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Il discorso della critica

4. Per una genealogia del discorso moderno su diritto e violenza

4.3 Il discorso della critica

Uno dei grandi teorici del Novecento che si è soffermato con maggiore consapevolezza sul rapporto che intercorre tra il diritto e la violenza, è sicuramente Walter Benjamin.50 La sua riflessione sul tema, confluita nello scritto

Zur Kritik der Gewalt,51 venne condotta negli anni 1920-1921, in un'epoca in cui gli echi delle rivoluzioni in Germania e in Russia erano ancora molto forti. Probabilmente, fu proprio la loro forza a costringere Benjamin ad avviare una profonda riflessione sulla legittimità di quella violenza che, avendo travalicato

50 Così Mauro Balestrieri, La penna e la spada. Ambiguità e conflitto in Jorge Luis Borges, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, vol. XIX, n. 1, spring-summer 2013, p. 7.

51 Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, Jg. 47 (1920/21), H. 3 (August 1921), pp. 809-832, ora in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II/1, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, pp. 179-203; tr. it di Massimiliano Tomba, Per la critica della violenza, testo tedesco a fronte, Alegre, Roma, 2010.

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ogni contesto di giuridificazione nazionale, finì per sfociare nelle insurrezioni rivoluzionarie.

Sappiamo che, al momento della stesura del saggio Zur Kritik der Gewalt, Benjamin si era già imbattuto in autori come Charles Péguy, Georges Sorel e Erich Unger ed aveva, quindi, acquisito consapevolezza del momento storico che stava vivendo per mezzo delle loro voci.52 Quando cominciò a scrivere la sua critica, probabilmente agì sotto l'impulso di una violenza dilagante, di fronte alla quale bisognava correre ai ripari.

Lo scoppio e il fallimento della rivoluzione del 1918; la consapevolezza dell'urgenza di una questione palestinese; gli effetti di depauperamento causati dall'economia capitalistica furono gli eventi che delimitarono lo scenario storico- politico in cui Benjamin scrisse. Non a caso, l'intero saggio può considerarsi un compendio delle più importanti problematiche giuridico-politiche del tempo: il diritto di sciopero, lo stato di polizia, la guerra.

Ma, sin dalle prime pagine del testo, si respira qualcosa di diverso da una semplice trattazione dei dilemmi della società capitalistica. In ogni riga si percepisce il bisogno - forse più generale che personale - di trascendere gli eventi, di superarne la materialità e di ricercarne altrove le cause e le possibili soluzioni. Nella sua struttura generale, Zur Kritik der Gewalt è innanzitutto la storia di una immanenza e di una trascendenza che si incontrano nel loro momento ultimo ed estremo e che in quest'istante di condivisione, cessando di contemplarsi l'una attraverso gli occhi dell'altra, diventano una cosa sola.

Per esprimere quest'incontro, Benjamin plasma due coppie concettuali: da un lato, troviamo una violenza che pone, accompagnata da una violenza che

conserva; dall'altro, una violenza mitica in opposizione ad una violenza divina.

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Vedi Axel Honneth, Pathologien der Vernunft. Geschichte und Gegenwart der Kritischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2007, tr. it. di Antonio Carnevale, Patologie della ragione: storia e attualità della teoria critica, PensaMultimedia, Lecce, 2012, p. 130: ―Tra i maggiori riferimenti che si trovano nelle lettere che il filosofo spedì regolarmente tra il 1918 e il 1921 agli amici Gershom Scholem e Ernst Schoen […] ricorrono i nomi di tre pensatori, il cui raggio di influenza ricade in varia misura nell'ambito predominante della teoria politica: Charles Péguy, Georges Sorel ed Erich Unger‖. Si veda anche Dominick LaCapra, Violence, Justice, and The Force of Law, in Cardozo Law Review, vol.11, n. 1065, 1989-1990, p.1065: ―Sorel's text is crucial for Walter Benjamin in Zur Kritik der Gewalt […] in which the fascination with violence has at least the status of a revenant‖.

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Questa dualità concettuale, alla quale Benjamin ricorre per rendere possibile la sua critica, non è mai solo diversità che, in quanto tale, pone e conserva due forme come distinte; essa è anche identità illegittima poiché, in quanto differenza, fa uso del suo contrario per esplicitarsi e facendovi riferimento lo incorpora, creando un'unità che doveva essere mantenuta distinta.53 Tutto il discorso benjaminiano ruota intorno a qualcosa che poi improvvisamente, senza volerlo, assume la veste d'altro. Come leggere, dunque, Zur Kritik der Gewalt? Da un lato, sarebbe riduttivo circoscrivere il testo negli spazi angusti delle analisi di teoria politica e di teoria del diritto. Dall'altro, costituirebbe un azzardo una lettura del saggio solo in chiave filosofico-religiosa, limitandosi a vedere nel fondamento della violenza una immagine del Dio della tradizione monoteistica giudaico-cristiana.54 Esistono molteplici chiavi di lettura con cui accedere al testo e ognuna di esse costituisce un valido mezzo euristico: c'è la chiave ebraica che permette di opporre la giusta violenza divina (di matrice ebrea) alla violenza mitica (di tradizione greca); c'è il tema dell'annichilimento del diritto e la preoccupazione per la tutela dei diritti dell'uomo; c'è la crisi della democrazia borghese, liberale e parlamentare; c'è l'incontro tra il linguaggio della rivoluzione marxista e quello della rivoluzione messianica; da ultimo, c'è il problema dell'origine e dell'esperienza del linguaggio,

53 Sul double bind che struttura il discorso benjaminiano intorno alla violenza che pone e alla violenza che conserva, si veda Jacques Derrida, Force de Loi. Le «Fondement mistyque de l'autorité», Galilée, Paris, 1994, tr. it di Francesco Garritano, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell'autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2010 [2003], p. 106: ―Queste opposizioni benjaminiane sembrano dunque più che mai da decostruire; esse si decostruiscono da sole, anche come paradigmi della decostruzione. Ciò che sto dicendo è assolutamente conservatore e anti- rivoluzionario. Infatti, al di là del discorso esplicito di Benjamin, proporrò l'interpretazione secondo cui la violenza stessa della fondazione o della posizione del diritto (rechtsetzende Gewalt) deve implicare la violenza della conservazione del diritto (rechtserhaltende Gewalt) e non può rompere con essa. Appartiene alla struttura della violenza fondatrice il fatto che essa chiama la ripetizione di sé e fonda ciò che dev'essere conservato, conservabile, promesso all'eredità e alla tradizione, alla condivisione‖.

54 Cfr. Axel Honneth, Pathologien der Vernunft, op. cit., pp. 128: ―È del tutto evidente che il reale tema non fosse il posto spettante alla violenza all'interno del diritto moderno; né Benjamin intendeva dare risposta alla semplice domanda sulla possibilità di una violenza del diritto (alla quale, molto probabilmente, egli avrebbe risposto in maniera affermativa). Ad attirare il suo interesse erano, invece, sia la fonte che la forma della violenza, caratteristiche che le attribuiscono una tale capacità di rovesciamento dei rapporti reali da poter causare la fine dell'intero impianto delle istituzioni del diritto. Come presto il testo svela, secondo Benjamin fondamento e principio di una violenza trasformatrice come questa non poteva che essere il Dio della tradizione monoteistica giudaicocristiana. È per questo che si può affermare che lo scritto Per la critica della violenza, non diversamente da altri composti prima ma anche dopo, sia un saggio fìlosofico- religioso‖.

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sebbene quest'ultima chiave di lettura trovi spazio solo nelle cantine del discorso benjaminiano sulla violenza.

Considerata la varietà di tematiche che l'autore concentra in un testo così breve come Zur Kritik der Gewalt, sarebbe preferibile astenersi tanto da letture unidirezionali, le quali mettano in risalto solo uno dei tanti temi affrontati da Benjamin, come anche da interpretazioni esaustive, le quali pretendano di fornire un elenco completo di tutte le questioni poste.

Tuttavia, ogni lettura ha il suo punto di vista privilegiato, a partire dal quale domina l'opera e si lascia dominare da essa. Questo punto di vista proviene dall'esterno, precede il testo e la sua esistenza prescinde da quella del testo stesso. Il fatto che dopo l'incontro con l'opera, quel punto di vista, dapprima generico, diventi poi il punto di vista privilegiato del testo, significa solo che il lettore e la sua idea hanno trovato un terreno fecondo dove germogliare e non che il testo ha plasmato quel punto di vista come se, prima di quest'incontro, questo non fosse mai esistito. Esso resta esterno e sempre infedele all'opera. Non esistono interpretazioni fedeli del testo perché ogni lettura comincia con un tradimento: quello del punto di vista che precede e inganna la voce dell'autore del testo.

Anche chi scrive ora, in qualità di lettore/traditore, si è affacciato al saggio di Benjamin con un determinato punto di vista: l'idea che esista una relazione strettissima tra il diritto e la violenza, la quale può condurre in alcuni momenti e in presenza di determinate circostanze ad una con-fusione dei due poli della distinzione. Se, come ha scritto E. Resta, il diritto è ―il luogo in cui si è giocata, e si continua a giocare, la scommessa di una differenza rispetto alla violenza‖55

, un'analisi che abbia come unico obiettivo quello di vedere come si struttura questo rapporto non può essere sufficiente. Ad essa deve necessariamente seguire una ricerca della pratiche sociali attraverso le quali sia possibile ingannare la violenza.

L'inganno della violenza […] consiste nel dar forza a una legge condivisa, convenzionale e artificiale sino in fondo, ma proprio per questo capace di evitare che i cittadini si riapproprino delle armi (ne cives ad arma ruant). È lo stesso inganno che i parlamenti mettono in essere quando sostituiscono le parole alle armi. Del

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resto, non a caso, parlamento si chiama parlamento. L'inganno allontana la violenza sostituendola: il raggiro evita il muso contro muso della battaglia vera, allontana la guerra incorporandola e neutralizzandola. […] L'inganno è saggezza singolare di un raggiro che non nega la violenza e la rimuove lasciandola covare, ma la prende sul serio e la trasforma.56

Ammettere che esista una relazione strettissima tra il diritto e la violenza equivale a prendere sul serio il problema della violenza e a muovere i primi passi verso una critica della stessa. Il saggio di W. Benjamin costituisce un punto di riferimento imprescindibile per chiunque decida di offrire un contributo sul tema, non tanto perché si preoccupa di chiarire i rapporti che intercorrono tra il diritto e la violenza,57 quanto perché concepisce quest'ultima come qualcosa di impensabile al di fuori del diritto, della politica e della morale.58 Nella nozione benjaminiana di violenza c'è spazio solo per quei poteri costrittivi che incidono sulle relazioni etiche e che pertanto possiedono un'attitudine moralizzatrice, capace di costringere una società al cambiamento. La violenza non è un fenomeno naturale, una tendenza abituale dell'uomo a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale; tutte le metafore organiche, di cui è pieno il dibattito sul tema e che la rappresentano come un istinto vitale, la sottraggono irresponsabilmente alla sfera del sociale, rendendo impossibile un suo trattamento da parte della società stessa. Per criticare la violenza e discutere circa gli strumenti attraverso i quali

56 Eligio Resta, La certezza e la speranza, op. cit., p. XII.

57 Per una trattazione dei rapporti tra il diritto e la violenza che anticipa il lavoro benjaminiano, si vedano: Rudolf von Jhering, Der Zweck Im Recht, vol. 1, Breitkopf e Härtel, Leipzig, 1884 [1877]; Georges Sorel, Réflexions sur la violence, Deuxième, Paris, 1910.

58 Cfr. Axel Honneth, Pathologien der Vernunft. Geschichte und Gegenwart der Kritischen Theorie, op. cit., pp. 135,136: ―[…] sotto la nozione di violenza devono essere inclusi solo quei poteri costrittivi che non solo vanno a incidere sulle relazioni etiche, ma che sono essi stessi corredati di una validità etica. Corrispondentemente, nel suo studio, l'autore si è soffermato soprattutto sull'analisi di quelle forme di violenza che possiedono una legittimazione morale sufficiente a poter costringere una società a trasformazioni.‖; Jacques Derrida, Force de Loi, op. cit., p. 96: ―Il concetto di violenza (Gewalt) consente una critica valutatrice soltanto nella sfera del diritto e della giustizia (Recht, Gerechtigkeit) o dei rapporti morali (sittliche Verhältnisse). Non c'è violenza naturale o fisica. Si può in modo figurato parlare di violenza a proposito di un terremoto o anche di un dolore fisico. Ma si sa che in tal caso non si tratta di una Gewalt che possa dar luogo a un giudizio, davanti a qualche apparato di giustizia. Il concetto di violenza appartiene all'ordine simbolico del diritto, della politica e della morale - di tutte le forme di autorità o di autorizzazione, di pretesa all'autorità almeno. Ed è soltanto in questa misura che un tale concetto può dar luogo a una critica‖.

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rafforzarne la differenza rispetto al diritto, occorre sottrarla al dominio delle scienze naturali - biologia, etologia, zoologia, etc. - e ricondurla nel campo delle scienze sociali. In questa direzione, non si può prescindere dall'opera di W. Benjamin, a cui va riconosciuto il merito di avere vincolato la violenza ai rapporti etici e di averne fortemente osteggiato ogni tematizzazione in chiave naturalistica. Riflettendo sulla storia del diritto, ed in particolar modo sulla fondazione violenta degli ordinamenti giuridici moderni (affermatisi a seguito di rivoluzioni, ribellioni, guerre civili, occupazioni militari, etc), Benjamin si rende conto che la violenza, che un tempo circolava liberamente nella società come mezzo teso al soddisfacimento diretto dei bisogni di singoli individui o di una minoranza, cessa improvvisamente di essere terra nullius per divenire monopolio del diritto moderno. Cosa rende necessaria o semplicemente favorisce quest'appropriazione? Più fattori: l'imprevedibilità della violenza; l'intensità delle sue manifestazioni; l'esigenza di opporle qualcosa che la tenga a freno. Infatti, muovendosi incontrollatamente, come semplice mezzo a disposizione di chiunque, senza limiti e senza sovrani, la violenza espone la collettività all'insostenibile imprevedibilità delle sue manifestazioni. Occorre pertanto intervenire, inventare una tecnica attraverso cui governare un aspetto sociale che dispone di una forza eccessiva, in eccesso, capace di annientare una società intera. Non si tratta di eliminare la violenza ma di controllarla, di incanalarla, di renderla in qualche modo prevedibile. È in risposta a questa esigenze che interviene il diritto, come tecnica di governo di ciò che sembra ingovernabile. Esso si appropria di tutta la violenza disponibile e la esercita in via esclusiva, nella forma dura dell'applicazione della legge o in quella più blanda della minaccia dell'attuazione del disposto normativo. Questo non significa che, con l'avvento del diritto moderno, la violenza smette di circolare nella società e confluisce in uno spazio circoscritto. Al contrario, essa continua ad essere a disposizione del singolo e della massa, ma con varianti significative rispetto al passato: ogni ricorso non autorizzato ad essa costituisce esercizio illegittimo della stessa; di fronte all'esercizio illegittimo della violenza il singolo dispone di procedure istituzionalizzate che gli consentono di ottenere giustizia; per ogni tipo di violenza illegittima è prevista una sanzione specifica.

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In definitiva, sebbene le azioni violente continuino ad essere imprevedibili, le conseguenze giuridiche a cui esse rinviano, invece, diventano sempre più prevedibili. Questa conquista in termini di governo/disciplina della violenza, emblematica del duro cammino della società verso livelli di civiltà sempre più alti, riposa però su un vuoto teorico abissale, di fronte al quale, oggi, nessun diritto coscienzioso si affaccia.

Monopolizzando la violenza e reprimendo ogni ricorso non autorizzato alla stessa da parte del singolo o di una comunità organizzata, il diritto moderno introduce sì la distinzione tra una violenza legittima (quella esercitata dal sistema giuridico a fini giuridici) ed una violenza illegittima (quella esercitata dal singolo o da un gruppo a fini naturali) e fornisce sì un valido criterio per giudicare dell'illegittimità della violenza (la non giuridicità dei suoi fini); ma sottrae frettolosamente il primo polo della distinzione ad un test di legittimità. Come giudicare, infatti, della legittimità della violenza legittima? Come qualificare cioè quella violenza che in quanto interna al diritto non può ricorrere a categorie giuridiche per qualificarsi e che dunque non può semplicemente essere chiamata legittima per risultare veramente legittima? Scrive Derrida, in Forza di legge:

Come distinguere fra la forza di legge di un potere legittimo e la presunta violenza originaria che ha instaurato questa autorità e che non poteva dunque avvalersi di alcuna legittimità precedente, così da non essere, in quel momento iniziale, né legale né illegale, o come qualcuno potrebbe dire in modo sommario né giusta né ingiusta?59

Né la legalità, né la legittimità e neppure la giustizia stessa costituiscono criteri validi per giudicare la violenza legittima. Sostenere che la forza esercitata dal diritto è legittima perché proviene da un'autorità legittima, implica l'ingresso in una tautologia senza vie di fuga. Allora, come giudicare, come criticare?60 È

59 Jacques Derrida, Force de Loi, op. cit., p. 53. 60

I verbi giudicare e criticare vengono qui utilizzati come sinonimi, conformemente all'interpretazione che J. Derrida dà del concetto benjaminiano di critica. Cfr. Jacques Derrida, Force de Loi, op. cit., p. 96: ―Nel titolo Zur Kritik der Gewalt, «critica» non significa semplicemente valutazione negativa, rigetto o condanna legittima della violenza, ma giudizio, valutazione, esame che si dà i mezzi per i giudicare della violenza‖.

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questo il dilemma da cui Benjamin parte ed è anche il punto in cui la sua critica della violenza si converte nella critica del diritto.

Per trattare il paradosso a cui introduce il gioco del diritto e della violenza, Benjamin parte da una distinzione basata sul tipo di funzione svolto dalla violenza: da un lato, pensa una violenza fondante che ha la funzione di porre nuovo diritto, dall'altro studia una violenza di mantenimento che serve al diritto per conservarsi.61 Tracciando la differenza tra un momento originario, in cui un nuovo ordine viene fondato, ed un momento successivo, nel quale il diritto posto diventa operativo, Benjamin crede di poter salvare, valutare positivamente, almeno uno degli usi che il sistema giuridico fa della violenza, quello dispositivo, che ha a che fare con la creazione di nuovo diritto. Di fatto, nell'istante in cui gli ordinamenti giuridici moderni nascono, quando ancora nessuna violenza si distingue da altra violenza, il ricorso alla forza estrema da parte del diritto - con il fine di curare le incontrollate manifestazioni di vis absoluta che affliggono la società - può essere giudicato positivamente. Si tratta di una violenza fondante, la quale diventa occasione per il diritto di istituirsi e di operare come pharmakon per i mali della società e che può perciò essere giustificata, a condizione che rompa definitivamente con la violenza. Per questa vis che pone, esiste un valido criterio di giudizio che è esterno al diritto e che coincide con il fine naturale di controllare la violenza. Ma, come governare la violenza e, al tempo stesso, starne lontano? W. Benjamin risponde a questa domanda in modo molto propositivo e concreto:

È in generale possibile la composizione non violenta di conflitti? Senza dubbio. I rapporti fra persone private ne offrono svariati esempi. L'accordo non violento ha luogo ovunque la cultura del cuore metta a disposizione degli uomini mezzi puri di intesa. A tutti i mezzi legali e illegali, che sono sempre violenza, è quindi lecito opporre mezzi non violenti in quanto mezzi puri. Gentilezza d'animo, simpatia, amore della pace, fiducia e quanto ancora si potrebbe qui menzionare, costituiscono il loro presupposto soggettivo. La loro manifestazione oggettiva è invece determinata dalla legge […] secondo cui i mezzi puri non sono mai mezzi di soluzioni immediate, ma sempre mediate.62

61 Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 71. 62

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La proposta non è utopica, ma il primo a non credere in essa è l'autore stesso. Gli eventi del primo ventennio del Novecento lo hanno disilluso. La storia gli ha raccontato una realtà differente. Egli ha visto coi propri occhi l'incapacità degli ordinamenti giuridici moderni di emanciparsi dalla spirale di forza dalla quale sono nati e di fare a meno di quella violenza conservativa, che li conserva legittimandosi e che si conserva legittima conservandoli.

Non dobbiamo dunque stupirci se l'autore, spinto da un comprensibile scetticismo, decida di rivoluzionare, a partire dalle ultime pagine del saggio, l'intera struttura dello stesso. Come avevamo anticipato nell' apertura di questo paragrafo, il discorso benjaminiano della critica è innanzitutto il discorso di qualcosa che improvvisamente si tramuta in altro, la storia di una differenza che perde la scommessa di mantenersi differente e che nel suo ritorno all'origine delle