La nostra analisi evidenzia una significativa compromissione cognitiva in pa- zienti affetti da JME, che riguarda soprattutto funzioni esecutive, attenzione, memoria verbale e spaziale e linguaggio.
Tali risultati sono simili a quelli ottenuti in precedenti studi (Pascalicchio
et al., 2007; Moschetta e Valente, 2012), ai quali il nostro studio si avvicina
per tipologia di test e per risultati ottenuti. Ciò che distingue questo lavoro da quelli già citati, tuttavia, è la grande omogeneità dei pazienti reclutati per quanto riguarda i valori demografici medi e le distribuzioni, oltre alla stretta corrispondenza tra il gruppo dei pazienti e quello dei controlli in termini di età e scolarità. L’utilizzo di una batteria di test più estesa, inoltre, ci ha permesso di ampliare le precedenti evidenze nella letteratura con una valutazione più approfondita e diversificata delle varie aree funzionali cognitive.
Come già citato nell’introduzione al presente studio, e più sotto in questa discussione, esistono numerose evidenze di una alterazione significativa della corteccia frontale nei pazienti con JME. Le funzioni esecutive vengono considerate collegate strettamente cono l’attività dei lobi frontali ed in particolare con la PFC (O’Muircheartaigh e Richardson, 2012).
In linea con tale ipotesi, nel nostro studio abbiamo confermato che alme- no due dei tre test che valutavano le funzioni esecutive erano compromessi nei pazienti con JME rispetto ai controlli. Bisogna ricordare, tuttavia, che anche gran parte delle restanti aree funzionali indagate con i restatnti test neuropsicologici utilizzati nel presente studio coinvolge comunque i lobi frontali: la corteccia prefrontale è infatti una fondamentale stazione di elaborazione delle informazioni della memoria di lavoro e della memoria a breve termine, sia verbale che spaziale, mentre l’elaborazione del linguaggio avviene principalmente a livello dell’area di Broca, localizzata nel piede della terza circonvoluzione frontale. Non solo le funzioni esecutive, quindi, ma anche le altre funzioni cognitive rimandano ai lobi frontali, e la com- promissione cognitiva evidenziata dai risultati dei test rafforza, dunque, l’ipotesi di un coinvolgimento del lobo frontale. In teoria, molti dei test
da noi utilizzati coinvolgono potenzialmente anche altre strutture corticali, quali quelle ippocampo/paraippocampali (per es. memoria visuospaziale e verbale). Contrariamente ai dati sul lobo frontale, non esistono però dati di
neuroimaging riguardo al coinvolgimento di queste ultime strutture nella
JME.
Al contrario, il coinvolgimento dei lobi frontali si allinea molto bene con una serie di altre prove cliniche e strumentali. Già da tempo, infatti, vari autori hanno evidenziato la presenza di alterazioni simili, sul piano comportamentale e cognitivo, tra pazienti con JME e pazienti con epilessia del lobo frontale o comunque con lesioni di questa area anatomica (Hommet
et al., 2006). Inoltre, vi sono moltissime evidenze elettroencefalografiche
della presenza di una massima espressività a livello frontale di anomalie sia intercritiche che critiche (Hrachovy e Frost, 2006; Serafini et al., 2013). Infine, come più volte già accennato, vi sono ormai numerose evidenze della presenza di alterazioni microstrutturali, metaboliche e funzionali, ottenute con l’utilizzo di esami di imaging avanzato, nei lobi frontali e nei relativi circuiti sotto-corticali in pazienti con JME 5. Tali evidenze, inoltre, non fanno che confermare quanto già osservato anche in studi autoptici (Meencke e Janz, 1984).
I dati raccolti nel nostro studio e la relativa analisi statistica, messa in relazione con queste altre ricerche, conferma quindi la presenza di di- sfunzioni cognitive in pazienti affetti da JME, disfunzioni verosimilmente attribuibili ad alterazioni di circuiti corticali e sotto-corticali che coinvolgo- no prevalentemente i lobi frontali, e che potrebbero costituire il substrato organico-funzionale di questa sindrome epilettica.
E’ importante notare che in studi precedenti in cui erano state analizzate le funzioni frontali in pazienti con JME, ed in cui gli Autori enfatizzavano nella conclusioni come queste fossero le compromissioni più evidenti in questi pazienti, non tutti i test utilizzati per valutare le funzioni esecutive erano risultati compromessi. Similmente, anche nel nostro caso alcune prove per le funzioni esecutive valutate non sono risultate significativamente alterate: questo è stato il caso, in particolare, dello Stroop Color-Word Test e dei
subitem B e B-A del Trail Making Test. E’ interessante notare che questi test sono quelli che maggiormente riflettono la capacità inibitoria delle risposte automatiche del lobo frontale, ma il significato preciso di questo dato è di difficile interpretazione. Sarebbe stato affascinante analizzare in modo approfondito anche l’influenza delle variabili cliniche (tipologia e frequenza di crisi, durata di malattia ecc.) sul livello di compromissione cognitiva. Infatti, i pazienti presenti nel nostro campione presentavano caratteristiche diverse per numero di assenze, numero di crisi totali nell’ultimo anno, numero di crisi tonico-cloniche generalizzate negli ultimi 3 anni e soprattutto per presenza di anomalie epilettiformi intercritiche (vedi tabella). Questo ultimo punto potrebbe essere di particolare interesse, alla luce di recenti studi sul ruolo potenziale delle IED e della ricorrenze delle crisi sulla compromissione delle funzioni cognitive (Binnie, 2003; Aldenkamp e Arends, 2004). Anche se tale suddivisione fornisce gruppi di bassa numerosità, abbiamo comunque tentato una valutazione statistica, senza tuttavia riscontrare nessuna differenza significativa: i pazienti con attività di malattia maggiore non hanno mostrato sistematicamente una performance peggiore rispetto agli altri. In realtà, anche nella letteratura sull’argomento questo è un punto ancora molto dibattuto ed è forse la problematica su cui i vari studi sulla JME e sulle IGE sono più discordanti tra loro.
L’analisi dei risultati in base ai trattamenti farmacologici a cui i pazienti erano sottoposti non ha mostrato differenze significative, nè omogeneità di risultati; analogamente, non abbiamo ottenuto differenze statisticamente significative confrontando i pazienti in politerapia anticomiziale con quelli in monoterapia. L’unico dato che abbiamo osservato è quello di una correlazione positiva tra le performance al Test di richiamo della figura complessa di Rey e l’assunzione di LTG, e di una correlazione negativa tra tale performance e assunzione di VPA. Tale dato su un potenziale effetto negativo del VPA è in linea con Moschetta e Valente (2012), e conferma il dato di Roebling
et al. (2009) su un miglior impatto cognitivo della LTG rispetto a VPA
in pazienti JME; ma come reperto isolato è pero di per sè di difficile correlazione ed interpretazione l’effetto di tali farmaci su questo singolo test. Inaspettatamente il LEV, che è come noto un derivato dei farmaci nootropi,
e di cui, fin dalla sua introduzione in terapia, sono state spesso esaltate le caratteristiche di “attivante cognitivo”, non è risultato correlato a migliori
performance rispetto agli altri due farmaci. E’ importante enfatizzare,
al riguardo, che il fatto che i nostri pazienti (e controlli) non avessero comorbidità nè assumessero altri farmaci, oltre alla terapia antiepilettica, ha permesso di valutare, seppur in un numero ridotto di pazienti, il ruolo esclusivo della terapia anticomiziale. Anche in questo caso, tuttavia, per avere informazioni più affidabili dell’influenza dei diversi tipi di farmaci antiepilettici sulle funzioni cognitive in pazienti con JME sarebbe utile ampliare il campioine analizzato, come pure analizzate pazienti de novo rispetto a pazienti già in terapia.
Alla luce di questi risultati, dunque, appare evidente la necessità di proseguire ed approfondire lo studio di questa problematica. La realizzazione di uno studio con un campione più numeroso o la valutazione di un follow-up neuropsicologico a lungo termine dei pazienti osservati potrebbero essere dei punti di svolta nella comprensione delle dinamiche cognitive nella JME, potendo meglio osservare l’influenza delle variabili cliniche e la eventuale progressività dei deficit cognitivi.
Le evidenze raccolte in questo studio, in accordo con altri studi neuro- psicologici e di neuroimaging, suggeriscono che i pazienti affetti da JME tendano a sviluppare deficit cognitivi rispetto ai soggetti sani; tali deficit sonodi lieve entità e rilevabili solo dopo attento confronto con controlli ben selezionati, tuttavia potrebbero avere un impatto sul funzionamento dell’individuo nei compiti della vita quotidiana. I problemi nell’area del comportamento, del funzionamento sociale (come osservato in vari studi prospettici) e delle funzioni esecutive e di vari aspetti della memoria (come osservato nel presente studio) rilevati nella JME richiamano l’attenzione sul probabile coinvolgimento del lobo frontale in questa patologia. Sarà altresì importante approfondire ulteriormente se tale profilo neurocogniti- vo sia specifico della JME oppure se debba essere considerato come una caratteristica comune ad altre forme di IGE; inoltre, studi più estesi forse aiuteranno ad appurare se la causa di tali tratti comportamentali patologici sia da ricercare in una disfunzione cerebrale stabile ed irreversibile, oppure se debba essere piuttosto attribuita agli effetti cognitivi transitori delle crisi o delle scariche EEG epilettiformi intercritiche.
Quello che di sicuro non può più essere negato, alla luce delle recenti acquisizioni, è che le IGE, pur se storicamente considerate benigne, sono caratterizzate da alterazioni cognitive che compromettono l’apprendimento e il funzionamento sociale in molti pazienti; le ripercussioni di queste condizioni sul comportamento e sulle capacità cognitive non possono essere trascurate.
Le scoperte neuropsicologiche nelle epilessie idiopatiche possono, inoltre, avere importanti conseguenze sulle strategie di trattamento e di riabilitazione di queste sindromi. In futuro è verosimile che i più recenti dati EEG, i
reperti di imaging funzionale, i dati neuropsicologici e psichiatrici possano concorrere nel favorire non solo una migliore comprensione dei meccanismi coinvolti nella patogenesi di queste sindromi, ma anche in un loro più completo inquadramento classificativo. Ciò potrebbe portare anche ad una più precoce valutazione nel singolo paziente anche delle sue caratteristiche cognitivo/comportamentali, al fine di instaurare un’adeguata strategia di trattamento che non sia solo volta al controllo delle crisi e delle alterazioni EEG, ma che sia anche finalizzata a migliorare la prognosi e la qualità di vita di questi pazienti, eventualmente con adeguati provvedimenti riabilitativi che ne migliorino il quadro cognitivo.
Esempi di test neuropsicologici
Test di intelligenza breve
Il metodo utilizzato nel nostro studio per la stima del QI dei partecipanti è stato il test di intelligenza breve (TIB). Questo test si basa sulla cor- relazione tra intelligenza generale e abilità di lettura; la scelta è ricaduta su questa metodica di valutazione per la sua più semplice ed immediata somministrazione rispetto al WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale), test più utilizzato e completo ma anche più complesso.
Il TIB consiste in una rapida prova di lettura di 54 parole ad accentazione regolare/irregolare (piane/sdrucciole); le parole si dividono in “facili” (ad elevata frequenza d’uso) e “difficili”, secondo la difficoltà della corretta accentazione del vocabolo. L’esaminatore deve presentare ogni parola al soggetto e registrare se l’accentazione sia stata letta in maniera corretta o errata.
Il presupposto su cui si basa la validità del TIB prevede che il fattore verbale sia molto resistente al decadimento cognitivo, e permetta pertanto al test di esprimere una valida stima del livello cognitivo globale del soggetto.
Test cognitivi
Si riportano di seguito alcuni esempi dei test utilizzati nello studio e descritti in maniera approfondita nel cap. 4.
Figura A.1. Trail Making Test A. I soggetti devono collegare tra loro i numeri
Figura A.2. Trail Making Test B. In questo caso i soggetti devono collegare
ROSSO
ROSSO
BLU
BLU
BLU
VERDE
ROSSO
ROSSO
BLU
VERDE
BLU
ROSSO
ROSSO
VERDE
BLU
VERDE
ROSSO
ROSSO
BLU
BLU
BLU
VERDE
VERDE
VERDE
ROSSO
ROSSO
ROSSO
VERDE
BLU
VERDE
Figura A.3. Fase finale dello Stroop Color-Word Test. I soggetti devono
pronunciare il colore con il quale è scritta ogni parola; vengono contati gli errori e viene registrato il tempo impiegato.
Figura A.4. Test della figura complessa di Rey. Il soggetto deve copiare o
disegnare a memoria (con richiamo immediato e differito) la figura nella maniera più fedele possibile; il punteggio è standardizzato e viene attribuito per ogni componente della figura riprodotto in maniera corretta. [Tratto da Strauss et al. (2006)]
Figura A.5. Raffigurazione di una tavoletta per il test Corsi span. L’esaminatore
tocca i cubetti numerati in sequenze progressivamente crescenti, e il soggetto (che non vede i numeri ) è chiamato a riprodurre le sequenze nello stesso ordine.
Figura A.6. Digit Span, o test a memoria di cifre. L’esaminatore legge delle
serie di cifre di lunghezza crescente (da 3 a 9) che il soggetto deve ripetere immediatamente; nella prima parte della prova le cifre vanno ripetute nell’ordine in cui vengono lette, mentre in una seconda parte devono essere ripetute in ordine inverso. Si noti in basso un esempio di tabella di correzione.
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