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Lo studio si è proposto di indagare la relazione tra attaccamento, trauma, mentalizzazione, controtransfert, meccanismi di coping e personalità. Il primo obiettivo della ricerca è stata l’analisi dei modelli che caratterizzano le rappresentazioni infantili relative all’attaccamento di donne vittime di IPV. Abbiamo visto che la teoria dell'attaccamento è un paradigma che ci consente di affrontare la componente psicologica dell’IPV sia come un potenziale antecedente che come una conseguenza dell'abuso (Henderson, Bartholomew & Dutton, 1997). Dalle interviste AAI sono emersi diversi aspetti. In primo luogo i risultati hanno mostrato che il 32% del campione è stato classificato come sicuro e il 68% come insicuro. Lo studio conferma alcuni dati presenti in letteratura che mostrano come l’attaccamento insicuro sia sovrarappresentato tra le donne vittime di IPV (Henderson, Bartholomew, Trinke & Kwong, 2005; Kuijpers, van der Knaap & Winkel, 2012; Smagur, Bogat & Levendosky, 2018). Le donne, infatti, nella trasmissione dell’attaccamento dal caregiver primario al partner adulto, sembrano essere influenzate dai modelli precedenti che riflettono la misura in cui esse si sentono degne di attenzione, oltre che dalla credenza che gli altri siano disponibili per il supporto. Le donne con un modello insicuro sono

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suddivise tra donne con un attaccamento preoccupato (19,4%), che forniscono un quadro confuso e non obiettivo della propria esperienza passata, sembrano distanziarsi dalle esperienze e dalle relazioni di attaccamento nelle quali invece appaiono ancora coinvolte e invischiate e utilizzano forme di discorso passivo e vago, e in percentuale minore (12,9%) da donne con un attaccamento distanziante, caratterizzate da una costante assenza di affettività, e con narrative che in genere appaiono come poco fluenti e convincenti. L’attaccamento insicuro sembra essere un compromesso in cui l’intimità o l’autonomia sembrano essere sacrificate per mantenere la vicinanza fisica a un genitore incapace di contenere la dimensione affettiva del figlio (Fonagy et al., 1992). Sembra che l’incapacità delle madri di comprendere l’angoscia delle proprie figlie e di rifletterla in modo controllato, costringa queste’ultime ad adattarsi utilizzando quelli che la Freiberg (1982) ha definito “comportamenti difensivi”. Questi servono a limitare il contatto con il genitore (distanziante) o a distrarlo (preoccupato). Un altro dato da osservare è che più della metà del campione (51,6%) è costituito da classificazioni disorganizzate. In particolare l’eterogeneità del campione mostra: la presenza di cadute nelle strategie del discorso caratteristiche di specifiche parti dell’AAI relative a traumi (abusi) avvenuti nell’infanzia, con significativi lapsus nel monitoraggio del discorso durante la discussione di queste esperienze e una rottura più generalizzata che rivela estrema contraddizione o incapacità di mantenere una posizione organizzata tipica delle classificazioni CC, in taluni casi con una bassa coerenza tra racconti, pensieri, commenti. Le esperienze traumatiche, che caratterizzano il campione, sembrano aver distorto i modelli operativi interni e i segni di disorganizzazione sembrano indicare un breakdown delle difese psichiche (Fonagy & Target, 2001). Confrontando le classificazioni AAI organizzate e disorganizzate con i campioni della letteratura nazionale e internazionale, emerge che il campione di questo studio differisce significativamente dal campione normativo internazionale ma non da quello clinico (Bakermans-Kranenburg & van IJzendoorn, 2009). Per quanto riguarda il campione italiano, c’è una differenza statisticamente significativa con il campione normativo, ma il campione di questo studio non si discosta da quello clinico (Cassiba et al., 2013). In linea con la letteratura, sembra che queste donne possano sentirsi maggiormente al sicuro ri-creando nelle relazioni attuali un’esperienza precedente e familiare di trascuratezza o di abbandono, ravvisabile anche dal numero medio di anni di permanenza nella relazione violenta. Tali modalità insicure sembrano in grado di generare sentimenti di sicurezza. Il paradosso apparente viene risolto se si assume che l’attaccamento deriva dalle rappresentazioni mentali dell’altro. L’attaccamento a figure

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abusanti o trascuranti è la risposta che ci si può attendere da un bambino la cui esperienza di sicurezza deriva dalla sensazione di essere compreso da parte di un genitore crudele e distruttivo, e la cui comprensione è molto scarsa. In tali casi l'aumento del sostegno sociale e il rafforzamento dello sviluppo di relazioni romantiche sicure dovrebbero essere un aspetto centrale del trattamento.

Nonostante le ridotte dimensioni del campione dello studio e la scarsa letteratura per la lettura delle sottoscale dell’AAI, ci è utile riflettere clinicamente su alcuni valori. Abbiamo osservato che i risultati mostrano delle differenze statisticamente significative rispetto al campione clinico indicato dallo studio di Giovanardi e collaboratori (2018). In particolare il nostro campione presenta valori medi maggiori rispetto a svalutazione e rabbia (materna e paterna), mentre l’idealizzazione materna ha valori medi inferiori. I dati sono poi di particolare interesse se confrontiamo le scale relative a ciascun genitore. Nel campione IPV i padri si mostrano maggiormente trascuranti rispetto alle madri, che sono generalmente più coivolte e frequentemente mettono in atto inversioni di ruolo; i valori medi del rifiuto (in particolare quello paterno) sono maggiori dei valori medi dell’affetto materno e paterno.

Rispetto al secondo obiettivo teso ad indagare il ruolo del maltrattamento infantile e della relazione tra trauma infantile e vittimizzazione in età adulta, abbiamo osservato che il 71% delle donne del campione IPV ha sperimentato quattro o più forme di maltrattamento durante l’infanzia. E’ evidente nelle narrazioni una continuità tra le esperienze di maltrattamento infantile e le attuali relazioni intime violente. Questi risultati sono in linea con la letteratura che ha riconosciuto come vari tipi di maltrattamento tendono a co-occorrere (Dong et al., 2004; Felitti et al., 1998; Green et al., 2010; Higgins e McCabe, 2001) e che molte vittime spesso esperiscono più di un tipo di abuso durante l’infanzia (Finkelhor, Ormrod & Turner, 2007; Renner & Slack, 2006; Renner & Whitney, 2012; Widom et al., 2014). L’esposizione al trauma complesso, che si caratterizza per precoci esperienze continuative di maltrattamento che coinvolgono più categorie di abuso e/o trascuratezza, può avere conseguenze pervasive sulla salute mentale e sulla complessità dei sintomi e sulla psicopatologia, includendo la presenza di disturbi internalizzanti, esternalizzanti, post-traumatici e dissociativi sia nel breve che nel lungo periodo (Cook et al., 2005; Herman, 1992; Van der Kolk, Roth, Pelcovitz, Sunday & Spinazzola, 2005; Finkelhor et al., 2007, 2009). Nel campione esaminato, le forme più frequenti di esperienze traumatiche sono la trascuratezza materna e paterna, il rifiuto e l’eccessivo coinvolgimento materno, che sembrano confermare i dati ottenuti dalle scale dell’esperienza dell’AAI. È anche utile riflettere

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sul fatto che il campione IPV non è caratterizzato da eventi di perdita precoce o da una frequenza elevata di abusi sessuali, come a conferma che un aspetto centrale della vittimizzazione in età adulta sia l’esposizione prolungata a forme multiple e cumulative di maltrattamento. Questo dato sembrerebbe confermare la possibilità di una trasmissione intergenerazionale del maltrattamento, così come è stato osservato in letteratura (Speranza & Vergano, 2015; Zeanah & Zeanah, 1989).

La letteratura ci mostra come all’aumentare delle esperienze traumatiche vissute nell’infanzia si associa una maggiore probabilità di presentare uno stato della mente disorganizzato (Euser, Bakermans-Kranenburg & van IJzendoorn, 2010). Janet (1889) a riguardo afferma che “Le persone che hanno subito un trauma sono incapaci di apprendere dall’esperienza”; tuttavia nel nostro campione non sono ravvisabili associazioni tra la presenza di traumi e le diverse classificazione dell’AAI, tanto meno che per la presenza di una classificazione disorganizzata vs organizzata.

Rispetto al quarto obiettivo è stato ipotizzato, che nella storia di sviluppo delle donne vittime di IPV, sia intervenuta un’inibizione della funzione riflessiva, a fronte delle difficoltà occorse nel sistema di accudimento. La presenza di disorganizzazione, ad esempio, può avere effetti negativi sulla capacità di mentalizzare lo stato mentale degli altri (Abate, Marshall, Sharp & Venta, 2017). Tracce di una scarsa capacità riflessiva sono riscontrabili nei trascritti AAI, in cui si possono osservare delle difficoltà da parte dei soggetti a riflettere e a dare significato all’esperienza. Questo aspetto è confermato dai risultati ottenuti dalla Reflecting Functioning Scale: il punteggio globale può essere interpretato come discutibile o basso (M=2,7). Le donne presentano un'assenza di funzionamento riflessivo rappresentato da poca o nessuna ostilità (la maggior parte di loro non percepiva il compito come invadente) o da un rifiuto di indagare gli stati interni (Disconoscimento), o dalle rappresentazioni degli stati mentali come unidimensionali, che raramente riflettono emozioni contrastanti, conflitto o incertezza sulle credenze e sui sentimenti altrui (Ingenuità o FR semplicistico).

Considerando le diverse classificazioni AAI, emerge una differenza statisticamente significativa tra il gruppo dei sicuri e il gruppo dei preoccupati, e tra il gruppo dei sicuri e quello disorganizzato. Ricerche recenti hanno mostrato che l’attaccamento sicuro facilita la mentalizzazione (Fonagy et al., 2011). Da questo punto di vista l’attaccamento sicuro è molto probabilmente correlato a una mentalizzazione ottimale e flessibile, poiché le persone con questa classificazione tendono a elaborare le informazioni sociali in modo obiettivo e riflessivo (Fonagy & Luyten, 2009), mentre un livello crescente di ansia e preoccupazione potrebbe ostacolare la mentalizzazione in

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relazione ad altri vicini (Hunefeldt et al., 2013). Quando invece non è presente un sostegno, tale da supportare lo sviluppo di un legame d’attaccamento sicuro (tale da fornire il contesto per l'acquisizione di un'adeguata capacità di comprendere lo stato psicologico dell'altro nelle più importanti relazioni interpersonali), l'esperienza dell'abuso non potrà divenire oggetto di riflessione o essere risolta.

Confrontando organizzati e disorganizzati in base alla FR emerge che le donne con attaccamento organizzato presentano in media un punteggio maggiore rispetto a quello con attaccamento disorganizzato.

Tuttavia, mentre la presenza di disorganizzazione è associata a un minor funzionamento riflessivo rispetto alla classificazione organizzata, la presenza di poli-vittimizzazione non è necessariamente indicativa di un cattivo funzionamento riflessivo. Nel caso del campione IPV infatti la presenza di più traumi è associata a una migliore funzione riflessiva; è possibile che le capacità riflessive si rivelino particolarmente importanti quando si è esposti a situazioni sfavorevoli come maltrattamenti, violenze o abusi. Mentalizzare in modo adeguato infatti, oltre a favorire una manifestazione adeguata delle proprie emozioni, permette di considerare il comportamento altrui come espressione di uno stato mentale specifico (un momento di rabbia, un fraintendimento). In questo modo un atteggiamento di rifiuto o un atto di violenza non portano necessariamente a una visione negativa del Sé o della relazione con l’altro. È possibile che le donne vittime di IPV in taluni casi, possano riflettere sulle esperienze sfavorevoli, passate e presenti, inserirle in contesti specifici e attribuire ad esse un significato, elaborandole in modo adeguato e rendendo l’esperienza meno traumatica.

In altre situazioni accade invece che i meccanismi di violenza possano generare squilibri nella mentalizzazione, che possono condurre a un predominio di paura e di attaccamenti iperattivati. Molto spesso questo costringe la famiglia e i suoi membri a ricorrere a modalità prementalizzanti di pensare e agire (Asen & Fonagy, 2017). Nel caso specifico del campione in esame, le donne possono in taluni casi far ricorso a una modalità teolologica, associata ad azioni dirette ad un obiettivo, ma non collegate agli stati mentali associati. In questa modalità l’azione parla più delle parole. I modi di funzionamento prementalizzanti minano i meccanismi sociali che consentono la collaborazione umana: creatività, negoziazione, turn-taking e rispetto per gli stati mentali altrui.

Un atteggiamento mentalizzante da parte dei clinici, ossia esplorativo, aperto alla curiosità e alle indagini sugli stati mentali, che ne riconosca l’intrinseca opacità e la struttura infinitamente stratificata, produce ulteriore mentalizzazione. Nel lavoro con

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donne vittime di IPV, e in particolare con donne che hanno la propensione ad agire piuttosto che a pensare, a fare piuttosto che a sentire, la tentazione può essere quella di adottare il medesimo livello espressivo, in cui il clinico può rispondere con l’azione. I risultati hanno evidenziato la presenza di un’associazione significativa tra mentalizzazione e con alcuni pattern controtransferali (sbilanciamento cognitivo e CT positivo; sbilanciamento affettivo e CT ipercoinvolto e erotizzato; sbilanciamento automatico e CT erotizzato). Le cliniche che hanno in trattamento donne vittime di IPV con la presenza di diversi sbilanciamenti possono sperimentare nella relazione con il paziente sentimenti di intimità e di una buona alleanza di lavoro nel caso in cui manifestino uno sbilanciamento cognitivo; nel caso invece di uno sbilanciamento affettivo, le cliniche si attivano molto, si sentono responsabili o eccessivamente preoccupate, oppure possono arrivare in modo sessualizzato.

Infine rispetto all’ultimo obiettivo la somministrazione della Swap-200 ci ha permesso di suddividere il campione originario in 4 sottogruppi. I disturbi di personalità sono presenti solo in 3 soggetti. In linea generale la scelta di approfondire attraverso un clinician report la personalità, ci ha permesso di andare più a fondo rispetto alle indagini svolte in tal ambito con strumenti self report. Come si può osservare, per quel che riguarda i punteggi PD, in tutte le scale il campione ha medie molto basse. Rispetto alla personalità il campione riporta quindi risultati piuttosto positivi, motivo per cui l’ipotesi di partenza va respinta. Il numero esiguo di partecipanti alla ricerca rende inoltre difficile identificare un disturbo o un’organizzazione di personalità dominante tra le donne vittime di IPV. Osservando inoltre la scala dell’Alto Funzionamento, possiamo evidenziare un funzionamento generale piuttosto alto.

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