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Patologia cardiovascolare nell'infezione da HIV/AIDS: valutazione del rischio e sua prevenzione

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia ________________________________________________________________________________________________________________________

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA E CHIRURGIA

PATOLOGIA CARDIOVASCOLARE NELL’INFEZIONE DA

HIV/AIDS:

VALUTAZIONE DEL RISCHIO E SUA PREVENZIONE

CANDIDATO: RELATORE:

ZENO FALASCHI PROF. FRANCESCO MENICHETTI

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Sommario

L’infezione da HIV, causa dell’AIDS, è una patologia che è ormai entrata nella quarta decade della sua storia. Mentre negli anni ’80 del secolo scorso questa condizione portava inevitabilmente alla morte nel volgere di pochi anni, oggi, grazie alla terapia antiretrovirale altamente attiva (HAART), assume i caratteri di una infezione cronica ben controllabile nel tempo. Tale trattamento però, sebbene fonte di enormi vantaggi, è ben lungi da risolvere completamente il problema. I pazienti che con la terapia riescono a sopprimere la viremia hanno un’aspettativa di vita simile alle persone non infette dal virus, ma possono andare incontro ad un invecchiamento accentuato o accelerato. Tale condizione si accompagna ad una maggiore incidenza di comorbidità non AIDS relate, che si manifestano anche in presenza di livelli di linfociti CD4+ ottimali. Tra di esse sono comprese le malattie cardiovascolari. Vi è ormai un considerevole corpo di letteratura che mostra come queste ultime siano più frequenti tra le persone affette da HIV. In precedenza si riteneva che questo fosse dovuto principalmente agli effetti collaterali dismetabolici della HAART, ma oggi sappiamo che hanno un ruolo anche l’infiammazione cronica, l’azione nociva delle proteine virali e la maggiore prevalenza dei fattori di rischio cardiovascolari tradizionali tra gli HIV positivi. Ad oggi ci si interroga ancora su come effettuare una corretta prevenzione. Gli score clinici di rischio cardiovascolare a nostra disposizione sembrano tutti sottostimare il rischio in questa categoria di pazienti, per cui si valuta l’impiego dell’imaging, come per il calcium score e la valutazione ecografica dello spessore intima-media delle arterie carotidi. Il presente lavoro comprende uno studio retrospettivo caso-controllo effettuato sui pazienti con HIV in cura presso la U.O.C. Malattie Infettive di Pisa. Sono stati analizzati e messi a confronto coi relativi controlli 31 pazienti che hanno avuto un IMA dal 2000 al 2016, al fine di ottenere informazioni riguardo alla loro età, sesso, fattori di rischio cardiovascolari tradizionali, stato immunologico e farmaci utilizzati. I parametri legati all’infezione da HIV non hanno mostrato differenze statisticamente rilevanti tra i due gruppi: CD4+ basali (p=0,1355), viremia basale (p=0,4722), farmaci utilizzati e in particolare l’esposizione cumulativa ai PI e agli NRTI (p=0,8452 e 0,5732) e CD4+ al momento dell’evento (p=0,9495). Al contrario lo studio dei fattori di rischio cardiovascolare tradizionali ha mostrato una differenza significativa tra casi e controlli: in particolare il fumo (p=0,02), l’ipertensione (p=0,052), il colesterolo HDL (p=0,0166) ed i trigliceridi (p=0,0221).

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Indice

SOMMARIO………...…...2

1 HIV E SINDROME DELL’IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA………...5

1.1 La scoperta del virus………...5

1.2 Origine e classificazione di HIV……….6

1.3 Struttura e genoma di HIV……….7

1.4 Cellule bersaglio e ciclo vitale……….9

1.5 Modalità di trasmissione………....11

1.6 Patogenesi e storia naturale dell’infezione……….13

2 EPIDEMIOLOGIA MONDIALE E ITALIANA………...16

2.1 Epidemiologia nel mondo………16

2.2 Epidemiologia in Italia………..19

2.3 L’invecchiamento della popolazione HIV positiva………21

3 LA TERAPIA DELL’INFEZIONE DA HIV……….23

3.1 I primi passi………..…………23

3.2 La terapia antiretrovirale combinata………..24

3.3 L’impatto della terapia antiretrovirale sul rischio cardiovascolare…………..…27

4 IL PROBLEMA DELL’INVECCHIAMENTO………..…30

4.1 Fattori che influenzano l’invecchiamento negli HIV positivi……….30

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4.3 La fragilità negli anziani HIV positivi………36

5 FISIOPATOLOGIA DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE NELL’HIV…38 5.1 Epidemiologia………...………38

5.2 Eziopatogenesi dell’aterosclerosi nell’infezione da HIV………40

5.3 I fattori di rischio tradizionali………....…43

5.4 Lo screening del rischio cardiovascolare nell’infezione da HIV……….47

5.5 La prevenzione……….49

6 LO STUDIO……….52

6.1 Obiettivi dello studio………52

6.2 Pazienti e metodi……….……….52

6.3 Risultati………54

6.4 Discussione………..68

6.5 Conclusioni………...72

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1 HIV E SINDROME DELL’IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA

La sindrome dell’immunodeficienza acquisita è una condizione patologica del sistema immunitario che riconosce come agente eziologico il virus dell’immunodeficienza umana o HIV (Human Immunodeficiency Virus). I soggetti affetti hanno un’aumentata suscettibilità a infezioni opportunistiche, nonché un aumentato sviluppo di neoplasie.

1.1 La scoperta del virus

È stato nel 1981 che per la prima volta 11 casi di polmonite da Pneumocystis carinii, oggi chiamato Pneumocystis jirovecii, fecero pensare alla comunità scientifica internazionale di trovarsi di fronte ad una nuova sindrome. Contemporaneamente furono riportati casi clinici di un gruppo di uomini negli stati di New York e della California con forme insolitamente aggressive di sarcoma di Kaposi.1

Fin dallo stesso anno si iniziò a ritenere che tale condizione fosse legata ad una disfunzione della immunità cellulo-mediata.2

La distribuzione epidemiologica di questi casi, così come il fatto che sembravano essere colpiti con maggiore frequenza i consumatori di droga e gli omosessuali, portarono a ritenere fondata la natura infettiva.

Furono tuttavia necessari due anni di ricerche prima che, nel 1983, il laboratorio di virologia dell’istituto Pasteur di Parigi diretto da Luc Montagnier isolasse per la prima volta un virus che potesse essere responsabile della patologia. Esso venne inizialmente chiamato LAV (lymphoadenopathy associated virus).3 L’anno successivo il National Cancer

Institute di Bethesda grazie al lavoro di Robert Gallo giunse anch’esso all’isolamento di un virus fortemente ritenuto essere l’agente causale della nuova epidemia, denominato HTLV-III (human T-lymphotropic virus type III).4 I due virus si rivelarono poi essere identici,

e l’agente causale dell’AIDS assunse in seguito l’attuale denominazione di HIV (human immunodeficiency virus).

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1.2 Origine e classificazione di HIV

L’HIV fa parte della famiglia Retroviridae, e della sottofamiglia Orthoretroviridae. I virus di questa famiglia sono caratterizzati dal possesso e dall’utilizzo dell’enzima trascrittasi inversa (RT) per convertire il proprio genoma da RNA a DNA durante il ciclo di replicazione.

Attualmente sono conosciuti 2 sierotipi del virus, HIV-1 e HIV-2. HIV-2 si trasmette nello stesso modo di HIV-1, ma ha un ridotto potenziale patogenetico e una ridotta capacità di trasmissione rispetto al primo sierotipo.5

La scoperta del virus HIV-2, avvenuta nel 1986, fu determinante per la comprensione dell’origine dell’HIV nel suo complesso. Esso infatti era strettamente imparentato col virus che causava immunodeficienza nei macachi tenuti in cattività. Successivamente molti altri virus, che vennero raccolti insieme sotto il nome di Simian Immunodeficiency Viruses o SIV, furono identificati in molti altri primati del continente africano. Curiosamente nessuno di questi sembrava essere capace di determinare una patologia nel proprio ospite animale, nonostante appartenessero allo stesso retaggio filogenetico di HIV.

I ricercatori riuscirono ad identificare in particolare due di questi virus, ovvero SIVcpz e SIVgor, che rispettivamente infettano lo scimpanzé e il gorilla, come i precursori di HIV-1. Quest’ultimo è infatti oggi diviso in quattro gruppi, M, O, N e P, ognuno dei quali deriva da un differente episodio di trasmissione cross-specie tra l’uomo e le grandi scimmie. Per quanto riguarda HIV-2 invece si conoscono ad oggi sei gruppi.

Non è noto come la nostra specie sia venuta in contatto col virus presente nel sangue e nei fluidi corporei delle scimmie durante questi episodi, tuttavia oggi la maggioranza degli studiosi ritiene che ciò sia avvenuto durante episodi di caccia o macellazione di questi primati.

Il virus dell’immunodeficienza umana ha dimostrato di poter andare incontro a numerosi adattamenti ospite-specifici al fine di interagire con le nostre proteine, replicarsi con successo e sfuggire alla nostra immunità, tanto da dare origine alla pandemia che oggi conosciamo.6

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1.3 Struttura e genoma di HIV

La microscopia elettronica è stata capace di mostrare come il virione dell’HIV abbia una forma icosaedrica e sia rivestito da un pericapside o envelope. Quest’ultimo è costituto da un doppio strato fosfolipidico, che trae origine dalla membrana della cellula infettata. Da esso protrudono circa 72 protuberanze, ognuna delle quali è formata da due proteine: gp120, esterna, e gp41 che attraversa la membrana fosfolipidica. Mentre gp120 ha il compito fondamentale di permettere l’ingresso del virus nelle cellule legandosi al suo recettore CD4, gp41 svolge un’attività cosiddetta fusogena, ovvero promuove la fusione dell’envelope virale con la membrana della cellula dell’ospite.

All’interno del pericapside troviamo il capside o core. Esso è costituito dalla proteina detta p24 ed è circondato dalla proteina di matrice p17, che è localizzata al di sotto dell’envelope. Il capside racchiude il genoma virale, costituito da una doppia copia di RNA a singolo filamento. L’RNA di HIV è rivestito dalla proteina p7, che con esso costituisce il nucleocapside. All’interno del core troviamo inoltre tre enzimi: la proteasi, la trascrittasi inversa e l’integrasi. La presenza dell’enzima trascrittasi inversa è il segno distintivo di un retrovirus: è grazie ad esso che l’RNA virale può essere trascritto in DNA a doppio filamento ed essere così inserito all’interno del genoma dell’ospite grazie all’enzima integrasi (vedi fig.1).

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Una volta che il patrimonio genetico virale, retrotrascritto in DNA, si trova integrato all’interno del genoma della cellula infetta, esso funge da stampo per la RNA polimerasi dell’ospite: così nuovi RNA virali e nuovi virioni sono prodotti grazie all’apparato enzimatico di trascrizione e traduzione della cellula ospite.

Le proteine virali sono codificate da diversi geni (vedi fig. 2). Il gene gag rappresenta la prima sequenza di lettura del genoma di HIV, e codifica per p17, p24 e p7. La seconda sequenza o pol codifica per la proteasi, l’integrasi e la trascrittasi inversa. Il gene env invece contiene le informazioni per lo sviluppo della proteina gp160, che viene tagliata dalla proteasi affinché si possano formare le due proteine gp120 e gp41. Vi sono inoltre altri geni che codificano per piccole proteine con funzione regolatoria: tat, rev, vif, nef, vpr, vpu presente solo nel sierotipo HIV1 e vpx presente solo nel virus HIV-2.7

Figura 2. Il genoma di HIV-1. Rif 7

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1.4 Cellule bersaglio e ciclo vitale

Con il termine “cellule bersaglio” si intende la tipologia di cellule che il virus è in grado di infettare. Questo concetto è anche noto con il termine di tropismo virale. Per quanto riguarda il virus dell’immunodeficienza umana, il primo evento che caratterizza la sua interazione con le cellule bersaglio dell’ospite è l’interazione della glicoproteina gp120 presente sull’envelope con il recettore CD4.8

Il recettore CD4 è una glicoproteina di membrana presente sulla superficie dei linfociti T-helper , sia maturi che immaturi. Il suo ruolo fisiologico in queste cellule è quello di interagire con il complesso maggiore di istocompatibilità di classe II. Questa molecola inoltre ha un ruolo nel reclutamento della proteina chinasi p56lck. CD4 così facendo

aiuta l’attivazione delle cellule T-helper, svolgendo un compito fondamentale nell’immunità adattativa.9

La molecola CD4 è anche presente in minor quantità su altre cellule facenti parte della linea dei monociti-macrofagi, quali appunto i monociti, le cellule di Langerhans presenti nella cute, le cellule dendritiche linfonodali, i macrofagi alveolari nel parenchima polmonare, le cellule della retina e della cervice uterina.10

Non appena la proteina virale gp120 si lega al suo recettore CD4 essa va incontro ad una modifica strutturale che le permette di legare i recettori delle chemochine presenti sulla cellula bersaglio. Le chemochine, o citochine chemiotattiche, non sono altro che piccole molecole capaci di mediare il reclutamento delle cellule dell’immunità nel luogo dove stia avvenendo un processo infiammatorio. I recettori delle chemochine sono quindi stati chiamati corecettori di HIV-1. Quelli più frequentemente sfruttati dal virus per il suo ingresso all’interno della cellula sono i recettori CCR5 e CXCR4, sebbene siano stati descritti anche altri corecettori potenziali. Ci sono ceppi di HIV-1 che legano preferenzialmente il recettore CCR5, presente prevalentemente nei macrofagi e nelle cellule T che lo esprimono, chiamati virus macrofagotropici. Al contempo altri ceppi prediligono il legame col recettore CXCR4, e si replicano quindi nelle cellule T CD4+ che presentano anche questo recettore: questi sono detti virus T-linfotropici.

Il doppio legame della proteina gp120 con il CD4 e con un recettore delle chemochine porta ad un legame stabile del virione con la cellula bersaglio, e questo permette all’altra proteina del complesso, la gp41, di entrare in azione. La molecola gp41 provoca la

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fusione delle membrane del virus e della cellula, e il capside virale è così libero di entrare.

Il capside si trova così nel citoplasma, dove presto libera il suo RNA a catena singola con quello che è chiamato processo di uncoating. Questo è il momento in cui agisce la trascrittasi inversa: l’enzima procede a trascrivere l’RNA virale trasformandolo in DNA a doppia elica, che viene inserito all’interno del genoma ospite dall’enzima integrasi. HIV-1 si trova così ad essere nello stadio definito provirus. Affinché il provirus sia integrato ed espresso la cellula deve essere in una fase attiva; anche le cellule inattive tuttavia sono fondamentali, giacché agiscono da serbatoi o reservoir per il virus, essendo difficilmente attaccabili dal sistema immunitario e dalla terapia antiretrovirale.

Il provirus, sotto forma di DNA a doppia elica, viene dunque trascritto in RNA messaggero. Questo come da prassi migra nel citosol, dove avviene la sintesi delle proteine strutturali del virione. La proteasi a questo punto ha un ruolo fondamentale, in quanto i geni gag, pol e env codificano inizialmente per grosse molecole che devono essere tagliate da questo enzima per dare origine alle piccole proteine strutturali del virus.

Una volta che il clivaggio delle componenti virali è completo, la formazione di nuovi virioni avviene per gradi: due RNA virali si associano tra loro e con gli enzimi di replicazione, mentre le proteine del core si associano fra loro fino a formare il capside virale. Queste particelle immature migrano verso la superficie cellulare, dove il clivaggio ad opera della proteasi viene completato. Si vengono così a creare nuove particelle virali infettive, che “germogliano” attraverso la membrana cellulare e sono così rilasciate al di fuori della cellula (vedi fig.3).11

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1.5 Modalità di trasmissione

Il virus dell’immunodeficienza acquisita può essere trasmesso da un essere umano ad un altro per via parenterale: attraverso la trasfusione di sangue e di altri emoderivati infetti, attraverso lo scambio di aghi durante il consumo di droghe endovena o tramite piccole ferite cutanee causate anch’esse da aghi o altri strumenti infetti. È anche possibile la trasmissione per via sessuale, e in questo caso il rapporto più a rischio è quello anale recettivo, seguito dal rapporto anale attivo, dal rapporto pene-vagina recettivo e dal

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rapporto pene-vagina attivo. Il rischio di contagio durante il sesso orale è ritenuto essere molto basso. L’infezione può inoltre essere trasmessa per via verticale da una donna HIV-positiva al figlio durante il parto e/o l’allattamento.

La più comune via di trasmissione del virus a livello mondiale è il rapporto eterosessuale.

Una meta-analisi12 condotta per la rivista AIDS nel 2014 ha calcolato il rischio di

trasmissione dell’infezione per ognuno dei metodi di trasmissione sopra elencati, espresso su 10.000 esposizioni per ognuna modalità:

 Trasfusione di sangue e di emoderivati: 9250/10000  Trasmissione madre-figlio: 2260/10000

 Rapporto anale recettivo: 138/10000

 Scambio di aghi durante il consumo di droghe: 63/10000  Ferite cutanee da aghi: 23/10000

 Rapporto anale attivo: 11/10000

 Rapporto pene-vagina recettivo: 8/10000  Rapporto pene-vagina attivo: 4/10000

Come si comprende dai dati sopra riportati, la trasfusione di sangue e emoderivati infetti è in assoluto la modalità più efficiente di trasmissione dell’infezione, con un rischio superiore al 90%. Tuttavia, grazie al test per l’HIV sulle sacche da trasfondere, questo rischio è stato quasi totalmente eliminato nei paesi sviluppati. Lo stesso rischio di trasmissione madre-figlio secondo l’organizzazione mondiale della sanità varia da 15 al 45% in assenza di qualsiasi intervento, ma può essere ridotto al di sotto del 1% con opportune misure di profilassi durante la gravidanza, il parto e l’allattamento.13

Per quanto riguarda i rapporti sessuali in una coppia sierodiscordante, la carica virale del plasma e lo stadio dell’infezione, precoce o tardivo, sembrano essere i principali fattori che conferiscono un’aumentata probabilità di infezione. L’infezione primaria di HIV è infatti particolarmente contagiosa, con una probabilità di infezione per ogni atto sessuale circa dodici volte più alta nei primi 2,5 mesi di malattia che nel periodo cronico.14 La

terapia antiretrovirale (ART) effettuata sul soggetto HIV-positivo, e in particolare la terapia antiretrovirale effettuata precocemente, è molto efficace nel prevenire in queste coppie l’infezione del partner sieronegativo.15

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Il virus dell’HIV è inoltre presente in altri liquidi biologici quali la saliva e le lacrime, in concentrazioni molto inferiori rispetto al sangue e alle secrezioni genitali. Ad oggi non è stata riportata alcuna infezione dovuta solamente a questi mezzi. Gli oggetti di uso comune non sono inoltre veicolo d’infezione.10

1.6 Patogenesi e storia naturale dell’infezione

La prima fase del contatto tra virus e ospite è detta infezione primaria o acuta da HIV. Nel caso in cui il virus sia stato trasmesso attraverso un rapporto eterosessuale da uomo a donna, la mucosa della cervice uterina è il primo tessuto a venire a contatto col virus. Qui le cellule dendritiche e i linfociti CD4+ normalmente presenti possono incontrare il virus, il quale è capace penetrare al loro interno grazie alle proteine presenti sul suo envelope. Le cellule infette migrano quindi nei linfonodi regionali, permettendo la replicazione di HIV all’interno di questi ultimi. Al loro interno e nel tessuto linfatico la replicazione virale è precocemente elevata.

Circa 10-12 giorni dopo l’infezione il virus raggiunge il flusso sanguigno, dove può essere riscontrato in laboratorio grazie alla tecnica della polymerase chain reaction (PCR). La presenza del virus nel sangue rappresenta un punto fondamentale dell’infezione, perché da questo momento in poi il soggetto può trasmettere l’infezione ad altri; è inoltre il primo momento possibile in cui si può fare diagnosi di infezione da HIV.

La viremia a questo punto aumenta rapidamente, e può raggiungere il livello estremamente elevato di 100 milioni di particelle virali per millilitro. Tale numero di copie virali nel plasma tuttavia non dura a lungo, dato che l’ospite inizia rapidamente a produrre fattori dell’immunità umorale e cellulare specifica che controllano parzialmente la replicazione virale. Durante le settimane successive quindi la viremia tende a scendere progressivamente fino a raggiungere un livello stabile, anche detto viral setpoint. Si ritiene che l’immunità cellulo-mediata abbia un ruolo maggiore di quella umorale in questa prima fase di contenimento del virus, tanto che la viremia tende a scendere prima della comparsa di anticorpi specifici. Contemporaneamente al picco della viremia il numero di linfociti T CD4+ nel sangue crolla drammaticamente, per poi risalire per gradi ma senza mai raggiungere i livelli precedenti all’infezione.

La comparsa di anticorpi specifici contro il virus HIV, o sieroconversione, avviene dalle 3 alle 5 settimane dopo il primo contatto col virus. Mediamente trascorrono 22 giorni

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tra il contatto e questo evento. Vi è dunque un periodo di tempo variabile, chiamato “periodo finestra” nel quale l’infezione è presente ma gli anticorpi anti-HIV non sono rintracciabili.

Durante un lasso di tempo che va da alcuni giorni a alcune settimane dopo l’esposizione primaria i soggetti contagiati possono andare incontro ad una sintomatologia del tutto aspecifica, simil-influenzale o simil-mononucleosica, con febbre, astenia, sonnolenza, cefalea, linfoadenopatia, rash cutaneo maculopapulare, artralgie e ulcere a livello orale e genitale. Questi sintomi durano in media dai 7 ai 10 giorni.

Superata la fase acuta, alcune settimane dopo il primo contatto con il virus la persona contagiata entra in una fase clinicamente asintomatica, caratterizzata da bassi livelli viremici. Questo è chiamato periodo di latenza clinica, e infatti in questo periodo le varie componenti del sistema immunitario riescono a tenere sotto controllo la replicazione virale. HIV tuttavia continua a replicarsi nei vari compartimenti corporei, riuscendo a evadere l’azione antivirale del sistema immunitario grazie alla sua estrema variabilità e alla sua persistenza in cellule linfoidi quiescenti. Il virus induce al contempo uno stato di infiammazione cronica nell’organismo dell’ospite.

Nel periodo di latenza clinica il numero dei linfociti T CD4+ diminuisce progressivamente, causando un graduale indebolimento del sistema immunitario. Questa fase è inoltre caratterizzata dalla lenta distruzione dell’architettura del tessuto linfatico, conseguentemente alla stessa replicazione virale e all’attivazione cronica delle cellule dell’immunità.

Se nulla viene fatto per contenere il virus questi meccanismi portano inevitabilmente, dopo un numero variabile di anni, alla discesa del numero dei linfociti T al di sotto di 200 per microlitro e alla successiva comparsa di patologie opportuniste: si entra così nella fase sintomatica della malattia.

La viremia tende ad aumentare costantemente nella fase finale dell’infezione, e può raggiungere livelli pari a quelli del picco presente nell’infezione acuta, mentre i CD4+ possono scendere fino ad azzerarsi.

Le infezioni opportunistiche rappresentano la principale causa di morte nelle persone con AIDS. Tra le infezioni, quelle che definiscono lo stato di AIDS sono16:

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 L’infezione da Candida albicans diffusa ai bronchi, alla trachea, all’esofago o ai polmoni,  Multiple o ricorrenti infezioni batteriche

 La coccidioidomicosi disseminata o extrapolmonare,  La criptococcosi extrapolmonare

 La criptosporidiosi intestinale cronica,  L’infezione sintomatica da citomegalovirus

 Le ulcere croniche, bronchiti, polmoniti o esofagiti da Herpes simplex  La istoplasmosi disseminata o extrapolmonare,

 La isosporiasi intestinale cronica  La polmonite da Pneumocystis jirovecii,  Le infezioni da micobatteri

 Le polmoniti ricorrenti

 La leucoencefalopatia multifocale progressiva  La setticemia da salmonella

 La toxoplasmosi cerebrale.

Si possono inoltre presentare malattie neoplastiche, come il sarcoma di Kaposi, il carcinoma invasivo della cervice uterina e i linfomi Non-Hodgkin. In questa fase dell’infezione si ha poi tipicamente un ingrossamento linfonodale diffuso, associato ad una severa riduzione del peso corporeo, a febbre e a sintomi gastrointestinali.11

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EPIDEMIOLOGIA MONDIALE E ITALIANA

Le dimensioni dell’epidemia sono andate enormemente aumentando a partire dai primi casi riscontrati nei primi anni ‘80 del 1900. Nel 1984 sono stati registrati 7699 casi di AIDS e 3665 morti negli Stati Uniti e 762 casi in Europa17, mentre nel 2015, secondo il

programma delle nazioni unite UNAIDS, nel mondo erano circa 36,7 milioni le persone affette dal virus dell’HIV e 1,1 milioni le morti AIDS correlate. Questi dati dovrebbero essere sufficienti a far comprendere le dimensioni del problema. Esse sono imponenti, non solo in termini di sofferenza e perdita di vite umane ma anche in termini di peso economico sulle famiglie e sulle comunità, soprattutto nei paesi in via di sviluppo dato che le persone vengono in media colpite nella fase più produttiva delle loro vite.

2.1 Epidemiologia nel mondo

L’epidemia di HIV/AIDS è passata attraverso diverse fasi: da una prima fase nascosta subito successiva al passaggio di specie, ad una fase nordamericana-europea legata soprattutto alla trasmissione nella comunità omosessuale, fino all’attuale pandemia.

L’incidenza dell’infezione raggiunse il suo picco nel 1997, con 3,3 milioni di nuove infezioni. Successivamente vi è stato un periodo di declino abbastanza rapido fino al 2005, mentre da allora il ritmo è rimasto abbastanza stabile a circa 2,6 milioni di nuovi casi per anno. Mentre l’incidenza si stabilizzava su questi numeri, l’aspettativa di vita aumentava enormemente grazie alla sempre maggiore disponibilità e diffusione della terapia antiretrovirale. Mentre in assenza di trattamento possono passare circa 11 anni dall’infezione primaria da HIV alla morte AIDS correlata18, secondo studi recenti19,20

oggi grazie alla terapia HAART (highly active antiretroviral therapy) l’aspettativa di vita delle persone HIV positive che assumono correttamente la terapia si avvicina a quella dei non affetti. La mortalità è andata anch’essa calando, passando da un picco di 1,8 milioni di morti nel 2005 a 1,2 milioni nel 2005.

I numeri su incidenza, mortalità e aspettativa di vita rendono evidente come il numero degli affetti non sia potuto che aumentare progressivamente: come già riportato nel 2015 c’erano 36,7 milioni di persone al mondo che convivevano con il virus di cui 1,8 milioni di bambini di età inferiore ai 15 anni. In questo anno le nuove infezioni sono

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state 2,1 milioni, di cui 1,9 hanno colpito gli adulti e 150.000 i bambini. Di questi nuovi casi tra gli adulti il 53% sono di sesso maschile e il 47% di sesso femminile, ed il 66% ha contratto l’infezione ad un’età superiore ai 25 anni, mentre il 34% l’ha contratta tra i 15 e i 24 anni.

La distribuzione geografica è molto disomogenea (vedi fig.4): dei quasi 37 milioni di individui affetti ben 19 si trovano nella parte sud-orientale dell’Africa, mentre 6,5 vivono nella parte centrale e occidentale dello stesso continente. 5,1 milioni si trovano in Asia e nel Pacifico, mentre 2,4 milioni vivono in America del Nord e nell’Europa occidentale. Per concludere 2 milioni vivono in America Latina e nei Caraibi, 1,5 milioni in Europa dell’est e nell’Asia centrale e solo 230.000 in Medio Oriente e Nord Africa.21 Come si

evince da questi dati, le aree del mondo più colpite sono anche quelle con un prodotto interno lordo pro capite mediamente più basso, in via di sviluppo, con governi che spesso non hanno abbastanza risorse per far fronte correttamente all’epidemia.

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La percentuale di persone affette da HIV con accesso alla terapia antiretrovirale è aumentata consistentemente: nel 2005 era il 6,4% degli uomini e il 3,3% delle donne ad avere disponibilità delle cure, mentre nel 2015 si era arrivati rispettivamente il 38,6 e il 42,4%.22 Vi è a tal riguardo però una notevolissima eterogeneità territoriale: si passa dal

59% dell’Europa occidentale e del Nord America al 16% del Medio Oriente e Nord Africa.21

UNAIDS ha lanciato recentemente un ambiziosissimo programma chiamato 90-90-90: entro il 2020 il 90% delle persone infettate da HIV deve conoscere il suo stato, il 90% di loro deve essere trattato farmacologicamente e il 90% dei trattati deve raggiungere la totale soppressione della replicazione virale. Per raggiungere questi obiettivi sarà necessario un coordinamento globale per quanto riguarda le politiche di prevenzione, di profilassi, di diagnosi e di trattamento dell’infezione.

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2.2 Epidemiologia in Italia

È a partire dal 2012 che la sorveglianza sulle nuove infezioni da HIV è attiva su tutto il territorio italiano. Nell’anno 2014 sono state riportate 3695 nuove infezioni nel nostro paese, che corrispondono ad una incidenza di 6,1 su 100.000 abitanti. In quello stesso anno sono stati riferiti inoltre 858 nuovi casi di AIDS, ovvero 1,4 su 100.000 abitanti. Più del 50% dei nuovi casi di AIDS in Italia si è verificato in persone che non erano a conoscenza del loro stato di sieropositività.

È da segnalare che sempre nell’anno 2014 quasi la metà delle segnalazioni, il 49,2%, è avvenuta in sole tre regioni: Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna. Questo può essere dovuto al fatto che queste regioni abbiano “importato” nuovi casi in termini assistenziali dalle altre.

L’incidenza delle nuove diagnosi di infezione da HIV ha raggiunto il suo picco nel nostro paese nel 1987, circa 10 anni prima rispetto alla media mondiale. Da allora essa è andata calando progressivamente fino al 2006, mentre è sostanzialmente stabile dal 2010 a oggi. L’età media alla diagnosi nell’adulto è andata costantemente aumentando: si passa da 26 anni per i maschi e 24 anni nelle femmine nel 1985 a rispettivamente 39 e 36 anni nel 2014 (vedi fig.5). In quello stesso anno il rapporto maschi/femmine (M/F) per le nuove infezioni era di 3,9.

Figura 5.Età mediana delle nuove diagnosi di infezione da HIV in Italia, per modalità di infezione e anno di diagnosi. IDU=Intravenous drug use MSM=Men who have sex with men. Rif. 23

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Per quanto riguarda le modalità con cui in Italia si viene a contatto col virus, esse sono cambiate radicalmente dagli anni ’80 ad oggi. Mentre nel 1985 il 76,2% delle nuove infezioni era dovuto al consumo di droghe iniettabili, nel 2014 erano soltanto il 3,8%, mentre la trasmissione dovuta a rapporti eterosessuali nello stesso periodo è salita dall’1,7% al 43,2%. I casi attribuibili alla trasmissione tra maschi omosessuali, anche chiamati MSM, men who have sex with men, sono passati dal 6,3% nel 1985 al 40,9% nel 2014. Nel medesimo anno la trasmissione madre-figlio contribuiva per solo lo 0,3% alle nuove infezioni.

Dal 2010 in poi nel nostro paese si è iniziato a raccogliere dati riguardanti il numero di linfociti CD4+ presenti alla diagnosi: secondo i dati del 2014 la percentuale di persone con un numero di linfociti CD4+ inferiore a 200 cellule/µl era il 34,9%, mentre il 53,4% ne aveva meno di 350/µl.

Per quanto riguarda la sindrome da immunodeficienza acquisita vera e propria, il picco di nuove diagnosi si è avuto in Italia nel 1995, con oltre 5000 nuovi casi. L’incidenza si è poi ridotta drasticamente fino ad arrivare ai già citati 858 casi del 2014. L’età media alla diagnosi di AIDS è andata costantemente aumentando, come ci si poteva aspettare dato il contemporaneo aumento dell’età media alla diagnosi di infezione da HIV. Si passa da 33 anni per i maschi e 31 per le femmine nel 1985, a 45 e 42 nel 2014. Degli 858 HIV positivi riscontrati nel 2014, soltanto il 23,4% aveva ricevuto un trattamento antiretrovirale.

Si stima che nel nostro paese nel 2015 ci fossero 137.000 persone che convivevano con l’HIV.22

Nel 2013 sul territorio italiano è stato svolto uno studio a campione su 12 strutture cliniche di riferimento (vedi fig.6). L’obbiettivo era quello di valutare la continuità assistenziale degli affetti da HIV e avere un’idea di quanti di essi ricevessero la terapia antiretrovirale, e, tra questi, quanti avessero raggiunto la soppressione del virus. I risultati sono stati i seguenti: delle 10.160 persone in cura presso i 12 centri, 9201 avevano effettuato almeno una visita nel corso dell’anno. Di questi 8523, pari al 92,6% avevano ricevuto la terapia ART, e di loro 7852 ovvero l’85,4% erano riusciti a raggiungere la soppressione virale. Si capisce quindi da questi dati come in Italia, così come nella maggioranza dei paesi dell’Europa occidentale, la maggior parte delle persone HIV positive riceve assistenza continuativa nei centri clinici di malattie infettive e assume la ART.23

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2.3 L’invecchiamento della popolazione HIV positiva

In moltissime parti del mondo, compresi gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, si assiste da anni ad un aumento costante del numero delle persone con un’età pari o superiore a 50 anni affetta da HIV (vedi fig. 7).

Negli USA nel 2001 era il 17% della popolazione HIV positiva ad avere un’età superiore ai 50 anni, mentre questa percentuale è salita al 30% nel 2013 e ci si aspetta che continui a farlo. Questo però non avviene soltanto nel mondo occidentale: anche nei paesi a basso e medio reddito pro-capite il numero di queste persone continua a salire, e si stima che nei prossimi anni il numero degli anziani HIV positivi triplicherà nell’Africa sub-sahariana.

L’incremento dell’età media è dovuto principalmente a tre fattori. Per prima cosa la terapia antiretrovirale, che ha avuto un enorme successo nell’aumentare l’aspettativa di vita di chi la utilizza, soprattutto nei paesi sviluppati. Secondo: l’aspettativa di vita di coloro che riescono a raggiungere e a mantenere la soppressione virale è ormai simile a quella della popolazione generale.20 Infine, l’aumento dell’età media del primo riscontro

dell’infezione porta come è ovvio la malattia a manifestarsi su di una popolazione di età più elevata.24

In particolare grazie alla HAART, l’infezione da HIV è divenuta di fatto una malattia cronica. Le cause di mortalità e morbilità si sono modificate di conseguenza: è sceso il

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numero delle patologie AIDS definenti in coloro che ne fanno uso, mentre sono aumentate le complicazioni da neoplasie, da malattie epatiche, renali e cardiovascolari.25

Le persone che convivono con il virus dell’HIV tuttavia sperimentano un invecchiamento peggiore dei coetanei liberi da malattia sia in termini di qualità che di quantità della vita, e questo è vero anche per i soggetti senza patologie AIDS definenti e con replicazione virale soppressa. Si ritiene che la responsabilità di questa peggiore condizione ricada sui comportamenti dannosi per la salute, sul danno causato dall’infezione da HIV, sulla tossicità dei farmaci che fanno parte della terapia ART e sulle patologie legate all’età.26 Questi aspetti saranno esaminati nel dettaglio nei capitoli

successivi.

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3

LA TERAPIA DELL’INFEZIONE DA HIV

Il trattamento dell’infezione da HIV comprende la terapia antiretrovirale, la profilassi farmacologica primaria e secondaria delle infezioni opportunistiche, la terapia di queste ultime e dei tumori HIV correlati e le terapie di supporto. In questo capitolo ci concentreremo sulla terapia antiretrovirale per l’importanza che essa può avere nella patogenesi delle malattie cardiovascolari nel soggetto HIV-positivo.

3.1 I primi passi

Il primo farmaco antiretrovirale ad essere scoperto e approvato dall’americana Food and Drug Administration (FDA) fu la Zidovudina (AZT). Questa molecola venne approvata nel 1987, solo 6 anni dopo che i primi casi di AIDS erano stati riconosciuti negli Stati Uniti.27 Si trattava di un inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa virale, ed è un

farmaco ampiamente usato ancora oggi. Il farmaco da solo non era in grado di controllare la replicazione virale, ma si dimostrò in grado di aumentare l’aspettativa di vita degli infetti e di ritardare lo sviluppo della sindrome da immunodeficienza.28

Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 furono scoperti altri inibitori nucleosidici (nucleosidic reverse trascriptase inhibitors, NRTI) quali la Didanosina e la Zalcitabina. Un singolo farmaco somministrato in monoterapia tuttavia si dimostrò sempre insufficiente per sopprimere la viremia per lunghi periodi, e tutti i soggetti così trattati evolsero inevitabilmente verso l’AIDS e la morte nello spazio di alcuni anni.

Nello stesso periodo si fecero ulteriori progressi con l’associazione di 2 NRTI nel trattamento e soprattutto con la scoperta nel 1995 del Saquinavir, il primo inibitore della proteasi. Fu l’anno successivo tuttavia, il 1996, che vide la vera e propria svolta nella terapia dell’infezione: studi clinici29,30 pubblicati sul New England Journal of Medicine e su

altre importanti riviste dimostrarono che la combinazione di due inibitori della trascrittasi inversa con un inibitore della proteasi era in grado di sopprimere la replicazione virale, portando al contempo il numero di copie del virus presenti nel plasma al di sotto dei livelli che si erano in grado di riscontrare in laboratorio. Al crollo della carica virale del plasma faceva seguito inoltre la ricostituzione del sistema immunitario compromesso, con un importante aumento del numero dei linfociti CD4+

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circolanti. Fu l’inizio di quella che per distinguerla dai regimi precedenti è stata chiamata terapia antiretrovirale altamente attiva o HAART.31

3.2 La terapia antiretrovirale combinata

La logica che sta alla base della terapia HAART è la seguente: in un individuo non ancora trattato ci sono dalle 10.000 alle 100.000 copie virali per ml di plasma, e nuove copie vengono generate per sostituire quelle perdute ad un ritmo di circa 10 miliardi al giorno. La trascrittasi inversa è un enzima molto incline a commettere errori durante la retrotrascrizione del genoma virale, per cui si stima che ad ogni singolo ciclo replicativo siano generate da una a dieci mutazioni. È facile a questo punto capire quale sia il gigantesco potenziale di mutazione del virus HIV, e la facilità con cui possono insorgere farmaco resistenze.

La terapia combinata, grazie all’uso contemporaneo di 3 diversi farmaci, rende molto più difficile la comparsa e la selezione di un clone virale resistente a tutte e 3 le molecole utilizzate. Non solo: essendo un regime che molto spesso riesce in brevi periodi di tempo ad abbattere il numero di copie virali nel plasma fino a meno di 20 per ml, riduce anche considerevolmente il numero di eventi replicativi giornalieri e quindi la possibilità stessa di sviluppare una mutazione. Alcuni nuovi farmaci inoltre si sono dimostrati in grado di favorire mutazioni che sono o incompatibili con la replicazione virale stessa o capaci di aumentare la sensibilità ad altri farmaci, con un’ulteriore aumento dell’efficacia della terapia.

3.2.1 Quando iniziare la terapia?

Il momento in cui iniziare la HAART è stato oggetto di controversie nella comunità medica e scientifica. Infatti da un lato sembrava preferibili iniziare la terapia il prima possibile, seguendo lo slogan “hit hard, hit early” inventato dal ricercatore David Ho32,

uno dei padri della terapia. Questo approccio d’altro canto sembrava favorire l’insorgenza di resistenze multiple e aumentare il fardello degli effetti collaterali, tanto che venne in larga parte abbandonato. Nel 2010 le linee guida suggerivano di iniziare la terapia non prima che il numero dei linfociti CD4+ fosse al di sotto di 350/µl.31 La

prospettiva è cambiata di nuovo nel 2015, con alcuni studi come lo START33 e il

TEMPRANO34. Essi hanno dimostrato che coloro i quali iniziavano il trattamento

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eventi AIDS e non AIDS correlati, con un miglioramento di qualità e durata della vita. Oggi le linee guida internazionali suggeriscono di iniziare la terapia al primo riscontro dell’infezione indipendentemente dal numero dei linfociti.35

3.2.2 Le classi di farmaci disponibili

Ci sono 5 classi di farmaci che vengono usati per trattare l’infezione da HIV in corso di HAART. Ogni classe agisce su una diversa fase del ciclo di replicazione virale.

Inibitori dell’entrata del virus

Come abbiamo visto il virus sfrutta diverse proteine e recettori per fondere il suo pericapside con la membrana cellulare e liberare il core nel citosol. Per impedire questi eventi sono stati sviluppati alcuni farmaci, che si dividono in inibitori della fusione e antagonisti del CCR5.

I farmaci inibitori della fusione si basano sul fatto che la proteina virale gp41 possiede due domini omologhi che devono interagire l’uno con l’altro per provocare l’unione delle membrane. Una proteina eterologa può imitare uno dei due domini e impedire il corretto funzionamento della molecola virale. Queste scoperte hanno portato allo sviluppo del farmaco chiamato Enfuvirtide, che ha una potente attività antiretrovirale in vivo.

Gli antagonisti di CCR5 legano la porzione transmembrana di questo corecettore del virus HIV, e lo stabilizzano in una conformazione tale che non viene più riconosciuta dal virus stesso. Il legame con gli agonisti fisiologici viene anch’esso generalmente impedito da queste molecole. Nel 2007 uno dei farmaci che erano stati sviluppati, il Maraviroc, è stato approvato dalla FDA per l’uso umano. Bisogna tenere conto che è possibile che il virus sviluppi una resistenza a questo farmaco cambiando il suo tropismo, ovvero iniziando ad usare il CXCR4 invece del CCR5 come corecettore. Questo cosiddetto switch del tropismo porta generalmente ad una più veloce progressione della malattia.

Inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa

Questa è la prima classe di farmaci ad essere stata approvata per il trattamento dell’infezione da HIV. L’enzima trascrittasi inversa è stato subito individuato come bersaglio selettivo della terapia, dato che la trascrizione di RNA in DNA non è un processo che avviene nelle cellule dell’ospite. Le molecole che fanno parte di questa classe vengono somministrate come profarmaci che necessitano della fosforilazione da

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parte delle cellule dell’ospite prima di poter esplicare un effetto antivirale. Il meccanismo d’azione è semplice: essendo dei nucleosidi o nucleotidi incompleti interrompono lo sviluppo della nascente catena di DNA virale. In particolare essi sono privi di un gruppo ossidrile all’estremità 3’ della molecola, così che la trascrittasi inversa una volta che li ha incorporati è incapace di formare il legame con il nucleoside successivo. Attualmente ci sono 8 NRTI approvati dalla FDA: Abacavir (ABC), Didanosina (ddI), Emtricitabina (FTC), Lamivudina (3TC), Stavudina (d4T), Zalcitabina (ddC), Zidovudina (AZT) e il Tenofovir disoproxil fumarato (TDF), che a differenza degli altri è un inibitore nucleotidico e non nucleosidico.

Lo sviluppo di resistenza a questi farmaci può insorgere tramite due meccanismi: la pirofosforolisi ATP dipendente, ovvero l’eliminazione del NRTI dall’ estremità 3’ della catena nascente, e l’aumento della capacità di discriminazione tra il nucleoside/nucleotide fisiologico e l’inibitore.

Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

I farmaci che fanno parte di questa classe, a cui ci si riferisce anche con la sigla NNRTI (non-nucleoside reverse transcriptase inhibitors) esplicano la loro funzione inducendo la formazione di una tasca sull’enzima e quindi legandovisi. La tasca è vicina ma non si sovrappone al sito attivo fisiologico. Questi eventi cambiano la conformazione spaziale della parte dell’enzima che lega il substrato, e riduce la sua attività polimerasica.

Queste molecole, a differenza dei NRTI, sono attive soltanto sul virus HIV-1. La resistenza a questi farmaci si sviluppa tramite sostituzioni amminoacidiche che vanno a modificare la struttura della RT sul sito di legame.

Gli NNRTI approvati dalla FDA sono: Efavirenz (EFV), Nevirapina (NVP), Delavirdina (DLV), Etravirina (ETV), e la più recente Rilpivirina approvata nel 2011.

Inibitori dell’integrasi

Questa classe, nota in inglese come integrase inhibitors (INI), ha come bersaglio l’integrasi, un enzima necessario per l’integrazione del genoma virale all’interno di quello dell’ospite. L’idea di sviluppare farmaci contro questo enzima è abbastanza recente, e il primo farmaco di questa classe, il Raltegravir, è stato approvato nel 2007.

L’integrasi catalizza due processi: la rimozione di alcuni nucleotidi all’estremità 3’ del DNA virale, anche detto 3’-processing, e il trasferimento del filamento nel genoma dell’ospite, anche detto strand transfer. Tutti gli inibitori dell’integrasi ad oggi disponibili o

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in sviluppo inibiscono lo strand transfer, e sono perciò anche noti come integrase strand transfer inhibitors (InSTI).

Il meccanismo con cui queste molecole inibiscono il trasferimento del filamento è ormai ben compreso: da un lato legano il sito attivo dell’enzima che contiene due ioni magnesio, dall’altro interagiscono col DNA virale disturbando la reazione.

Nel 2016 i seguenti farmaci fanno parte di questa classe: il Raltegravir (RAL), l’Elvitegravir (EVG) e il Dolutegravir (DTG).

Inibitori della proteasi

La proteasi è l’enzima responsabile del taglio dei precursori peptidici derivati dai geni pol e gag. Il taglio o clivaggio di questi precursori è fondamentale per ottenere le componenti strutturali finali del virus.

Il meccanismo d’azione tipico di questa classe consiste nel legarsi al sito attivo dell’enzima inibendo la sua funzione. Nonostante la proteasi sia una piccola proteina codificata da un piccolo gene, tuttavia si è dimostrata anch’essa in grado di sviluppare mutazioni per resistere ad uno a più di questi farmaci. Infatti tutti i PI (protease inhibitors) hanno una struttura chimica simile, e la cross-resistenza è osservata frequentemente.

Sono dieci i farmaci di questa classe attualmente approvati: Amprenavir (APV), Atazanavir (ATZ), Darunavir (DRV), Fosamprenavir (FPV), Indinavir (IDV), Lopinavir (LPV), Nelfinavir (NFV), Ritonavir (RTV), Saquinavir (SQV) e Tripranavir (TPV).31

3.2.3 Con quale terapia iniziare?

Secondo le linee guida del 2015, il trattamento HAART consigliato per le persone che non hanno mai eseguito la terapia antiretrovirale consiste in due inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici (NRTI) o nucleotidici accompagnati da un inibitore dell’integrasi (INI), in inibitore della proteasi (PI) o un inibitore non nucleosidico (NNRTI) in quest’ordine di preferenza.36

3.3 L’impatto della terapia antiretrovirale sul rischio cardiovascolare

Ci sono evidenze che l’uso prolungato di farmaci antiretrovirali contribuisca alla patogenesi della malattia cardiovascolare. Le persone sottoposte a terapia antiretrovirale

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hanno generalmente livelli di colesterolo totale, LDL e trigliceridi maggiori e livelli di HDL più bassi del resto della popolazione. Tuttavia, com’è ovvio, essendo la terapia somministrata in combinazione risulta difficile capire gli effetti dei farmaci specifici su questo fenomeno.37

La dislipidemia provocata dalla terapia varia a seconda delle diverse classi di farmaci, e tra un farmaco e l’altro all’interno della stessa classe. Questo era un effetto collaterale molto comune nei farmaci di prima generazione, mentre è diventato un problema minore con quelli sviluppati più recentemente come la Rilpivirina o gli inibitori dell’integrasi.38

La classe di farmaci che fin dai primi anni ’90 è stata correlata a dislipidemia e alla maggiore insorgenza di eventi cardiovascolari è stata quella degli inibitori della proteasi. I PI infatti sembrano aumentare la secrezione epatica di LDL: uno studio del 200139 ha

dimostrato come il Ritonavir fosse capace di impedire la normale degradazione della apolipoproteina B da parte degli epatociti, rendendola disponibile per la sintesi di una maggiore quantità di lipoproteine a bassa densità. L’uso prolungato di questa classe di farmaci è stato anche associato con lo sviluppo di insulino-resistenza e di diabete di tipo II.37 Gli NNRTI sembrano promuovere la dislipidemia grazie ad una aumentata

secrezione epatica dell’apolipoproteina A1, mentre gli NRTI sembrano farlo grazie ad un meccanismo indiretto di tossicità mitocondriale.40

E’ stato nel 2003 che lo studio D:A:D (Data Collection on Adverse Events of Anti-HIV Drugs) ha per primo dimostrato un’aumentata incidenza di infarto del miocardio (MI) nei soggetti esposti per un lungo periodo alla terapia antiretrovirale combinata. Secondo questi dati, le persone che non erano mai state esposte alla ART avevano una percentuale minore di infarti rispetto ad ogni singolo gruppo trattato. I gruppi erano stati suddivisi in base alla durata della loro esposizione alla terapia: risultò così evidente che anche l’esposizione per meno di un anno aumentava leggermente il rischio cardiovascolare.41 Sette anni dopo gli stessi studiosi dimostrarono che l’uso cumulativo

di alcuni inibitori della proteasi, ovvero Indinavir, Lopinavir e Ritonavir era associato ad un aumento del rischio di infarto miocardico.42 Questi ultimi risultati vennero ottenuti

tenendo conto dell’effetto dei farmaci sul metabolismo lipidico e effettuando gli opportuni aggiustamenti: dunque essi dimostravano per la prima volta che il farmaco stesso aumentava il rischio cardiovascolare, indipendentemente dalla dislipidemia.

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Gli inibitori della proteasi non sono i soli farmaci ad aumentare intrinsecamente il rischio CV: numerosi studi hanno collegato l’uso corrente di un NRTI, l’Abacavir, con una maggiore incidenza di MI. Essendo un analogo della guanina (vedi fig.8) esso è capace di inibire la guanilato ciclasi piastrinica, portando ad un aumento della capacità di aggregazione delle piastrine e quindi a più eventi cardiovascolari.38

Figura 8. Analogia strutturale tra abacavir e guanina

Questi dati fanno comprendere quanto sia importante tener conto del rischio dislipidemico e cardiovascolare quando si intraprende la terapia HAART. L’uso di combinazioni di farmaci associate ad un rischio minore e il controllo e se possibile l’eliminazione dei tradizionali fattori di rischio sono fondamentali per la prevenzione.

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4

IL PROBLEMA DELL’INVECCHIAMENTO

La percentuale di persone con cinquanta o più anni di età che convive col virus HIV sta aumentando costantemente in tutto il mondo ormai da molti anni. Le cause di questo invecchiamento della popolazione HIV positiva, che abbiamo già ricordato, sono:

 La terapia antiretrovirale

 L’aumento dell’aspettativa di vita nei soggetti che raggiungono e mantengono la soppressione virale

 Lo spostamento del picco di incidenza della malattia dai giovani adulti a età superiori24, legato al fatto che spesso le persone con cinquant’anni o più

mantengono gli stessi fattori di rischio dei più giovani nei confronti della malattia43

Nonostante il successo della terapia antiretrovirale combinata, la durata e la qualità di vita delle persone che invecchiano con il virus rimane inferiore a quella degli HIV-negativi. La causa di questa minore aspettativa di vita va ricercata in malattie non-AIDS definenti, che hanno preso il sopravvento su quelle tipiche dell’AIDS in questi individui. Esse sono soprattutto malattie cardiovascolari, tumori, malattie epatiche, renali e neurocognitive.

La maggiore incidenza di queste condizioni patologiche nella popolazione HIV positiva ha portato la comunità scientifica a formulare l’ipotesi che tale gruppo di persone sia soggetto ad un invecchiamento accelerato.44 Come è possibile spiegare questa complessa

condizione clinica? L’aumento dell’aspettativa di vita ha dato a molti meccanismi patogenetici propri dell’infezione da HIV più tempo per rendersi evidenti: pensiamo all’infiammazione cronica, alla senescenza cellulare, all’alterazione delle difese immunitarie e alla tossicità dei farmaci, antiretrovirali e non, che si accumula nel tempo.45 A questi fattori propri della malattia vanno aggiunti i comportamenti a rischio,

frequenti in questa popolazione, e le comorbidità legate all’età avanzata.26

4.1 Fattori che influenzano l’invecchiamento negli HIV positivi

Le persone infettate dal virus dell’immunodeficienza umana sono esposti agli stessi fattori di rischio dei loro coetanei sieronegativi, ma a loro differenza convivono con uno

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stato di infiammazione cronica subacuta e con gli effetti collaterali dei diversi farmaci che compongono la terapia HAART.

4.1.1 Aumento di peso dopo l’inizio della terapia

Sebbene in generale gli HIV positivi tendano a essere meno obesi dei loro coetanei nella popolazione generale, nel primo anno di terapia ART è stato documentato un aumento del BMI (body mass index) che supera di gran lunga quello dei non infetti della stessa età. In particolare questo aumento sarebbe in media di quasi 1 kg/m2.46 Questo aumento di

peso è dovuto sia ad una diminuzione delle richieste metaboliche da parte delle cellule che ospitano il virus in attiva replicazione sia all’accumulo di lipidi e all’aumento dell’appetito che può essere indotto dalla terapia.

L’incremento ponderale non è associato con una migliore sopravvivenza47, dunque

dovrebbe essere evitato soprattutto nei soggetti che sono già sovrappeso o obesi. Non solo, uno studio48, parte del gruppo di ricerca D:A:D, ha dimostrato nel 2016 che

l’aumento del BMI sopra i valori ritenuti nella norma dopo l’inizio della ART aumenta il rischio di eventi cardiovascolari (infarti del miocardio, ictus e procedure coronariche) nei soggetti che rientravano nel range di normalità prima dell’inizio della terapia. Lo stesso studio ha dimostrato anche un aumentato rischio di sviluppare diabete di tipo II, a prescindere dal body mass index di partenza.

L’aumento del tessuto adiposo viscerale (visceral adipose tissue, VAT), ovvero il tessuto adiposo che circonda gli organi intra-addominali, sembra essere una particolare fonte di problemi. Il grasso situato nella cavità addominale sembra aumentare in percentuale del 25-30% nei due anni successivi alla terapia, anche utilizzando i farmaci più moderni. Questo incremento è correlato ad un maggiore rischio cardiovascolare specialmente se si accompagna ad una diminuzione del grasso sottocutaneo, anche detto lipoatrofia periferica. Inoltre l’incremento del VAT contribuisce all’insulino-resistenza e quindi allo sviluppo di diabete mellito di tipo II.26

Altri studi sono tuttavia necessari per capire l’effettivo contributo dell’aumento di peso nello sviluppo di queste comorbidità, dato che in questi soggetti sottoposti a HAART alcuni farmaci come l’abacavir e gli inibitori della proteasi possono dare gli stessi effetti negativi.

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4.1.2 Abuso di sostanze

Il fumo di sigaretta, l’abuso di alcol e di sostanze stupefacenti sono tutti fattori di rischio modificabili per le malattie che si possono sviluppare nel corso dell’infezione da HIV. Per quanto riguarda il fumo, numerosi studi hanno dimostrato che la percentuale di fumatori e di ex fumatori è più elevata negli HIV positivi che nella popolazione generale. Uno studio del 2015 per esempio ha rilevato che negli Stati Uniti il 42,4% delle persone affette dal virus stava attualmente fumando, una percentuale quasi doppia rispetto a quella dei fumatori nella popolazione generale, che in quella nazione si attestano al 20,6% secondo dati del 2009.49 Secondo lo stesso studio gli HIV positivi

erano anche meno inclini a smettere di fumare, con un tasso di abbandono del vizio pari al 32,4% contro il 51,7% della popolazione generale. Si ritiene che fattori sociali come il basso livello d’istruzione, la povertà, l’etnia, la depressione e l’utilizzo di droghe illecite possano spiegare questo maggiore consumo di tabacco nei soggetti sieropositivi.38

L’abuso di alcol è associato ad un maggior rischio di mortalità fra gli infetti dal virus in confronto alla popolazione generale, anche quando si parla di un consumo relativamente basso. Uno studio ha utilizzato l’indice VACS (Veterans Aging Cohort Study) per misurare il danno d’organo e il rischio di mortalità generale sia negli HIV positivi che nei non infetti. Si è dimostrato che entrambi aumentavano molto più rapidamente nei bevitori sieropositivi rispetto ai sieronegativi, a parità di alcol bevuto ogni mese.50

Per quanto riguarda il consumo di droghe illecite non è semplice ottenere dati certi, tuttavia un piccolo studio del 2016 effettuato negli Stati Uniti51 ha dimostrato che su 95

affetti sopra i 50 anni ben il 48,4% ne faceva uso. La marijuana era la sostanza più usata con il 32,6%, seguita dalla cocaina e dal crack ognuno al 10,5%. Il 7,6% faceva uso di eroina o di oppiacei mentre il 6,3% di metamfetamine. Un'altra indagine del 2013 effettuata anch’essa negli USA mostrava che su 301 HIV positivi sopra i 50 anni il 25% aveva fatto uso di sostanze illecite negli ultimi 60 giorni; di questi il 48% aveva usato cocaina, il 48% marijuana e il 44% aveva consumato anche altre droghe.52 Si ritiene

tuttavia che nel nostro paese le percentuali di persone anziane con HIV che fanno uso di sostanze stupefacenti siano molto più basse, sebbene non esistano ancora dati sufficienti per suffragare questa ipotesi. Il problema a livello mondiale non sembra comunque essere da sottovalutare.

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4.2 Le comorbidità non AIDS definenti associate all’età e all’infezione da HIV Malattie cardiovascolari

Il maggior rischio di malattie cardiovascolari negli HIV positivi e i modi per valutarlo e prevenirlo sono l’oggetto di questo studio, e saranno valutati nel dettaglio nel capitolo successivo. Per ora ci limitiamo a dire che ormai moltissimi studi hanno mostrato che gli HIV positivi hanno un aumentato rischio di infarto del miocardio rispetto ai controlli non infetti. Il rischio in particolare sembra essere da 1,5 a 2 volte superiore a seconda dei vari studi. L’aterosclerosi subclinica, misurata ecograficamente tramite lo spessore delle tonache intima e media delle arterie carotidi (intima-media thickness, IMT) risulta essere maggiore e progredire più in fretta nelle persone con HIV rispetto ai controlli, e occorre tener presente che il valore IMT è un indicatore indipendente di infarto del miocardio. Un altro indicatore di aterosclerosi subclinica, il calcium score, che misura la presenza di placche calcifiche nelle coronarie, è stato usato per dimostrare la maggiore prevalenza e estensione di queste lesioni nei soggetti infetti da HIV.38 La letteratura

prodotta finora sembra dunque supportare l’ipotesi che l’HIV sia un fattore di rischio indipendente per le malattie cardiovascolari.

Tumori non AIDS definenti

Le neoplasie che non fanno parte della definizione di AIDS sono ad oggi una delle più importanti cause di mortalità fra le persone HIV positive in terapia. Questi tumori sono, come è ovvio, causa di sofferenza e complicazioni in questi pazienti. In particolare sono frequenti i tumori che riconoscono i virus come agente eziologico: il carcinoma epatocellulare associato a HBV/HCV, il carcinoma anale associato all’infezione da HPV, che sembra avere un’elevata incidenza soprattutto tra i maschi omosessuali, e il linfoma di Hodgkin che in questi pazienti è associato a EBV nella maggioranza dei casi. Il carcinoma cervicale e quello dell’orofaringe sono anch’essi frequenti. Per quanto riguarda il cancro della mammella e quello del polmone, sembrano svilupparsi ad un’età inferiore nella popolazione infetta da HIV, e la mortalità è più elevata. Lo stesso si può dire per il linfoma di Hodgkin, che ha una prognosi ottima nella popolazione generale ma assai peggiore negli HIV positivi.26,53

Attualmente non ci sono prove che il virus HIV possa agire da oncogeno diretto, ma si ritiene che la combinazione del declino dell’immunità data dal virus e dall’invecchiamento con l’infiammazione cronica provocata dall’infezione possano essere la causa di questa aumentata incidenza tumorale.53

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Malattie epatiche

Il rischio di sviluppare una malattia del fegato è maggiore negli HIV positivi rispetto ai non infetti anche in assenza dell’infezione da HBV o HCV. Il rischio di sviluppare un carcinoma epatocellulare è elevato in presenza di fibrosi o cirrosi preesistenti, mentre è pari al resto della popolazione in assenza di queste condizioni e/o di infezioni virali al fegato.

La terapia antiretrovirale può essere essa stessa causa di danno epatico attraverso numerosi meccanismi come danno metabolico, ipersensibilità e tossicità mitocondriale. Mentre il danno metabolico è tipico degli inibitori della proteasi, la tossicità mitocondriale è un effetto collaterale caratteristico dei NRTI.

La probabilità di avere un’infezione dal virus dell’epatite C è sei volte più alta negli HIV positivi rispetto agli HIV negativi. Questo virus ha un effetto sinergico con HIV, determinando una più veloce progressione verso la cirrosi che è rallentata, ma non arrestata, dall’inizio della ART. La coinfezione con il virus HBV è anch’essa assai comune, soprattutto in Asia. Gli effetti della doppia infezione HIV/HBV non sono ancora ben chiari, ma essa potrebbe portare ad un più rapido sviluppo di carcinoma epatocellulare.26

Malattie renali

La percentuale con cui le persone con HIV sviluppano una malattia renale cronica varia dal 3,5 al 48,5%. La malattia renale che viene riscontrata classicamente nelle persone affette da HIV è la cosiddetta nefropatia associata a HIV (HIV-associated nephropathy, HIVAN), che insorge tipicamente nei soggetti di origine africana. La malattia da immunocomplessi associata a HIV è la seconda condizione renale più comune tra gli HIV positivi.

La progressione verso l’insufficienza renale è legata ad una moltitudine di fattori, tra cui la diminuzione della funzione renale legata all’età, la maggiore suscettibilità alle malattie renali in alcune etnie come quella africana e ovviamente la tossicità renale dovuta all’utilizzo della ART per lunghi periodi di tempo. In particolare l’uso del Tenofovir disoproxil fumarato è associato con una più rapida progressione. Hanno inoltre un ruolo la coinfezione da HBV o da HCV, il diabete mellito e altri fattori strettamente renali. Un basso numero di linfociti CD4+ è associato con un maggiore rischio di progressione verso l’insufficienza renale, per cui la terapia ART, ad eccezione del TDF, sembra migliorare questo rischio.

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L’insufficienza renale può aumentare notevolmente la tossicità dei farmaci e impedirne l’utilizzo, e inoltre è un importante fattore di rischio cardiovascolare. Si ritiene che un più precoce riconoscimento della malattia renale cronica grazie a programmi di screening, sia al momento della diagnosi dell’infezione da HIV sia negli anni successivi, sarà utile per migliorare la prognosi di questa grave condizione.26,54

Malattie polmonari

Le malattie polmonari associate con l’infezione da HIV, dopo aver tenuto conto della maggiore abitudine al fumo presente in questa popolazione, sono l’ipertensione polmonare, le polmoniti batteriche e la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). L’asma e la BPCO sono leggermente più comuni negli HIV positivi, con una prevalenza pari al 16-20%, e una infezione da HIV non ben controllata sembra peggiorare sia i valori rilevati alla spirometria che la capacità di diffusione polmonare55. Inoltre un basso

livello di linfociti CD4+ è un fattore di rischio per il verificarsi di episodi di riacutizzazione della BPCO.

Sebbene sia un evento assai raro nella popolazione generale, l’ipertensione polmonare viene riscontrata addirittura 1000 volte più frequentemente negli HIV positivi rispetto ai non infetti, per ragioni ancora non chiare.

Le patologie del polmone portano con sé un pesante carico di sintomi che peggiorano notevolmente la qualità della vita di coloro che invecchiano col virus dell’HIV. La vaccinazione antipneumococcica, che offre una certa protezione contro lo sviluppo della polmonite, può avere un ruolo importante nel ridurre questo fardello.26

Depressione

L’insorgenza della depressione negli HIV positivi può avere un’importanza notevole, in quanto è in grado di ridurre l’aderenza alla terapia oltre che la funzione cognitiva in chi ne è colpito. Si stima che negli Stati Uniti il 13% di queste persone abbia sperimentato nella sua vita un episodio di depressione.56 Tradizionalmente si riteneva che l’aumentata

prevalenza di questa malattia psichiatrica in questa popolazione fosse dovuta principalmente allo stigma sociale, ma quando un paziente raggiunge un’età avanzata entrano senza dubbio in gioco altri fattori come l’isolamento, le condizioni di salute precarie e la perdita delle persone care. Alcuni farmaci della terapia antiretrovirale

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potrebbero contribuire allo sviluppo di questa condizione, anche se rimane controverso il ruolo dell’Efavirenz che potrebbe essere associato ad un maggior rischio di suicidio.26

4.3 La fragilità negli anziani HIV positivi

La fragilità, una sindrome geriatrica, è una perdita della normale riserva fisiologica dei vari organi associata ad una maggiore vulnerabilità alle malattie che tendono ad avere un esito peggiore.26 I criteri che portano alla sua diagnosi comprendono la perdita di peso

non intenzionale, la stanchezza costante, la debolezza muscolare, la lentezza nel camminare e bassi livelli di attività.57 L’infezione da HIV sembra accelerare lo sviluppo

di questa condizione, anche quando il paziente ha raggiunto la soppressione virale grazie alla terapia HAART.

Mentre nella popolazione generale individui di età compresa tra i 60 e i 75 anni iniziano ad essere definiti “anziani” e a rientrare in programmi di studio e prevenzione per la età avanzata, quando si parla di soggetti affetti da HIV questo limite di età è abbassato a 50 anni.

Negli ultimi anni la comunità scientifica si è chiesta ripetutamente se l’HIV accelerasse o piuttosto accentuasse l’invecchiamento. La risposta a questa domanda è probabilmente diversa per ogni organo e per ogni malattia che prendiamo in esame. Per molti processi sembra esserci in effetti un invecchiamento accelerato: primo fra tutti per il sistema immunitario, ma anche per quanto riguarda altre sindromi geriatriche quali la fragilità stessa, l’insorgenza di multiple malattie e l’utilizzo cronico di quattro o più farmaci in aggiunta alla ART. Nelle malattie specifiche dei vari organi invece l’invecchiamento sembra accentuato da virus e/o dalla terapia piuttosto che accelerato, ed è il caso delle malattie cardiovascolari e del diabete.

La perdita di tessuto osseo e di massa muscolare sono fonte di problemi in questi individui, dato che la prima è causa di un aumentato numero di fratture e la seconda ne aumenta la debolezza fisica. Queste condizioni tendono a verificarsi anche se negli anni precedenti c’è stato un duraturo controllo della replicazione virali e i CD4 sono rimasti nella norma.

Analogamente a quanto si osserva nella popolazione generale, la fragilità negli HIV positivi è più comune nelle persone con un livello di istruzione inferiore, disoccupati o

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di basso reddito, diabetici, con malattie renali, sindromi depressive e coinfezione da HCV. Si ritiene che la patogenesi di questa condizione sia da ricercare nell’infiammazione cronica con il conseguente aumento dei radicali liberi e disfunzione mitocondriale. I livelli di proteina C reattiva e di interleuchina 6 sono aumentati nei soggetti che presentano il fenotipo della fragilità.58

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