatto che la Francia in sostanza non apprestava alcuna forma di tutela dell’identità sessuale.

Le opinioni dissenzienti sono di tono esattamente opposto a quelle del precedente Cossey: il giudice Matcher si limita a criticare l’opinione di maggioranza per non aver specificato quali fossero gli elementi minimi di tutela richiesti per aversi rispetto dell’identità sessuale ai sensi della Convenzione. Il giudice Pinheiro Farinha contesta in radice il fatto che la Corte giunga per via interpretativa alla individuazione di nuovi diritti:

«Il ruolo della Corte consiste nell’interpretare la Convenzione; nel darne un’interpretazione dinamica e attuale, ma sempre un’interpretazione. La giurisprudenza della Corte non può andare al di là della Convenzione e non ha il diritto di accordare nuovi diritti né di imporre

nuove obbligazioni agli Stati. La Convenzione non consacra il diritto al cambiamento di sesso, né la modificazione degli atti dello stato civile, né, a differenza del Patto sui diritti civili e politici, quella del registro dello stato civile. Come si può imporre in nome della Convenzione allo Stato un comportamento determinato in materia?»

Identica è la posizione del giudice Pettiti, per il quale la Convenzione non obbliga in alcun modo gli Stati a legiferare in materia di rettificazione dello stato civile, neppure per mezzo dell’applicazione della teoria delle obbligazioni positive. Lo dimostrarebbe il fatto che molti Stati membri non sono dotati di alcuna legislazione in materia e che, di conseguenza, essi godono in generale di un ampio margine discrezionale nella scelta delle misure da adottare. Ancora, il riconoscimento del dovere della Francia di consentire il mutamento del sesso nel registro dello stato civile potrebbe comportare rilevanti conseguenze in materia di matrimonio, adozione, fecondazione medicalmente assistita, diritti di successione. Infine:

«Se c’è una materia in cui occorre accordare agli Stati il massimo margine di apprezzamento, in considerazione dei costumi e delle tradizioni, è quello del transessualismo, alla luce anche delle opinioni degli esperti medici e scientifici».

Ne emerge, prima ancora che una critica alla coerenza della argomentazioni utilizzate dalla maggioranza, una vera e propria concezione diversa del ruolo della Convenzione europea e, di conseguenza, della Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici si dividono tra coloro che interpretano la Convenzione come un testo base di tutela minima dei diritti in essa espressamente garantiti, oltre il quale gli Stati sono maître del progressivo riconoscimento di nuove situazioni soggettive giuridicamente rilevanti e coloro che, invece, intendono la Convenzione come lo strumento attraverso cui è possibile giungere alla progressiva conquista di nuovi diritti ritenuti coessenziali all’evoluzione delle società moderne. A sua volta, come traspare in controluce nelle opposte opinioni dissenzienti, dietro il dissidio tra la valorizzazione di un’interpretazione evolutiva che ponga in capo agli Stati sempre maggiori oneri in punto di tutela dei propri cittadini e la preferenza per un

atteggiamento di self restraint, si nasconde la diversa sensibilità dei giudici per la conservazione dei tratti sociali e culturali caratterizzanti di ciascuno Stato contraente. Lo si intravede bene sia nella posizione del giudice Martens nell’arrêt Cossey che nella opposta posizione del giudice Pettiti nella sentenza B. c. Francia. Ove l’uno difende una concezione uniforme e potenzialmente universale dei diritti al di là dei particolarismi locali, il secondo rivendica allo Stato il ruolo di custode dei costumi e delle tradizioni che costituiscono l’humus da cui solo può nascere l’affermazione di un nuovo diritto.

Nella recente sentenza Goodwin c. Regno Unito del 11 luglio 2002, la Corte porta a compimento il processo evolutivo già annunciato nei precedenti Rees e Cossey e rimasto ancora incompiuto nella sentenza Sheffield del 199864. Statuendo questa