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3. Il trattamento dei transessuali avanti alla Corte di Giustizia

3.1. Il divieto di licenziamento in ragione del cambiamento di sesso

Nella sentenza P. c. S., relativa al licenziamento di un transessuale, il quesito giuridico di fondo atteneva all’interpretazione della direttiva 76/207/CEE sull’attuazione della parità di trattamento tra uomini e donne per ciò che attiene alle condizioni di lavoro. L’art. 5 n. 1 della direttiva prevedeva espressamente che il principio di parità di trattamento dovesse essere applicato alle condizioni inerenti al licenziamento, garantendo a uomini e donne il medesimo trattamento “senza discriminazioni fondate sul sesso”. Si trattava, dunque, di comprendere se il licenziamento dovuto ad un cambiamento di sesso rientrasse nell’ambito di applicazione della direttiva e se, di conseguenza, il principio di parità di trattamento esplicasse qualche effetto sul caso di specie.

Il Governo del Regno Unito e la Commissione sostenevano che il licenziamento di una persona a causa della sua condizione di transessuale non costituisse una discriminazione ai fini della direttiva, poiché il datore di lavoro avrebbe del pari

licenziato P. se fosse stata precedentemente donna e avesse mutato il suo sesso divenendo uomo.

La Corte, invece, giunge ad una conclusione opposta. In apertura di motivazione, la Corte richiama la sentenza Rees della Corte di Strasburgo al fine di aderire alla definizione ivi contenuta del fenomeno del transessualismo176. L’applicazione estensiva della direttiva ad un licenziamento determinato da un cambiamento di sesso è argomentata interamente, invece, sulla base del principio di uguaglianza, di cui la direttiva è espressione177.

L’uguaglianza è definita “uno dei principi fondamentali del diritto comunitario”. Ad essa la Corte associa il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso, diritto che costituisce “uno dei diritti fondamentali della persona umana”. Tali principi sono enunciati senza alcun richiamo a disposizioni specifiche del Trattato. In assenza di espresso fondamento testuale, il principio di eguaglianza appare un principio fondamentale del diritto comunitario immanente a una pluralità di disposizioni del Trattato, di cui il diritto a non essere discriminato nella retribuzione costituisce un aspetto. I precedenti cui la Corte rinvia, infatti, costituiscono un’applicazione dell’art. 119 TCE, sul divieto di discriminazione in base al sesso nella retribuzione178.

176 “Si deve osservare innanzitutto che, come ha osservato la Corte europea dei diritti dell’uomo, “si intendono solitamente per 'transessuali' le persone che, pur appartenendo fisicamente ad un

sesso, hanno la sensazione di appartenere all' altro sesso; esse cercano spesso di accedere ad un'identità più coerente e meno ambigua sottoponendosi a cure mediche e ad interventi chirurgici allo scopo di adeguare le loro caratteristiche fisiche al loro stato psichico. I transessuali così operati formano un gruppo sufficientemente determinato e definibile" (sentenza Rees, 17 ottobre 1986, serie A, volume 106, punto 38)”. (§16).

177 P. PALLARO, Il divieto di discriminazioni fondate sul sesso, fra transessualismo e libertà di

orientamento sessuale, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1998, 613, ritiene che

il riferimento alla sentenza Rees del 1986 della Corte di Strasburgo non sia soltanto funzionale alla definizione del fenomeno del transessualismo, quanto piuttosto all’identificazione del primo canone ermeneutico cui la Corte di Giustizia ricorre per la soluzione della questione, ossia la Convenzione europea. Ritengo, invece, che la CEDU non abbia alcuna rilevanza nella soluzione della questione, dato che la motivazione è guidata esclusivamente dal principio di eguaglianza e che il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU non costituisce parametro né espresso né implicito dell’argomentazione della Corte.

178 L’art. 119 TCE nel testo originario recitava: “1. Ciascuno Stato membro assicura durante la

prima tappa l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. 2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia

Alla luce di questi principi e avuto riguardo “allo scopo e alla natura dei diritti che – la direttiva - mira a proteggere”, essa viene perciò interpretata estensivamente, nel senso che il suo ambito di applicazione non è inteso come limitato alle sole discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso,

fissata in base ad una stessa unità di misura; b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia eguale per uno stesso posto di lavoro”.

Il Consiglio, con risoluzione del 21 gennaio 1974 relativa ad un programma di azione sociale, inserì tra le priorità l’attuazione del principio di parità tra uomini e donne non soltanto sotto il profilo salariale, ma anche nell’accesso e nelle condizioni di lavoro, nella formazione e nella promozione professionale. Alla luce di tali obiettivi, vennero adottate la direttiva n. 75/117, in GUCE L 45 del 19.2.1975, p. 19, in tema di ravvicinamento delle legislazioni nazionali per l’applicazione del principio della parità di retribuzione; la direttiva n. 76/207, in GUCE, L 39 del 14.2.1976, p. 40, che estese il principio di parità di trattamento all’intero settore dell’impiego e dell’occupazione e la direttiva n. 79/7, in GUCE, L 6 del 10.1.1979, in materia di sicurezza sociale. Le direttive furono adottate sulla base dell’art. 235 TCE, ora 308.

L’art. 119 TCE venne riconosciuto fonte di un diritto individuale alla parità di trattamento nella retribuzione e nei suoi accessori dotato di efficacia orizzontale, dunque direttamente azionabile dal singolo nei confronti del proprio datore di lavoro, sin dalla sentenza C-43/75, Defrenne I c.

Sabena, in Racc. 1976, 455-474.

In P. c. S. il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso è definito “uno dei diritti

fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire l'osservanza” (§18). Il

riconoscimento della natura di diritto fondamentale al principio di parità di trattamento è operato dalla Corte di Giustizia sin dalle sentenze C-149/77, 15 giugno 1978, Defrenne III c. Sabena, Racc. 1977, 1365, §26 e 27, e C-75/82 e 117/82, 20 marzo 1984, Razzouk e Beydoun c.

Commissione, Racc. 1984, 1509, §16).

Con il Trattato di Asterdam il principio di parità di trattamento è divenuto un principio informatore e un obiettivo della Comunità, attraverso il suo inserimento nell’art. 2: “La Comunità ha il compito

di promuovere…la parità tra uomini e donne…” e art. 3, par. 2, TCE: “…2. L’azione della Comunità a norma del presente articolo mira a eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne”. L’art. 119, divenuto 141, venne ampliato estendendo il principio

della parità di retribuzione ai lavori “di pari valore” e prevedendo al paragrafo 3 una base giuridica espressa per l’adozione da parte del Consiglio di misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, nonchè al paragrafo 4 l’ammissibilità di azioni positive degli Stati a favore del sesso sottorappresentato. Infine, venne introdotto l’art. 13 TCE, attributivo al Consiglio del potere di adottare i provvedimenti opportuni a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

Per una puntuale descrizione dell’evoluzione della normativa comunitaria primaria e secondaria in materia di parità di trattamento tra uomini e donne, A.ANSELMO, I transessuali hanno diritto di

sposarsi…e di ottenere la pensione di reversibilità, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 4/2004, 724-727; R.NUNIN, Sul diritto del convivente transessuale al godimento

della pensione di reversibilità, in Famiglia e Diritto, 2004, 144.

In dottrina, sul principio di parità di trattamento tra uomo e donna, nella vastissima letteratura: E. DENNIGHER, Il principio di uguagliaza tra uomini e donne, in G. BONACCHI (a cura di), Una

Costituzione senza Stato, Bologna, 2001, 477 ss; G. F. MANCINI, Le nuove frontiere

dell’eguaglianza fra i sessi nel diritto comunitario, 1999, ora in Democrazia e costituzionalismo nell’Unione Europea, Bologna, 2000; E.ELLIS, Recent developements in European Community

Sex Equality Law, in Common Market Law Review, 1998, 379 ss; C.BARNARD, The principle of

equality in the Community context: “P.”, “Grant”, “Kalanke” e “Marschall”, in Cambridge Law Journal, LVII, 1998, 361 ss.; P.MORI, La parità tra uomo e donna nel Trattato di Amsterdam, in

Il diritto dell’Unione Europea, 1998, 571 ss; GCHITI, Il principio di non discriminazione e il

ma come comprendente anche le discriminazioni che hanno origine dal mutamento di sesso dell’interessato. Ciò perché anche tali discriminazioni, per la Corte, “si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’interessato”. La persona licenziata in ragione del cambiamento di sesso, infatti, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenente prima dell’operazione. In definitiva

“Il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a porre in non cale, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare” (par. 22).

Come detto, il cardine della motivazione è costituito dal principio di eguaglianza. Tale principio fondamentale si irradia sul diritto secondario, giustificandone un’interpretazione estensiva, consentendo di applicare le garanzie ivi previste a fattispecie non espressamente disciplinate. La sentenza costituisce, dunque, una chiara ipotesi di applicazione diretta di un principio generale al fine di dare soluzione alla questione prospettata, laddove il diritto secondario non contiene disposizioni specifiche.

L’argomentare della Corte si caratterizza per un inusuale riferimento a parametri di per sé non espressamente codificati nel diritto comunitario quali la libertà e la dignità della persona. E’ chiara l’accentuazione della dimensione di tutela delle scelte individuali, dunque di protezione dell’autonomia del singolo di cui la Corte si fa carico, anche a costo, secondo alcuni commentatori, di forzare in qualche modo l’applicazione tradizionale del principio di parità di trattamento179.

179 A. CAMPELL AND HEATHER LARDY, Discrimination against transsexuals in Employment, in

European Law Review, 1996, 412-417; L. FLYNN, nota alla sentenza C-13/94, P. v. S. and

Cornwall County Council, 30 aprile 1996, in Common Market Law Review, 1997, 376 e sg,

osservano che se il principio di eguaglianza tradizionalmente applicato dalla giurisprudenza comunitaria richiede l’identificazione di un tertium rispetto al quale valutare la disparità di trattamento, nella sentenza in oggetto il tertium sarebbe stato individuato in maniera “atipica”. In effetti, il modulo classico di verifica di una discriminazione fondata sul sesso prevede che, date le medesime circostanze del caso di specie, si sostituisca al soggetto interessato un soggetto del sesso opposto. Si ha discriminazione quando alla sostituzione del soggetto consegue un trattamento diverso. Nel caso di specie, sostituendo ad una donna che abbia subito un mutamento di sesso un uomo che abbia subito il medesimo cambiamento, probabilmente si sarebbe avuta l’identica conseguenza del licenziamento, mancando così la differenza di trattamento alla base della discriminazione. E’ questo, d’altra parte, il ragionamento su cui si fonda la difesa del Regno Unito. La Corte, invece, esce da questo schema e individua quale altra categoria di riferimento soggetti

I concetti di libertà e dignità costituiscono un’eco delle conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro. La Corte vi aderisce nella sostanza, ma con argomenti in parte diversi180.

Tesauro si era spinto a riconoscere l’esistenza nel diritto comunitario di un diritto all’identità sessuale in sé considerato, che invece non compare nella motivazione della Corte. Inoltre, al riconoscimento di tale diritto l’Avvocato Generale giungeva dopo una serie di considerazioni assai simili, nel “tono”, alle valutazioni che permeano le sentenze della Corte di Strasburgo, orientando l’interpretazione della direttiva 76/207/CEE alla luce dell’evoluzione scientifica e sociale registratasi in materia di transessualismo181 e all’analisi della legislazione degli

del medesimo sesso originario dell’interessato, dunque uomini, che però non abbiano intenzione o non abbiano già proceduto a cambiare sesso. E’ attraverso questa variante nell’applicazione classica del principio di eguaglianza che la Corte riesce a far emergere una disparità di trattamento, poi qualificata come discriminatoria perché fondata sul sesso. Resta che, in verità, la comparazione con il tertium ha un peso marginale nella motivazione, incentrata, invece, sull’esistenza di quella che per la Corte pare essere un’ingiustizia in sé, in quanto lesiva della dignità della persona.

180 Conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro del 14 dicembre 1995, in Racc. 1996, I- 2145. Si riporta l’ultimo paragrafo, più volte citato dalla dottrina che ha commentato la sentenza, in cui si coglie tra le righe degli argomenti giuridici proposti la volontà di opporsi ad una ingiustizia sostanziale: (24) “In definitiva, sono ben consapevole di chiedere alla Corte una scelta

“coraggiosa”. La chiedo, però, profondamente convinto che è qui in gioco un valore universale, fondamentale, scolpito a caratteri indelebili nelle moderne tradizioni giuridiche e nelle costituzioni dei Paesi più evoluti: l’irrilevanza del fattore sesso rispetto alla disciplina della vita di

relazione. Chi crede in questo valore non può accettare l’idea che una normativa consenta di

licenziare una persona perché donna, o uomo, o perché da uno dei due sessi (quale che sia) passa all’altro con un’operazione, che costituisce – secondo le attuali conoscenze mediche – l’unico rimedio per ricomporre l’equilibrio tra caratteri somatici e psichici. Una diversa soluzione suonerebbe come una condanna morale, peraltro fuori dal tempo, del transessualismo; e ciò quando il progresso scientifico e l’evoluzione sociale in materia offrono una dimensione del problema che certo trascende dalla morale. Mi rendo ben conto, lo ripeto, che nel diritto comunitario non c’è una precisa disposizione specificamente e testualmente destinata alla disciplina del problema; ma questa si deduce facilmente e chiaramente dai principi e dagli obiettivi del diritto sociale comunitario, dalla motivazione della direttiva che pone in rilievo “la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera”, nonché nella stessa giurisprudenza della Corte, sempre attenta e all’avanguardia nel garantire la tutela di soggetti sfavoriti. Così, ritengo anche che sarebbe un peccato mancare questa occasione per lasciare, con una scelta coraggiosa ma giusta e giuridicamente corretta, in quanto operata incontestabilmente sul fondamento e nella direzione del grande valore dell’eguaglianza, una traccia di sicuro spessore civile. Ricordo infine, con le parole dell’avvocato generale Trabucchi in una conclusione che risale a ben venti anni or sono, che “se vogliamo che il diritto comunitario non sia soltanto una meccanica disciplina dell’economia, ma costituisca invece un ordinamento a misura della società che deve reggere, se vogliamo che sia un diritto rispondente all’idea di giustizia sociale e alle esigenze dell’integrazione europea al livello non solo dell’economia ma anche dei popoli, non possiamo deludere l’aspettativa, più che legittima, del giudice [nazionale] (causa C-7/75, 15 giugno 1975, Coniugi F., Racc. 1975, pag. 691 e in particolare 696”. (le parti

evidenziate sono così del testo originale).

Stati europei all’epoca vigente in materia182. Del pari, l’Avvocato Generale ripercorse la giurisprudenza fino ad allora adottata dalla Corte di Strasburgo, dai casi Rees e Cossey fino a B. c. Francia183.

Su uno sfondo costituito da questi eterogenei indicatori, l’Avvocato Generale inserisce il ragionamento più strettamente giuridico, incentrandolo, come accetterà di fare la Corte, sul principio di eguaglianza184. Merita, tuttavia, notare che mentre la Corte giungerà all’applicazione estensiva della direttiva sulla scorta della sola interpretazione conforme al principio di eguaglianza, Tesauro suggerisce la medesima conclusione alla luce di un’interpretazione evolutiva della direttiva. Sostiene Tesauro che la direttiva, risalendo al 1976, avrebbe recepito la realtà “normale” per il momento in cui venne adottata, non potendo invece tenere conto di un fenomeno all’epoca poco conosciuto quale quello del transessualismo; viceversa, il mutamento delle circostanze storiche e l’affermarsi di una nuova consapevolezza in ordine alla condizione dei transessuali devono condurre ad una lettura evolutiva del testo della direttiva185. E’ evidente l’eco del modo di argomentare della Corte di Strasburgo.

Perché l’Avvocato Generale sente la necessità di adottare questo tipo di argomentazione? L’impressione è che l’esigenza sia la medesima cui risponde la Corte di Strasburgo qualora si trova a decidere di una fattispecie “nuova”, non immediatamente ancorata a precedenti soluzioni: la necessità di individuare una forma giuridica di tutela per una fattispecie non espressamente contemplata, in questo caso in principio estranea al diritto comunitario.

182 Paragrafi 10 e 20 delle Conclusioni. Si rileva che Svezia, Germania, Italia e Paesi Bassi avevano adottato una legislazione ad hoc per consentire ai transessuali la rettificazione dei registri anagrafici, di cui sono forniti puntualmente gli estremi; in Danimarca il medesimo risultato era ottenuto applicando una legislazione di carattere generale; nella maggior parte degli altri Stati europei la tutela era stata garantita dalla giurisprudenza. Nel paragrafo 20 si cita la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco 11 ottobre 1978, in NJW, 1979, 595.

183 Paragrafo 11 delle Conclusioni.

184 Paragrafo 20 delle Conclusioni. Il principio di eguaglianza è inteso da Tesauro come divieto di fondare le disparità di trattamento tra individui su taluni fattori differenziali, tra cui il sesso. Con la peculiare specificazione che, ai fini della decisione, il sesso è inteso dall’Avvocato come una “convenzione”, un “parametro sociale”, più che come una qualificazione biologica della persona

185 Con un ultimo argomento, l’Avvocato Generale richiama la risoluzione del Parlamento europeo del 9 ottobre 1989 sulla discriminazione dei transessuali, in cui “si invitano la Commissione e il

Consiglio a precisare che le direttive comunitarie sull’equiparazione di uomini e donne sul posto di lavoro vieta anche la discriminazione dei transessuali”. Se il Parlamento chiede di “precisare”,

significa, secondo Tesauro, che le direttive comprendono già anche il trattamento discriminatorio dei transessuali, dovuto al mutamento di sesso.

La Corte di giustizia, tuttavia, sceglie di adottare una motivazione assai più asciutta, condotta sulla base di una analisi soltanto “interna” alle norme oggetto del giudizio ed evitando ogni riferimento a criteri extragiuridici quali il progresso sociale e scientifico o il ricorso all’argomento comparativo. La giurisprudenza di Strasburgo è citata soltanto per dare una definizione del fenomeno transessuale, ma non contribuisce alla soluzione nel merito della questione. Si cita, infatti, soltanto la sentenza Rees, in cui la Corte di Strasburgo negava che i transessuali avessero diritto a ottenere dal Regno Unito il riconoscimento della loro identità sessuale. Si tace, invece, sulla successiva B. del 1992, in cui la Francia era stata condannata per non fornire alcuna forma neppur minima di tutela ai transessuali. Vero è che all’epoca la giurisprudenza di Strasburgo era, come detto, ancora incerta. Proprio la scarsa linearità della giurisprudenza di Strasburgo dell’epoca lascia comprendere come, in definitiva, la decisione della Corte di Giustizia di interpretare la direttiva comunitaria in forza del principio di eguaglianza, comprendendovi il divieto di licenziamento in ragione del cambiamento del sesso, appaia per l’epoca innovativa e coraggiosa. Quasi a spingersi fino a dove la Corte europea non aveva ancora avuto il coraggio di arrivare.

3.2. La sentenza K.B., ovvero del diritto dei transessuali di sposarsi

Nella sentenza K. B., sul diritto alla pensione di reversibilità del convivente transessuale di una lavoratrice britannica, il parametro è ancora costituito dal principio di parità di trattamento, espresso dall’art. 141 TCE (ex 119 TCE)186. Rispetto al precedente del 1996, tuttavia, la questione sottoposta alla Corte si caratterizzava per il fatto che la disparità derivava non tanto dall’applicazione della normativa previdenziale in sé considerata, quanto dal combinarsi della normativa nazionale britannica che vincolava il sesso della persona alla

186 Le direttive 75/117 e 76/207 sono oggi abrogate e sostituite dalla direttiva n. 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio del 5 luglio 2006, in GUCE L 204 del 26.7.2006, p. 23, entrata in vigore il 15.8.2006. Può essere interessante notare che nelle premesse della suddetta direttiva si dà conto, in primo luogo, del fatto che: “La Corte di giustizia ha ritenuto che il campo d'applicazione

del principio della parità di trattamento tra uomini e donne non possa essere limitato al divieto delle discriminazioni basate sul fatto che una persona appartenga all'uno o all'altro sesso. Tale principio, considerato il suo scopo e data la natura dei diritti che è inteso a salvaguardare, si applica anche alle discriminazioni derivanti da un cambiamento di sesso”; in secondo luogo che:

“Gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vietano anch'essi