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6 LO STUDIO

6.4 Discussione

Si ritiene che l’altissimo rapporto maschi: femmine di 30:1 in questo campione sia dovuto alla combinazione di due fattori. Il primo è che nella popolazione affetta da HIV in Italia i maschi sono superiori rispetto alle femmine con un rapporto di 3,9:1 23. Il

secondo è che l’IMA è a sua volta una condizione più frequente nel sesso maschile, mentre le femmine rappresentano in media il 30% delle persone colpite da questa condizione113.

L’età media dei pazienti di questo studio che hanno avuto un IMA, pari a 54±9,6 anni, è considerevolmente più bassa rispetto all’età media delle persone HIV negative colpite dalla stessa patologia. Nella popolazione generale italiana secondo uno studio del 2010 le sindromi coronariche acute insorgono in media tra i 65 e i 70 anni, e in più di un terzo dei casi ad un’età superiore ai 75 anni113. Nel nostro campione l’età media era inferiore di

più di 10 anni, e nessun caso si è verificato ad un’età superiore ai 75 anni. Questo dato sembra avvalorare l’ipotesi che i soggetti affetti da HIV vadano incontro ad un invecchiamento accentuato e accelerato, nel quale le comorbidità tipiche dell’età avanzata insorgono più precocemente. Peraltro l’età al momento della prima diagnosi di HIV dei pazienti colpiti da IMA è in questo campione pari a 41±10,7 anni, appena superiore alla media italiana che nei maschi è di 39±823.

Un basso livello di CD4+ al momento della diagnosi e un alto livello di viremia non sembrano in questo studio avere alcuna associazione con lo sviluppo di IMA. I livelli di CD4+ al momento dell’evento cardiovascolare acuto erano anch’essi in media assolutamente nella norma e quasi perfettamente sovrapponibili a quelli dei controlli, un risultato in linea con quelli dello studio DAD83.

Non è stato possibile evidenziare alcuna differenza tra casi e controlli né per quanto riguarda l’uso complessivo di singoli farmaci (Tab. 3), né andando a valutare l’esposizione complessiva in anni alle famiglie dei PI e degli NRTI. Nel nostro studio non siamo quindi riusciti a riprodurre l’effetto degli inibitori della proteasi sull’incremento, peraltro minimo (RR 1.13), del rischio cardiovascolare riportato nello studio DAD nel 201038. Ciò può essere dovuto alla non elevata numerosità della nostra

casistica, oppure al fatto che i 62 individui erano in cura presso la medesima unità ambulatoriale, che ha avuto la tendenza ad utilizzare negli anni regimi terapeutici simili per tutte le persone che aveva in cura, minimizzando le differenze fra i due gruppi. Peraltro, al momento, nessuno dei numerosi report sul tema dell’influenza del regime terapeutico sulla incidenza di eventi cardiovascolari nei soggetti HIV ha riportato evidenze conclusive112 .

C’è da far notare che 5 dei 31 pazienti che hanno avuto un IMA erano in cura con l’Abacavir, che come sappiamo è associato ad un maggior rischio di eventi CV acuti durante il suo utilizzo.

L’analisi effettuata mostra in modo chiaro che le differenze più significative tra i casi e controlli sono nel campo dei fattori di rischio cardiovascolari classici. Il fumo di sigaretta è assolutamente prevalente tra i soggetti facenti parte dello studio che hanno avuto un infarto: ben l’80,65% di loro erano fumatori o ex fumatori. Questo dato era molto alto anche nel gruppo di controllo (51,61%), ma la differenza è comunque significativa. Osservando questi dati appare prioritario intervenire per indurre una diminuzione del fumo di tabacco tra le persone HIV positive, come suggeriscono anche le linee guida EACS del 201536.

Come il fumo, la prevalenza dell’ipertensione arteriosa sistemica si è rivelata molto alta sia nei casi, con il 74,19% dei soggetti colpiti da IMA affetti anche da questa condizione, che nei controlli, dove la prevalenza si attestava al 54,83%. Questo dato così elevato nel gruppo di controllo sembrerebbe in disaccordo con quanto affermato da De Socio et al nel 201494, ma potrebbe essere influenzato nel nostro studio dalla stragrande

predominanza del sesso maschile e dalla relativa limitatezza del campione. Il numero assoluto di persone affette da ipertensione non diverge in modo statisticamente rilevante tra i due gruppi. L’analisi mostra tuttavia un numero significativamente maggiore di casi di ipertensione lieve e severa nel gruppo IMA.

Le alterazioni del profilo lipidico dei pazienti con IMA sembrano non tanto legate ad un aumento del colesterolo totale, che pure è più alto rispetto al gruppo di controllo anche se in modo non statisticamente rilevante (207±43 vs. 194±35), quanto ad una diminuzione del colesterolo HDL e ad un aumento dei trigliceridi. Tradizionalmente la dislipidemia che si sviluppa durante l’infezione da HIV è attribuita agli effetti dei farmaci antiretrovirali, soprattutto ai PI, agli NRTI e agli NNRTI112. In questo caso appare

tuttavia difficile attribuire la responsabilità alla terapia, visto che come abbiamo visto non ci sono differenze sostanziali da questo punto di vista tra i due gruppi presi in esame. La maggiore incidenza di dislipidemia nel gruppo affetto da IMA potrebbe quindi essere da attribuire a differenze dietetiche e nello stile di vita.

Il 38,71% dei pazienti colpiti da infarto miocardico mostra una familiarità positiva per malattie cardiovascolari. Purtroppo il raffronto col gruppo di controllo non è stato possibile data la mancanza di questo nella maggior parte delle cartelle cliniche di questi individui (61,29%).

Vi sono 9 persone affette da diabete mellito tra quelle colpite da IMA, pari al 29,03%, e 5 tra i controlli, pari al 16,13%. Il dato fra i controlli sembra essere superiore alla prevalenza del 7% di diabete mellito tra gli HIV positivi stimata da Joon Paik e Kotler nel 2011114, ma questo potrebbe essere dovuto a fattori confondenti. Nonostante il dato

emerso da questo studio non sia statisticamente significativo, la prevalenza di diabete mellito sembra essere maggiore tra i pazienti con IMA, soprattutto in confronto con quella della popolazione generale HIV positiva. In particolare essa sembra essere in linea con la prevalenza media del DM nei pazienti HIV negativi italiani colpiti da infarto miocardico, pari al 22,9% per l’IMA STEMI113.

La mortalità preospedaliera per infarto acuto del miocardio è pari al 16,12% in questo campione, un dato che è circa la metà del 30% stimato per la popolazione italiana. Occorre notare però che alcune di queste persone colpite da morte improvvisa potrebbero essere sfuggite al campionamento per via del mancato accertamento delle ragioni del loro decesso e/o del mancato aggiornamento delle cartelle cliniche che le riguardavano. Tra i pazienti che sono riusciti a giungere alle cure ospedaliere il

trattamento più utilizzato è stata l’angioplastica coronarica accompagnata dallo stenting, effettuata esattamente su due terzi di loro. Il restante terzo ha effettuato il bypass aorto- coronarico o la terapia medica.

Nel gruppo dei casi il 54,83% delle persone era affetta da qualche altra comorbidità oltre all’HIV e alla patologia cardiovascolare, un dato che rimane alto (45,16%) anche nel gruppo di controllo. Le patologie riscontate si dividono abbastanza equamente tra epatiche, renali, neoplastiche, psichiatriche, e dovute all’aterosclerosi diffusa. Questi dati sembrano confermare quanto detto nel capitolo relativo all’invecchiamento: anche una volta raggiunto il controllo della replicazione virale l’infezione da HIV rimane una condizione cronica complessa gravata da un alto numero di comorbidità, che vanno aumentando e aggravandosi all’aumentare dell’età. Nonostante gli enormi progressi gli affetti da HIV non hanno ancora un’aspettativa di vita uguale agli HIV negativi e la durata della loro vita libera da malattie appare essere ancora inferiore. Aumentare la vita libera da malattie e disabilità sembra essere la grande sfida che si pone davanti a noi nella quarta decade dall’inizio dell’epidemia di HIV.

Tra i cinque score di rischio calcolati nei 62 membri dello studio, sono stati quelli che valutano il rischio a 10 anni a dimostrare la migliore capacità discriminatoria tra i casi e i controlli. In particolare il Framingham a 10 anni si è dimostrato quello più in grado di individuare i soggetti ad alto rischio, mentre l’ASCVD è stato il migliore nel discernere gli individui a basso rischio. Questi due score sono anche i più semplici da eseguire e quelli che richiedono meno parametri per essere calcolati. Le uniche differenze tra i due algoritmi sono il parametro della razza e del diabete, presenti nell’ASCVD e assenti nel Framingham. Per quanto riguarda la razza, peraltro, tutti i 62 soggetti parte di questo studio sono caucasici. Gli score di rischio a 5 anni hanno avuto una performance peggiore in questo studio, dato che il DAD completo è stato l’unico a raggiungere una rilevanza statistica borderline. Questo score richiede inoltre la computazione di un numero molto elevato di parametri che possono non essere immediatamente disponibili nella pratica clinica. Questo piccolo studio sembra non far emergere la necessità di uno score cardiovascolare specifico per l’HIV, ma ovviamente è necessaria la valutazione su campioni più numerosi.

Il presente studio appare gravato da alcune limitazioni.

Uno dei limiti principali è che non è stato possibile raggiungere la certezza di aver individuato tutti i casi di IMA tra le oltre 1105 persone HIV positive in cura presso la

U.O.C. Malattie Infettive di Pisa. Questo fatto, dovuto principalmente all’assenza di documentazione, ha impedito di estrapolare i dati di incidenza dell’IMA in questa popolazione.

Il secondo limite è che il gruppo di controllo è stato in una certa misura selezionato arbitrariamente basandosi sui parametri di età, sesso ed anno di primo riscontro dell’infezione. Pertanto la scelta di altri soggetti del gruppo di controllo avrebbe potuto portare a risultati differenti.

Il terzo limite è la bassa numerosità dei casi esaminati, che, può aver determinato il mancato raggiungimento della significatività statistica di alcuni parametri presi in considerazione.

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