• Non ci sono risultati.

Il diritto all’istruzione tra Stato e Regioni: la Riforma del Titolo V della Costituzione

1. La ripartizione delle competenze nella Costituzione.

A seguito delle riflessioni condotte circa il significato da attribuire ai principi costituzionali in tema di diritto all’istruzione, nell’ambito delle quali si è cercato di mettere in evidenza i profili di maggior problematicità sia da un punto di vista meramente dogmatico, sia in fatto di prassi, si passa, ora, ad esaminare la disciplina prevista dalla seconda parte della Costituzione ed alla prassi statale e regionale. Anche da questa diversa prospettiva, come si vedrà, i nodi ermeneutici posti dal testo costituzionale riguardo l’esatta determinazione dei soggetti competenti sono rilevanti e vanno dalla corretta delimitazione delle competenze alla più generale necessità di garantire che la stessa diversificazione nell’attribuzione della materia non si traduca, di fatto, in un’arbitraria compressione di quel «nucleo essenziale» del diritto di cui è detto in precedenza174.

Tuttavia, prima di addentrarci nell’esame del titolo V della Costituzione e dei suoi più recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali, appare opportuno ripercorrere, in via di sintesi, il quadro dei rapporti tra Stato ed altri enti territoriali, in particolar modo regioni, così come scaturiva dalla lettera della Costituzione del ’48 e dalla successiva prassi. Questa operazione ci consentirà di verificare in che misura i tratti dell’evoluzione verso forme di regionalismo abbiano interessato anche il diritto all’istruzione.

In via propedeutica, c’è da precisare come le forze politiche in sede di Assemblea Costituente fossero, almeno tendenzialmente, favorevoli all’attuazione di un disegno costituzionale ispirato ai principi dell’autonomia e del decentramento la cui prova più evidente è forse rappresentata dall’inserimento dell’art. 5 tra i principi fondamentali della nostra Costituzione. Da un punto di vista delle materie rispetto alle quali le regioni avrebbero potuto legiferare, tuttavia, lo stesso Costituente si dimostrò piuttosto cauto dando vita ad un regionalismo non molto accentuato175.

174

Si veda supra par. 4 ss.

175 Anche le forze di sinistra in seno all’Assemblea Costituente manifestarono una «posizione

regionalista moderata»:cfr. Santarelli, L’ente regione, Roma, 1960, pag. 116. Rotelli, L’avvento della

regione in Italia, Milano, 1967, pagg. 146 ss e 250 ss. In generale si veda anche Ruffili, La questione regionale, Milano, 1971.

Con riferimento precipuo al ruolo delle Regioni in tema di istruzione, l’originario titolo V della parte seconda della Costituzione, si limitava ad attribuire alla competenza legislativa concorrente «l’istruzione artigiana e professionale»176e «l’assistenza scolastica» nonché, con riferimento ad altri profili della cultura, la materia dei «musei» e delle «biblioteche degli enti locali» (art. 117, comma 1), aspetto di cui non ci si occupa in questa sede. Inoltre, va ricordato come, in base alla vecchia formulazione dell’art. 118, le regioni fossero dotate di potestà amministrativa in ordine alle stesse materie per le quali avevano competenza legislativa.

Nel dare inizio alla nostra analisi, il primo profilo che viene in evidenza è, ancora una volta, quello di tipo terminologico, rendendosi necessario un chiarimento circa il significato da attribuire alle locuzioni «istruzione artigiana e professionale» ed «assistenza scolastica».

Riguardo alla prima di tali competenze, va detto come in relazione alla nozione di istruzione artigiana e professionale si sia registrata una certa evoluzione quanto al suo corretto significato in ragione, soprattutto, dei diversi interventi del legislatore in materia.

Inizialmente, in dottrina, si era sottolineato il legame della disposizione costituzionale citata con l’art. 35 della Costituzione secondo cui, come noto, «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori». Questa opinione, in particolare, metteva in evidenza come il Costituente avesse voluto concepire la formazione professionale non solo quale attività finalizzata all’ingresso nel mondo del lavoro, ma, allo stesso tempo, per il suo carattere formativo, come legata al diritto all’istruzione di cui all’art. 34177.

A seguito dell’emanazione del D.P.R. n. 10 del 1972178 tuttavia, sembra farsi strada una nozione di istruzione artigiana e professionale che consta, fondamentalmente, degli insegnamenti che hanno lo scopo di provvedere alla preparazione professionale intesa unicamente come rivolta all’esercizio di attività pratiche di ordine esecutivo e tecnico nei diversi settori produttivi. In questo senso, l’attività di istruzione artigiana e professionale non mira, come quella rientrante nell’istruzione in senso proprio, ad una formazione culturale e complessiva dell’individuo (quale la si è intesa in questo lavoro)

177 Cfr. G. Loy, Istruzione professionale (voce), in Digesto delle discipline pubblicistiche, pag.

15 ss..

178“Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia

tale da consentirgli il pieno sviluppo della personalità, ma è più strettamente legata alle conoscenze tecniche necessarie allo svolgimento di attività professionali, nonché alla specializzazione, all’aggiornamento ed alla qualificazione professionale, in funzione primaria dell’inserimento nel mondo lavorativo179.

La progressiva differenziazione, rispetto al diritto all’istruzione, si attuava con il D.P.R. n.616 del 1977 e la successiva legge cornice n. 845 del 1978 con cui l’istruzione artigiana e professionale veniva, di fatto, a corrispondere con la formazione professionale dei lavoratori. Le suddette normative, infatti, prevedevano il mancato rilascio di un titolo di studio o di diploma di istruzione secondaria superiore, universitaria o di specializzazione post-universitaria per qualificare l’istruzione artigiana e professionale rispetto al diritto di istruzione in senso stretto180.

A sostegno di tale differente modo di intendere l’istruzione professionale, che segna la sua autonomia concettuale, si deve far riferimento, altresì, all’orientamento della Corte Costituzionale che, nell’ambito della sentenza del 24 maggio 1977, n. 89, statuiva che: «In sostanza, deve ritenersi che l'istruzione in parola superi l'ambito del concetto comunemente accolto in precedenza, in quanto ora si caratterizza per la diretta finalizzazione all'acquisizione di nozioni necessarie sul piano operativo per l'immediato esercizio di attività tecnico-pratiche, anche se non riconducibili ai concetti tradizionali di arti e mestieri».

Tuttavia, nonostante questa marcata differenziazione concettuale, permane il dubbio che, in realtà, le reciproche quanto inevitabili interferenze tra istruzione artigiana- professionale e istruzione in senso proprio potessero far propendere, anche prima della Riforma costituzionale del 2001, per una sostanziale impossibilità di configurare una netta demarcazione concettuale181. Del resto, non si può tacere del fatto che anche

179 Cfr. M. Della Morte, Profili costituzionali di tutela del diritto allo studio tra Stato e Regioni,

in L. Chieffi, I diritti sociali tra regionalismo e prospettive federali, Napoli, Cedam, 1999, pag. 484.

180 Cfr. art. 35 D.P.R. n. 616, cit. e art. 2 l. n. 845/’78. 181

Tale valutazione era del resto suffragata dalla prassi del periodo considerato. Singoli provvedimenti legislativi, infatti, sembravano legare in modo particolarmente stringente la formazione professionale al diritto allo studio: si veda, ad es., la legge regionale della Lombardia n. 42/’94 (“Interventi per lo sviluppo della formazione professionale superiore anche in raccordo con l’Università”) che promuoveva incisive forme di raccordo tra Università e formazione professionale.

Per altro verso, anche la giurisprudenza comunitaria sembra aver fatto propria un’interpretazione assai lata della nozione di formazione tale da ricondurvi anche l’accesso ai corsi di istruzione generale. Si veda, in proposito, Corte di Giustizia CE, 13 febbraio 1985, causa 293/’85, in Foro italiano, 1988, IV, pag. 423, con nota di Traversa. Secondo tale pronuncia, «qualsiasi forma di insegnamento che prepari ad una qualificazione per una determinata professione, un determinato mestiere o una determinata attività. O che conferisca la particolare idoneità ad esercitare tale professione, tale mestiere o tale attività, fa parte della formazione professionale, qualunque sia l’età ed il livello di preparazione degli alunni o degli studenti, e anche se il programma di insegnamento comprenda altresì materia di carattere generale».

l’acquisizione di conoscenze finalisticamente orientate al mondo lavorativo costituisce, in ogni caso, una possibilità di emancipazione della persona.

Riguardo, invece, alla materia dell’«assistenza scolastica», in riferimento precipuo alla concreta definizione del concetto stesso, basti qui ribadire come questa si riconnetta, inevitabilmente, con il concetto di scuola quale servizio sociale composto da due elementi indefettibili per il suo funzionamento: l’elemento didattico e l’elemento assistenziale. Quest’ultimo che, come già riportato, rappresentava quello di più stretta competenza regionale ai sensi del testo costituzionale precedente alla Riforma del 2001, esprime il complesso di quelle attività regionali di predisposizione ed attuazione di strumenti atti a garantire l’effettività del diritto allo studio, sia in riferimento alla scuola dell’obbligo, sia in riferimento ai gradi più alti degli studi, aspetti sui quali si è già insistito ampiamente nel corso dell’esame dell’art. 34 Cost. Questa definizione di assistenza scolastica ricalca, sostanzialmente, quella già adottata dall’art. 42 del d.p.r. n. 616 del 1977, secondo cui, «le funzioni amministrative relative alla materia assistenza scolastica concernono tutte le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l'assolvimento dell'obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi. Le funzioni suddette concernono fra l'altro: gli interventi di assistenza medicopsichica; l'assistenza ai minorati psico- fisici; l'erogazione gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari».

Nonostante le “concessioni” all’autonomia delle regioni in tema di istruzione previste dal disposto costituzionale previgente, come noto, il regionalismo italiano in esso prefigurato, stentò a decollare e, per oltre un ventennio dalla sua approvazione, anche il settore dell’istruzione si caratterizzò per un’attuazione piuttosto limitata.

2. Le riforme degli anni ’70.

Una prima “svolta” nel settore in esame si registrava con le riforme degli anni settanta volte a realizzare i principi costituzionali del decentramento delle funzioni amministrative.

Anche le successive sentenze della Corte di Giustizia si ponevano sulla stessa linea interpretativa. Per esempio si veda le cause riunite 51/’89, 90/89 e 94/89, per il cui commento si rinvia a Zilioli, La Corte di

Le prime riforme di questo tipo si ebbero con i decreti legislativi del 1972, adottati in attuazione dell’art. 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281, che conferiva delega al Governo per regolare il trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni.

In particolare, tramite il D. P. R. 14 gennaio 1972, n. 3, venivano trasferite alle Regioni le funzioni economico-gestionali «in materia di assistenza scolastica in favore degli alunni delle scuole ed istituti di ogni ordine e grado, statali o autorizzati a rilasciare titoli di studio riconosciuti dallo Stato»; mentre, con il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 10, in materia di istruzione artigiana e professionale, si operava l’ulteriore trasferimento delle attribuzioni relative all’organizzazione dei corsi di addestramento professionale per i lavoratori e dei corsi aziendali di riqualificazione, tranne le attribuzioni in materia di istituti professionali che restavano allo Stato.

A loro volta, le Regioni ordinarie, nell’ambito del primo esercizio dell’autonomia statutaria, andavano recependo negli statuti dichiarazioni di principio relative all’attuazione del diritto all’istruzione ed alla promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica182.

Un più sensibile ampliamento del ruolo delle regioni in materia di istruzione scolastica si aveva con il trasferimento delle funzioni amministrative dello Stato nelle materie indicate dall’art. 117 Cost., realizzato con il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, di attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382183.

Questo provvedimento, come noto, operava un trasferimento «per settori organici […] in base a criteri oggettivi desumibili dal pieno significato che esse hanno e dalla più stretta connessione esistente tra funzioni affini, strumentali e complementari» (art. 1, comma 3, legge n. 382 del 1975), e trasferiva, nell’ambito del settore organico dei servizi sociali, le funzioni amministrative relative alla materia «istruzione artigiana e professionale», comprensive delle funzioni concernenti «i servizi e le attività destinate alla formazione, al perfezionamento, alla riqualificazione ed all’orientamento professionale, per qualsiasi attività professionale e per qualsiasi finalità, compresa la formazione continua, permanente, ricorrente e quella conseguente a riconversione di

182 Cfr., tra gli altri, art. 4 St. Piemonte; art. 3 St. Lombardia; art. 4 St. Friuli Venezia Giulia; art.

4 St. Liguria; art. 3 St. Emilia Romagna; art. 4 St. Toscana; art. 5 St. Marche; art. 4 St. Molise; art. 7 St. Puglia; art. 5 St. Basilicata.

183 Per un esame analitico delle disposizioni contenute nel D.P.R. n. 616 cit., si rinvia a E. Gizzi,

La ripartizione delle funzioni tra Stato e Regioni. Il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, di attuazione della delega di cui alla legge 22 luglio 1975, n. 382, Milano, 1977 e anche Mastropasqua, Cultura e scuola nel sistema costituzionale italiano, cit. pag. 169 ss.

attività riproduttive, ad esclusione di quelle dirette al conseguimento di un titolo di studio o diploma di istruzione secondaria superiore, universitaria o postuniversitaria» (art. 35 D. P. R. n. 616 cit.).184

Con lo stesso provvedimento vennero altresì trasferite, per ciò che concerne più da vicino la nostra analisi, anche tutte le funzioni amministrative relative alla materia dell’«assistenza scolastica», comprensive delle funzioni concernenti «tutte le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l’assolvimento dell’obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi» (art. 42, comma 1, D.P.R. n. 616 cit.). Tali funzioni venivano, in particolare, attribuite dallo stesso D.P.R. ai Comuni che dovevano svolgerle secondo le modalità previste dalla legge regionale (artt. 43 e 45).185

È proprio in virtù di tale ultima disposizione che le Regioni sembravano collocarsi, per la prima volta nell’ambito dell’ordinamento italiano, «in una posizione di governo centrale, quale motore principale della politica amministrativa del diritto allo studio sul proprio territorio».186

184 La disposizione pose particolari problemi relativi al fatto se con la materia “istruzione

artigiana e professionale” la Costituzione avesse voluto riferirsi alle scuole professionali, di competenza del ministero della pubblica istruzione, ovvero all’addestramento dei lavoratori in vista dell’attività produttiva, di competenza del Ministero del lavoro. La questione veniva risolta da L. Paladin, Diritto

regionale, Padova, 1979, pag. 135, nel secondo senso.

185 Furono soppressi, conseguentemente, i patronati scolastici e le loro funzioni di assistenza

scolastica e i relativi beni venivano attribuiti ai Comuni. Anche in materia di assistenza scolastica universitaria lo stesso D.P.R. n. 616 cit. prevedeva il passaggio delle funzioni del personale e dei beni delle opere universitarie alle Regioni, poi attuato con la legge n. 642 del 1979.

In merito all’art. 45 del D.P.R. n. 616 cit, si deve fare menzione della decisione n. 579 del 1996 del Consiglio di Stato, che ha sancito come la disposizione per cui i Comuni sono tenuti a svolgere i servizi concernenti l’assistenza scolastica secondo le modalità previste dalla legge regionale non consente alle Amministrazioni comunali di disporre limitazioni all’ambito dei soggetti individuati dalla normativa della Regione.

Proprio in ambito locale, la prassi ha dimostrato come si siano registrate nel tempo aperture particolarmente significative per quanto attiene il comparto dell’istruzione a seguito della funzione maggiormente attiva della regione sotto il profilo della programmazione, in settori quali, ad esempio, quelli dell’educazione permanente. Si veda, in proposito, la legge regionale toscana n. 6 del 1996.

186

Cfr. Morzenti Pellegrini, Istruzione e formazione nella nuova amministrazione decentrata

della Repubblica, Giuffrè Milano, 2004, pag. 48, il quale osserva peraltro come: «il perdurante vigore del

principio del parallelismo tra l’art. 117 e 1118 Cost., in base al quale a ciascun livello territoriale spettava la gestione amministrativa delle materie in relazione alle quali deteneva la competenza normativa», favorisse «la permanenza di un assetto amministrativo fortemente centralizzato, in quanto caratterizzato dal controllo statale sull’esercizio delle competenze regionali attraverso la funzione di indirizzo e coordinamento».

Oggetto di un trasferimento in blocco alle Regioni era poi la materia dei «musei e biblioteche di enti locali» (art. 47 D.P.R. n. 616 cit). Sul punto si rinvia a L. Paladin, Diritto regionale, cit. pag. 139.

Su di un piano della prassi attuativa, le stesse sembravano dimostrare l’intento di voler recepire le indicazioni del legislatore nazionale, spesso diversificando gli interventi rientranti nell’ambito dell’assistenza scolastica, il cui concetto veniva così ad ampliarsi in corrispondenza al nuovo modo di intendere la scuola non più come ente legato unicamente all’attività di istruzione ma con riguardo al suo legame, più in generale, con le diverse problematiche presenti nel mondo giovanile187.

Ulteriore motivo di estensione del concetto di assistenza scolastica era, del resto, quello rappresentato dal finanziamento della scuola privata, nella fattispecie della scuola materna, regolamentato da alcune leggi regionali, quale strumento, anche questo, finalizzato alla piena realizzazione del diritto all’istruzione188.

Nonostante queste aperture nei confronti e da parte del legislatore regionale, permaneva, tuttavia, quale significativo limite ad un effettivo decentramento di funzioni, la necessità che gli spazi di autonomia si arricchissero del potere di disporre di maggiore autonomia funzionale ed organizzativa rispetto al passato189.

Queste diverse istanze trovavano parziale ricezione nella legge n. 549 del 1995190che istituiva la tassa regionale per il diritto allo studio universitario191 quale tributo proprio delle regioni, il cui pagamento veniva considerato presupposto indispensabile per l’immatricolazione, con l’obbligo della sua integrale utilizzazione per la corresponsione delle borse di studio e dei prestiti d’onore (art. 20).

187 Si può far riferimento, in questa sede, all’attività legislativa della regione Emilia Romagna.

Con la legge regionale n. 21 del 1996, infatti, al fine di garantire la partecipazione autonoma dei giovani e degli adolescenti alle diverse espressioni della società civile, la regione promuove e coordina politiche volte a favorire il pieno sviluppo della personalità di questi, individuando, quali ambiti prioritari di intervento, oltre alla famiglia ed all’ambiente esterno, proprio i contesti scolastici e lavorativi. Tra i compiti che si propone la regione Emilia Romagna rientra anche quello, tipico di una politica consona allo Stato sociale, la lotta contro la dispersione scolastica, proponendosi la stessa di promuovere, con opportuni interventi in campo informativo, formativo e sociale la prosecuzione degli studi per una scolarità piena dopo l’obbligo (art. 21). È significativo, in tal senso, che la legge emiliana predisponeva anche l’istituzione di un apposito comitato per le politiche giovanili, composto di assessori regionali delegati alle materia del diritto allo studio, formazione professionale e mercato del lavoro, cultura, informazione, sport e tempo libero, servizi sociali, presieduto dall’assessore regionale delegato alle politiche giovanili.

Un esempio meno recente di legge regionale sul diritto allo studio ma indicativa anch’essa di una nuova dimensione più ampia dell’assistenza scolastica era rappresentata dalla legislazione pugliese. La legge regionale della Regione Puglia n. 42 del 15 maggio 1980, prevede interventi per combattere l’uso di droghe e la predisposizione di centri regionali di servizi educativi e culturali al fine di prevenire la delinquenza minorile collegata alla mancata fruizione del diritto allo studio.

188 Si veda la legge regionale Piemonte n. 61 del 1996 e legge regionale Emilia Romagna n. 52

del 1995.

189 In particolare, per esempio, le Regioni richiedevano l’abolizione del vincolo delle

convenzioni obbligatorie da stipularsi con le università (ex art. 5, comma 5 della legge n. 537 del 1993).

190 “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. 191

La legge citata ha costituito, indubbiamente, un altro fattore di spinta verso una più cospicua produzione legislativa regionale in tema di diritto allo studio, nella misura in cui molte regioni hanno iniziato ad adeguare le proprie normative alle statuizioni della stessa, ponendosi, dunque, nella prospettiva di dar vita ad primo tentativo di decentramento fiscale nel campo del diritto allo studio.192

L’indicazione del legislatore statale veniva variamente recepita in ambito regionale tanto che, se nella maggior parte dei casi le leggi regionali si sono limitate unicamente a fissare l’entità dell’importo, alcune, come la legge regionale pugliese, hanno approfittato subito dell’occasione per porre in essere una disciplina organica del diritto allo studio che si proponeva, da un lato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto risultano limitativi dell’uguaglianza dei cittadini nell’accesso all’istruzione superiore e, dall’altro, a consentire a capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi193.

Nell’ambito di questo quadro e sempre allo scopo di mettere in luce i gradi di maggiore autonomia che le regioni andavano acquisendo in tema di diritto allo studio universitario, va fatta menzione anche del Dpcm 30 aprile 1997, in materia di uniformità di trattamento sul diritto agli studi universitari, considerato in dottrina «un

Documenti correlati