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Elogio della disarmonia e, a distanza di due anni, nel 1988, Il feticcio quotidiano segnano, nella seconda metà degli anni Ottanta, gli andamenti riflessivi seguiti da Dorfles per tracciare

III. La postmodernità e il ritorno alla pittura

8. Elogio della disarmonia e, a distanza di due anni, nel 1988, Il feticcio quotidiano segnano, nella seconda metà degli anni Ottanta, gli andamenti riflessivi seguiti da Dorfles per tracciare

il panorama – artistico, psicologico, sociologico e antropologico – di una «società come la nostra che», avvisa l’autore, «ama credersi totalmente razionale e persino aridamente desacralizzata» ma che «in realtà» è «minata da continue e vistose spinte mitiche, dal bisogno universale di seguire nuovi simboli, dalla generalizzazione di pratiche che non si possono

476 Per un più puntuale approfondimento sull’argomento si rinvia almeno a R. Castile, The way of tea,

John Weaterhill, Tokyo 1971; K. Okakura, The book of tea, cit.; Soshitsu Sen XV, Chado. The

japanese way of tea, cit.; Lu Yu, Il canone del tè, Leonardo Editore, Milano 1990; J. L. Anderson, An Introduction to Japanese Tea Ritual, SUNYP, New York 1991; M. De Giorgi, La via del tè nella spiritualità giapponese, Morcelliana, Brescia 2007.

477 G. Dorfles, Elogio della disarmonia, cit., p. 71.

478 A. W. Watts, The Way of Zen, Pantheon Books, New York 1957; trad. it., La via dello zen,

Feltrinelli, Milano 1960, e, particolarmente, del secondo capitolo, il paragrafo IV, Lo Zen e le arti, pp. 190-218.

spiegare dal punto di vista della tecnica e dell’economia ma piuttosto da quello dell’estetica e del mito»480.

Mentre Jean Baudrillard con La sparizione dell’arte, apre la collana Terzo millennio dei Flash Art Books, e traccia – con riferimenti ben precisi481 – una linea sulla simulazione (sulle simulazioni) del contemporaneo in cui l’opera d’arte si presenta, ormai, sulla «vertigine dell’oscenità»482, come una merce con valore estetico483, e mentre Filiberto Menna, nello stesso anno – è il 1988, appunto –, come terzo volume della stessa collana che accoglie il testo di Baudrillard e, grosso modo, sulla stessa linea assiale di pensiero, elabora Il progetto moderno dell’arte, Dorfles, propone, a pochi mesi di distanza – nell’ottobre dello stesso anno –, un’analisi della società e dell’estetica contemporanea che trova nel feticcio quotidiano non solo un titolo significativo ma anche il sintomo di una società estetica (ed esteticizzata) in cui va ristabilito, necessariamente, un nuovo rapporto con l’intervallo e con il silenzio per far fronte ad una mitizzazione negativa che, in Nuovi riti, nuovi miti «definivo», dice Dorfles, «“mitagogia”; appunto ad indicarne il carattere compulsivo e coatto». «In altre parole», sottolinea l’autore (e conviene citare per esteso), «mentre secondo molti autori (da Cassirer a Hilmann per non citare che i più noti “mitologi”) il mito sarebbe sempre da considerare come positivo, io ritengo che molto spesso lo stesso si debba considerare come negativo, appunto

480 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, Feltrinelli, Milano 1988, quarta di copertina. 481

«I miei riferimenti sulla condizione moderna dell’arte (non penso che ne esista una postmoderna)», avvisa l’autore, «sono poco numerosi: vanno da Baudelaire e le sue riflessioni sulla modernità, a Benjamin e l’analisi dell’opera d’arte e la sua riproducibilità tecnica, fino a Mac Luhan e la sua pragmatica elettronica dell’immagine e a Andy Warhol e la sua pratica ultramediatica dell’arte, e direi la sua “inestetica trascendentale” – o eutanasia dell’arte attraverso se stessa». J. Baudrillard, La

sparizione dell’arte, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988, p. 6.

482 J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, cit., p. 11. «L’oggetto d’arte», prosegue l’autore, «nuovo

feticcio trionfante (e non triste feticcio alienato!) deve lavorare a decostruire da sé la sua aura tradizionale, la sua autorità e la sua potenza di illusione per rispondere all’oscenità pura della merce» (p. 11).

483 L’opera d’arte, sottolinea Baudrillard, deve «diventare più merce della merce»; deve andare «più in

là ancora del valore d’uso, ma sfuggendo perfino al valore di scambio», anzi, «radicalizzandolo». J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, cit., p. 9. Ad aggravare la «nostra cultura dominante», suggerisce ancora l’autore, è una estetizzazione generale delle cose che ha portato ad un «grado Xerox della

cultura» (p. 21) sicché, Baudrillard potrà dire, poi, negli anni Novanta, con una metafora felice, che la guerra del Golfo non è mai esistita (J. Baudrillard, La guerre du Golfe n'a pas eu lieu, Galilee,

come capace di indurre l’uomo in pratiche o in riflessioni aberranti e tali da trasformare l’oggetto mitico, o in genere l’espressione di un pensiero immaginifico, in un feticcio, dunque in un simulacro ingannevole, in una distorsione del pensiero che può condurre alle peggiori forme di inefficienza espressiva e creativa»484.

Così, per far fronte ai pericoli e alle distrazioni di una società che Mario Perniola ha definito, con vivace acume, dei simulacri485, «dove il concetto di feticcio», avvisa Dorfles, «era usato in un’accezione non lontana della mia»486, tornano presenti e riattualizzati, ora, alcuni lineamenti «dell’ormai antico Simbolo comunicazione consumo (1962), dove cercavo di fare il punto sui problemi della comunicazione simbolica e dell’entropia di tale comunicazione». Accompagnati, questi, da altri lavori, «Nuovi riti, nuovi miti (1965)», appunto, «che prendeva in considerazione le nuove espressioni di un pensiero mitico attuale contrapposto a un pensiero “razionale”» e, naturalmente, al più recente Elogio della disarmonia (1986) «dove mi sforzavo di precisare l’importanza che, ai nostri giorni, spetta – non solo nel settore artistico ma in quello socio-psicologico – all’avvento d’un elemento disequilibrante, disarmonico, dissimmetrico»487.

Sul finire degli anni Ottanta, mentre si delineano i primi spettri di un mondo (e di un modello) artistico ed estetico che guarda con sempre maggiore interesse al vivente [in cui l’homo faber lascia il posto all’homo creator (secondo l’accezione proposta da Günther Anders)]488 – nel 1992, infatti, il gallerista e critico d’arte americano Jeffrej Deitch conia l’appellativo Post- Human489 –, e mentre Lyotard si chiede se il postmoderno sia parte stessa del moderno490,

484 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 8.

485 M. Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna 1980. 486 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 9.

487 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 7.

488 G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Uber die Seele im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, 2, C. H. Beck, Munchen 1995; trad. it., L’uomo e antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

489 Si veda J. Deitch, a cura di, Post Human, cat della mostra tenuta al FAE Musée d’Art

Contemporain di Pully-Losanna nel giugno del 1992 e, in seguito, al Castello di Rivoli – Torino (nel novembre del 1992), alla Deste Foundation for Contemporary Art di Atene (3 dicembre 1992 - 14 febbraio 1993) e, infine, al Deichtorhallen Hamburg (12 marzo-9 maggio 1993). Gli artisti in mostra: Dennis Adams, Janine Antoni, John M Armleder, Stephan Balkenhol, Matthew Barney, Ashley Bickerton, Taro Chiezo, Clegg & Guttmann, Wim Delvoye, Suzan Etkin, Fischli Weiss, Sylvie Fleury, Robert Gober, Felix Gonzalez-Torres, Damien Hirst, Martin Honert, Mike Kelley, Karen Kilimnik, Martin Kippenberger, Jeff Koons, George Lappas, Annette Lemieux, Christian Marclay, Paul

Dorfles spinge la propria riflessione lungo un sentiero che tende a recuperare mitologemi individualizzati491, e a riscoprire gli itinerari del Bildhafte Denken, «dell’irrazionale», e «del simbolico». A questi itinerari estetici da seguire, però, se ne aggiungono altri, «mai svolti in precedenza», mette in risalto l’autore, «come quello del “silenzio”, che si riallaccia al concetto di “intervallo” di cui ebbi a trattare nel mio L’intervallo perduto (1980)»492.

Per Dorfles, il silenzio – «l’entità silenzio» identificata «con l’“entità-intervallo”» – è, sul finire del millennio, la contrada privilegiata per far ritorno ad un indispensabile (e ricercato, o da ricercare) vuoto esistenziale in quanto essenzialità depurativa. Un territorio estetico visto «come cessazione del rumore, del suono, d’ogni attività esplicita; ma anche», rileva Dorfles, «come presenza di qualcosa che non è definibile se non tautologicamente affermando che, durante il silenzio, si svolge qualcosa che è, per l’appunto, l’avverarsi del silenzio stesso: dunque come realizzarsi di qualcosa di positivo, di a sé stante»493. Un silenzio che si fa, di conseguenza, per l’autore, consapevolezza del «Sunyata (il vuoto)»494 e, nel contempo traversa significativa «nella quale sia possibile attingere delle ancora inespresse forze creative»495. Quelle stesse forze che alimentavano, i teatri della mente496 di leopardiana

McCarthy, Yasumasa Morimura, Kodai Nakahara, Cady Noland, Daniel Oates, Pruitt Early, Charles Ray, Thomas Ruff, Cindy Sherman, Kiki Smith, Pia Stadtbäumer, Meyer Vaisman e Jeff Wall.

490

J.F. Lyotard, Le Postmoderne explique aux enfants. Correspondance 1982-1985, Galilee, Paris 1986; trad. it., Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987.

491 «La vigorosa ripresa della figuralità, in parte di derivazione post-espressionista, in parte legata a

episodi popolareschi (graffitisti newyorkesi ecc.), in parte alla riscoperta di elementi fiabeschi e mitici (Paladino, Penck, Disler, Winnewisser), sta a dimostrare», nota l’autore, «come anche queste nuove immagini siano del tutto avulse da quella facile decriptabilità che valeva ancora per l’arte del secolo scorso; e siano, invece, improntate a quella che potremmo definire una rinascita di “mitologemi individualizzati”». E, in altro luogo, Dorfles, dichiara e afferma, per stabilire il proprio parere di fronte all’avanzare smodato e incontrollabile dei mass media, che «l’unica salvezza possibile per l’arte futura – e ovviamente per l’attuale – è nella sua capacità di saper ricostruire un mito». G. Dorfles, Il feticcio

quotidiano, cit., p. 20 e p. 21. 492

G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 8.

493 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 79.

494 G. Dorfles, Il feticcio quotidiano, cit., p. 80 n. 2. Per tale argomentazione trattata da Dorfles si veda

anche G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 1992.

memoria – quei sovrumani silenzi e quella profondissima quiete in cui il pensier si finge –, sono, per Dorfles «quella condizione» di un silenzio che si presenta «non come negatività dei dire, del fare, del contemplare, ma anzi come matrice di ogni potenziale di creazione»497. Come località, fisica e psichica insieme, alla quale ormeggiare per degustare, ancora una volta, i ritmi della creazione e svolgere, inoltre, un corretto intervento critico. Ma anche per cogliere, infine, in un mondo tempestato di rumori e sovraccarico d’immagini, attraverso una sana sospensione – è sempre Dorfles a evidenziarlo –, le voix du silence che è, naturalmente, la latitudine del vivente immerso, quest’ultimo, nella propria naturalità, nell’ospitalità, nel rispetto dell’altro e del sé.

496 F. Petrella, La mente come teatro. Antropologia teatrale e psicoanalisi, Centro Scientifico Torinese,

Torino 1985.

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