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Procederò in questa rapida disamina in ordine sparso, limitandomi a richiamare talune note

esperienze e facendone nuovamente oggetto di rapida considerazione dal peculiare angolo visuale congeniale a questo studio. Si tratta – come evoca il titolo dato a queste notazioni – di “frammenti” di giurisprudenza, che attendono di essere posti l’uno accanto all’altro e confrontati, allo scopo di verificare se possano comporsi in un unico disegno ovvero se restino reciprocamente slegati.

Nulla ora dirò a riguardo dell’ormai nutrito, complesso capitolo della giurisprudenza che attiene al piano delle relazioni interordinamentali (e, segnatamente, dei rapporti con l’ordinamento dell’Unione europea). Mi limito solo a rilevare che non v’è forse campo in cui in modo ancora più lampante emerga l’orientamento della Consulta volto ad assecondare i processi politici (qui, addirittura, un processo

costituente di dimensioni europee). La forzatura del modello, invero, si tocca con mano: col fatto stesso

della conversione in norma sulla produzione giuridica di una norma di valore, quella dell’art. 11, in cui – per comune riconoscimento – è il fondamento del primato del diritto sovranazionale. Da questo vizio di origine, poi, discende a cascata tutta una lunga serie di ulteriori (e più o meno palesi) scostamenti dal modello, dei quali nondimeno non è questo il luogo giusto per la loro opportuna trattazione. Rammento solo, prima di passare ad altro, che l’unico limite posto all’incalzante avanzata dell’Unione nei territori degli Stati (e, dunque, del processo d’integrazione sovranazionale) è dato dai c.d. “controlimiti”, che però non sono – come si sa – fino ad oggi mai stati fatti valere dalla giurisprudenza costituzionale4. La qual cosa si è naturalmente tradotta in un sostanziale, formidabile puntello offerto al processo d’integrazione, nelle forme da esso storicamente e politicamente assunte.

La dottrina dei “controlimiti”, poi, è figlia di una certa idea, risalente, di potere costituente, nel suo rapporto coi poteri costituiti in genere e col potere di revisione costituzionale in ispecie. Non a caso,

3 Questa immagine è già nel mio La Corte e le sirene della politica (frammenti di uno studio su esperienze e tendenze

della normazione e politicità dei giudizi di costituzionalità), in V. TONDIDELLA MURA - M. CARDUCCI - R.G. RODIO (a cura di), Corte costituzionale e processi di decisione politica, cit., pp. 664 ss.

4 Lo sono stati – come pure è noto – dal Consiglio di Stato, in una decisione del 2005; non è, poi, senza interesse rilevare che la loro violazione non è stata (e seguita a non essere) stranamente denunziata dai giudici comuni: a riprova del fatto che all’esito del praticamente incondizionato primato del diritto dell’Unione ha in modo decisivo concorso, con la giurisprudenza costituzionale, la giurisprudenza ordinaria che, con la sua stessa inerzia, ha prevenuto l’insorgere di talune spinose questioni che avrebbero verosimilmente potuto dare non poco filo da torcere alla Consulta.

l’ossequio ai principi fondamentali dell’ordinamento è comunque imposto, persino alle massime espressioni della normazione, quale che ne sia l’origine (interna ovvero esterna)5.

Ora, in quest’ordine di idee si dispone – come si sa – la ricostruzione teorica corrente; e però due rilievi sono al riguardo subito da fare, con riserva di ulteriori approfondimenti altrove.

Il primo è che, quand’anche nei termini suddetti risulti davvero essere il modello (e – come subito si dirà – non sembra), ugualmente la Corte parrebbe (peraltro, comprensibilmente) essere assai restia a far valere il limite dei principi nei riguardi delle più vigorose manifestazioni della politica, sia di diritto esterno che di diritto interno (con specifico riferimento alle leggi di revisione costituzionale).

Si noti la differenza. Per quanto tutte le norme sopra richiamate si considerino dotate della medesima forza (“paracostituzionale” o costituzionale tout court), la carica di politicità insita nelle leggi con le quali la Carta è riscritta non è certo eguale a quella di norme aventi origine lontana dagli ambienti politici nazionali. È poi interessante osservare che l’atteggiamento della Corte parrebbe prescindere dalla circostanza per cui le leggi stesse siano approvate coi più larghi consensi politici (andando cioè oltre le logiche di schieramento) ovvero siano espressive della sola maggioranza di turno, com’è stato per la legge che ha rifatto il Titolo V. E, invero, non poche formule della legge cost. n. 3 del 2001 sono apparse a molti commentatori di dubbia conformità ai principi fondamentali (o, diciamo pure, di certa incostituzionalità); eppure, col fatto stesso di averle poste a parametro di centinaia di giudizi, la Corte vi ha ormai dato il suo benevolo, sostanziale avallo. Non si dimentichi che – come la stessa giurisprudenza ha tenuto a precisare già con la prima delle pronunzie “gemelle” sulla CEDU del 2007 – la Consulta ritiene essere suo preciso, indeclinabile dovere verificare preliminarmente l’idoneità della fonte interposta di volta in volta evocata in campo ad integrare il parametro costituzionale. In nessun caso, però, la Corte ha escluso che questa ovvero quella norma del nuovo Titolo V possa validamente stare a base del suo giudizio.

Il limite dei principi è, insomma, più predicato che praticato; e la circostanza per cui sia stato fatto valere con riguardo ad atti costituzionali ormai datati (addirittura precostituzionali, quale lo statuto siciliano) ulteriormente avvalora la regola (o, meglio, la regolarità), di cui si fa ora parola.

Il secondo rilievo, poi, richiederebbe un lungo ed articolato discorso, per la cui effettuazione non si dispone qui purtroppo dello spazio necessario. Mi limito solo ad enunciare la tesi della quale mi sono fatto convinto, rimandando ad altra sede per la sua argomentazione.

A mia opinione, infatti, costituiscono limite alla revisione non già i principi fondamentali ut sic bensì i valori dei quali i principi stessi danno la prima e più genuina (pur se inevitabilmente imperfetta) trascrizione positiva6. Il che sta a significare che, per un verso, i principi soggiacciono al loro eventuale mutamento, ogni qual volta esso non soltanto non si traduca in una inammissibile incisione dei valori ma, anzi, a questi ultimi offra un accresciuto (e temporis ratione aggiornato) servizio, nel mentre, per un altro verso, al mutamento stesso resistono anche norme di per sé inespressive di principi che tuttavia si dimostrino idonee a dare la prima, diretta e necessaria specificazione-attuazione ai valori.

Sotto quest’ultimo aspetto in particolare, la giurisprudenza offre materiali di varia fattura e consistenza, l’analisi della cui struttura si apre ad esiti ricostruttivi di non secondario rilievo per ciò che attiene ai modi di composizione delle fonti (rectius, delle norme) in sistema, specificamente apprezzabili dall’angolo di osservazione privilegiato della giustizia e della giurisprudenza costituzionale.

5 Così, dunque, oltre che per il diritto dell’Unione, altresì per le norme internazionali generalmente riconosciute e le norme concordatarie.

6 La tesi può, volendo, vedersi nei miei Revisioni formali, modifiche tacite della Costituzione e garanzie dei valori

fondamentali dell’ordinamento, in Dir. soc., 4/2005, pp. 451 ss., e Valori e principi costituzionali degli Stati integrati d’Europa, in Teoria dir. e St., 2-3/2009, pp. 292 ss. Cfr. al mio punto di vista quello ora fatto proprio da A. BARBERA,