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Il discorso sopra succintamente svolto è infatti generalizzabile, proiettandosi ben al di là del campo

di esperienza coperto dalle innovazioni al piano costituzionale. La Corte invero non sembra voler far propria, in via di principio, una prospettiva assiologicamente orientata di osservazione delle vicende della normazione; e, tuttavia, in non pochi casi proprio questo sembra essere il “metodo” seguito al momento della qualifica delle vicende in parola.

Farò ora solo i primi esempi che mi vengono in mente; prima di dirne, però, mi preme mettere subito in chiaro che essi possono prestarsi a valutazioni di vario segno, per le specifiche esigenze ricostruttive di questo studio, con un tendenziale orientamento tuttavia, che traspare dalla giurisprudenza cui si fa adesso cenno, di “copertura” nei riguardi della politica e delle sue più vistose espressioni.

Si pensi, ad es., al caso di norme dalla dubbia conformità a Costituzione ovvero dalla certa, acclarata (dalla stessa Corte) incostituzionalità. Norme fatte però ugualmente salve, a motivo della congiuntura (straordinaria o di “emergenza”, latamente intesa) che ne giustifica l’adozione e/o degli interessi di cui esse si fanno cura o ancora di taluni bisogni elementari dell’uomo il cui mancato appagamento ridonderebbe in una intollerabile ferita alla dignità dell’uomo stesso. È in nome di quest’ultima che, a conti fatti, “saltano” i meccanismi usuali di composizione delle fonti in sistema, coi criteri ordinatori che presiedono alla loro attivazione, da quello gerarchico a quello della lex posterior, all’altro della competenza7.

Ora, la prospettiva assiologico-sostanziale ai miei occhi appare essere la più idonea – secondo modello – ad offrire un servizio non nominale o di facciata alla Carta ed ai suoi valori. Le norme, d’altronde, ovunque poste (in atti costituzionali e non), si scompongono e ricompongono senza sosta in sistema unicamente per il modo con cui, a un tempo, si piegano verso gli interessi per la cui cura sono adottate e si volgono verso i valori, da cui prendono luce, alimento, giustificazione. Eppure, va riconosciuto che la prospettiva stessa è proprio quella che più d’ogni altra dà modo alla “forza politica” di cui la Corte dispone di spiegarsi in tutto il formidabile potenziale di cui è dotata8. La qual cosa poi prende corpo attraverso esperienze processuali che suonano ora conferma ed ora contestazione nei riguardi delle più salienti espressioni della politica.

L’arma è, insomma, potente, anzi potentissima, suscettibile di essere usata per fini buoni come pure cattivi; nei fatti, nondimeno, si è assistito ad una tendenziale (ed alle volte fin troppo benevola) “copertura” offerta alla politica.

Faccio, come di consueto, solo un paio di esempi, per dare un minimo di concretezza alla succinta riflessione che si va ora facendo. Si consideri, dunque, la giurisprudenza relativa agli atti primari di normazione del Governo, qui ovviamente rivisitata solo in alcuni dei suoi molti profili.

Come leggere, dunque, la “dottrina” della Corte secondo cui i decreti-legge sono censurabili unicamente in caso di “evidente mancanza” dei presupposti fattuali giustificativi della loro adozione?

Riconsiderata questa nota vicenda in prospettiva storica, posta cioè a confronto col tempo in cui nessuna sanzione, per mano della Corte, si riteneva possibile per l’aspetto in parola, non v’è dubbio che sia sensibilmente cresciuto il sindacato sulla politica, nell’intento di arginare la marea montante delle sue

7 Un solo esempio a quest’ultimo riguardo. Si pensi, dunque, al (non paritario) bilanciamento effettuato tra il bisogno di offrire comunque protezione ai diritti fondamentali e il bisogno di preservare integro il riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni, che ha portato (e porta) all’accantonamento del secondo in funzione del prioritario appagamento del primo (così, ad es., in sentt. nn. 10 e 121 del 2010, a proposito della social card). L’intera giurisprudenza costituzionale sulle materie, con l’ambiguo riferimento al canone della “prevalenza” ovvero, nella impossibilità della sua messa in atto, al canone della “leale cooperazione”, esibisce una forte connotazione (latamente) politica, che per vero trae alimento dalla strutturale vaghezza del linguaggio costituzionale e che poi, nei fatti, perlopiù si traduce in un tendenziale avallo nei riguardi delle opzioni fatte dal legislatore statale (in argomento, per tutti, F. BENELLI -R.BIN, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 6/2009, pp. 1185 ss., e riferimenti ivi).

8 La formula della “forza politica” è – come si sa – una delle più felici intuizioni del mio compianto Maestro [v., dunque, di T. MARTINES il suo ormai “classico” Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche (1957), ora in Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, spec. pp. 196 ss.].

deviazioni dal solco costituzionale9. Eppure, non può certo dirsi – a me pare – che la Consulta faccia sentire il fiato sul collo del Governo (e, anzi, di entrambi gli organi della direzione politica, se si considera che le stesse leggi di conversione possono risultare contagiate dal virus invalidante di cui dovessero essere in partenza colpiti gli atti di urgenza del Governo).

Diciamo le cose come stanno. La tesi della “evidente mancanza” non sta né in cielo né in terra né in alcun altro luogo. La Corte – come si è tentato di mostrare altrove – non è stata istituita allo scopo di sanzionare unicamente le violazioni certe della Costituzione bensì per risolvere i casi dubbi, le “controversie”, secondo la non accidentale formulazione dell’art. 13410. Si capisce molto bene la ragione che ha consigliato alla Corte di tracciare e tener ferma sul punto la linea giurisprudenziale suddetta, linea di compromesso tra il bisogno di non esporre la Corte stessa oltre il dovuto o l’opportuno, a pena della sua grave delegittimazione, e il bisogno, non meno rilevante ed apprezzabile, di delimitare l’area delle “zone franche” o – come pure s’è detto – “d’ombra” della giustizia costituzionale11.

Sta di fatto che la “dottrina” della “evidente mancanza” porta tendenzialmente acqua al mulino di una politica vistosamente deviante dal modello costituzionale; costituisce, cioè, la teorizzazione del primato della politica sulla Costituzione, passibile di arresto unicamente in caso di macroscopiche violazioni della Costituzione stessa12. Ciò che, poi, è ancora più gravido di significati e complessive valenze se si tiene conto del fatto che, nelle esperienze fin qui maturate, estremamente ridotti sono stati i casi in cui la mancanza dei requisiti costituzionali è stata giudicata “evidente”.

Se poi – al di là dell’aspetto ora specificamente rilevante – si considera l’andamento complessivo della giurisprudenza sugli atti di urgenza del Governo, possono aversi ulteriori, importanti conferme dell’ipotesi ricostruttiva qui formulata.

L’analisi, a questo punto, si intreccia con quella relativa agli altri atti primari del Governo, i decreti legislativi. Non poche volte si è infatti assistito a decreti-legge che hanno anticipato l’adozione dei decreti delegati (ad es., in fatto di semplificazione) ovvero li hanno modificati in pendenza della delega; e, ancora, si sono avute innovazioni di non secondario rilievo alle stesse leggi di delega, comunemente considerate non consentite dal modello e, ciononostante, fatte salve da una fin troppo indulgente giurisprudenza.

La più sensibile dottrina ha fatto notare che, in realtà, la giurisprudenza è più severa nei riguardi degli atti delegati che nei riguardi delle leggi che li precedono e condizionano13, fatte salve pur laddove il loro

9 Si rammenti al riguardo anche la giurisprudenza sul divieto di reiterazione dei decreti-legge, che nondimeno non ha dato i frutti sperati, forse anche per effetto del temperamento operato dalla stessa giurisprudenza nei riguardi del divieto in parola, con riferimento al caso che possa sopraggiungere una nuova e diversa situazione di emergenza, pur se richiedente di essere fronteggiata con le medesime norme (la qual cosa è invero poco credibile) ovvero che, anche perdurando la vecchia emergenza, il secondo decreto si differenzi sostanzialmente dal primo (nel qual caso, però, non v’è vera “reiterazione”…).

10 Note critiche sul punto, tra gli altri, in A. RAUTI, La giurisprudenza costituzionale in tema di decreti-legge ed i suoi

problematici riflessi sulla forma di governo, in A. RUGGERI (a cura di), La ridefinizione della forma di governo attraverso la giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli 2006, spec. pp. 63 ss.

11 Su ciò, per tutti, i due volumi relativi a due incontri del Gruppo di Pisa, dal titolo emblematico: Le zone d’ombra della

giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi, a cura di R. BALDUZZI e P. COSTANZO, Giappichelli, Torino 2007, e Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sui conflitti di attribuzione e sull’ammissibilità del referendum abrogativo, a cura di R. PINARDI, Giappichelli, Torino 2007.

12 Fa da specchio a questa “dottrina” del sindacato di costituzionalità, per l’aspetto ora considerato, sugli atti del Governo l’altra (ed essa pure non poco discussa e discutibile) “dottrina” di cui s’è fatto portatore il Presidente della Repubblica Ciampi, secondo cui l’esercizio del potere di rinvio delle leggi si giustificherebbe unicamente in casi di manifesta incostituzionalità delle leggi stesse. Ciò che, però, è – come si sa – contraddetto da una prassi assai varia ed oscillante, che conosce non pochi rinvii (taluno dello stesso Ciampi…) di “merito costituzionale” – come, con una certa, non rimossa ambiguità, suole essere chiamato – ovvero di merito tout court (su di che i dati riferiti da S. CALZOLAIO, Il rinvio delle leggi nella prassi, in Quad. cost., 4/2006, pp. 853 ss.).

scostamento dal modello si abbia per tabulas14. È vero che proprio la giurisprudenza sulle deleghe è forse quella che meglio rappresenta quell’animus di sostanziale acquiescenza della Consulta verso le esperienze della normazione e la politica che vi dà corpo e sostegno, di cui qui si viene dicendo. Il punto ora maggiormente rilevante non è tuttavia tanto quello riguardante l’equilibrio (o, meglio, lo squilibrio…) tra gli organi della direzione politica, con evidenti ricadute sulla conformazione e gli sviluppi della forma di governo. Ciò che ora importa è il senso complessivo che la giurisprudenza possiede e manifesta sul fronte dei rapporti tra Corte e politica (e, per ciò pure, tra Costituzione e politica): un senso che – come si tenta qui di mostrare – appare nettamente orientato ad assecondare taluni, pur se vistosi, scostamenti dal modello costituzionale, sia ad opera della fonte parlamentare che di quella governativa e, non poche volte, congiuntamente di entrambe. La stessa sottolineatura del diverso trattamento fatto agli organi d’indirizzo è, ad ogni buon conto, almeno in parte artificiosa, sol che si consideri, per un verso, che tutti e due vedono la propria azione politica poggiare sulla stessa maggioranza e, per un altro verso, che le deleghe sono in buona sostanza confezionate dallo stesso Governo, pur restando ovviamente imputabili

quoad formam alle assemblee parlamentari e da queste ultime variamente emendabili.

4. Un cenno solo, di sfuggita, alla giurisprudenza in materia referendaria15. Qui, nuovamente, a