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Come abbiamo già esaminato nel paragrafo precedete, l'esperienza di maltrattamento durante l'infanzia può portare allo sviluppo di modelli rappresentativi negativi delle figure di attaccamento, del sé e del sé in relazione agli altri significativi (Crittenden & Ainsworth, 1989). I modelli rappresentativi che emergono dalla relazione di attaccamento possomo essere il meccanismo attraverso cui viene mantenuta la continuità delle opinioni a riguardo se stessi e altri (Sroufe & Fleeson, 1988). Queste rappresentazioni, a loro volta, possono influenzare le future interazioni sociali dell'individuo. Una ricerca condotta con campioni normativi di coppie madre-bambino ha rivelato che i bambini con attaccamento sicuro hanno più probabilità di risolvere in

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modo adattivo i successivi problemi di sviluppo (Sroufe, Carlson & Schulman 1993). Bambini con attaccamento insicuro hanno dimostrato maggiori difficoltà, inclusa una maggiore dipendenza, minore competenza sociale e minore resilienza dell'Io (Urban, Carlson, Egeland & Sroufe, 1991). Conclusioni simili sono state documentate con l'emergere di problemi comportamentali e difficoltà emotive nei bambini a rischio di attaccamento insicuro a causa della presenza di maltrattamenti, psicopatologia genitoriale, o abuso di sostanze (vedi Cicchetti, Toth & Lynch, 1995). Maltrattamenti infantili interrompono, come abbiamo visto, la possibilità di stabilire un attaccamento sicuro e di conseguenza lo sviluppo di abilità sociali e emotive, che si traduce nello sviluppo di percezioni errate di sé, degli altri e delle relazioni. Queste cognizioni (come credenze maladattive e aspettative) creano una barriera per un funzionamento interpersonale sano e sono associati a deficit nelle abilità sociali.

Nonostante queste premesse, poca attenzione è stata dedicata alla relazione tra IPV, strategie di coping e stili di attaccamento.

Per molti anni i ricercatori si sono interessati allo studio dei fattori che promuovono strategie di coping e resilienza, nonché del benessere soggettivo (Bonanno, 2004; Diener, Lucas & Oishi, 2002). Prima di descrivere i processi di coping, quali dimensioni psicologiche principalmente coinvolte nel processo di adattamento a situazioni stressanti (Holahan et al., 1994; Klapow et al., 1995), è utile dare una definizione di stress. Lazarus e Folkman (1984) definiscono lo stress come una condizione derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali, che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo. Tuttavia lo stress non è un’esperienza esclusivamente soggettiva, ma la sua entità è definita anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo. Perciò la portata stressogena di un evento è determinata, oltre che dalla valutazione cognitiva dello stimolo compiuta dall’individuo, anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo, ovvero dalla qualità dell’evento (come l’impatto emozionale che produce nel soggetto) e dalla sua quantità (come, per esempio, la durata temporale e la “vicinanza” con altri eventi che costituiscono una potenziale minaccia per l’equilibrio psico-fisico dell’individuo). Un evento sarà tanto più stressante quanto più l’individuo si percepirà inadeguato e incapace di fronteggiarlo (Lazarus, 1993; Lazarus & Folkman, 1984).

Le strategie di coping sono, dunque, le modalità che definiscono il processo di adattamento ad una situazione stressante. Con il termine coping ci si riferisce all’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della

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persona (Lazarus, 1991). La ricerca sulla definizione di coping è evoluta da tratto di personalità statico rispondente a un fattore di stress esterno, a riconoscimento dei fattori di stress come contesto-dipendenti, che influenzano gli individui in modi differenti, a seconda della valutazione e dell’importanza di ciascuna minaccia di stress. Il coping è attualmente riconosciuto come una “battaglia fluida, sensibile al contesto” per gestire un problema, e dipende da emozioni e personalità (Lazarus, 1993).

L'esposizione a violenza fisica e/o psicologica da parte del partner è una condizione stressante per le donne. Il contesto, pertanto, è particolarmente utile se parliamo di IPV; i ricercatori hanno proposto che la divisione binaria (attiva/evitante o focalizzata sul problema/focalizzata sull’emozione) non è una categorizzazione utile o rilevante in situazioni di violenza intima (Goodman, Smyth, Borges & Singer, 2009; Waldrop & Resick, 2004). Le risposte delle donne alla violenza sono infatti influenzate dalle circostanze dell’abuso e dalla valutazione delle risorse (Ellsberg, et al., 2001). Inoltre le strategie di coping differiscono a seconda che la donna stia vivendo o meno con il suo aggressore (Waldrop & Resick, 2004). Per le donne con un basso reddito e con poche risorse che vivono con i loro partner violenti, la gestione attiva e incentrata sui problemi può risultare controproducente. Esse si avvalgono delle strategie di coping delle sopravvissute, definite come una costante negoziazione al fine di esercitare il controllo di fronte a scelte drammaticamente limitate e ad alto rischio. Uno studio ha evidenziato che un tema dominante è quello di sopravvivere quotidianamente cercando di evitare successivi episodi di violenza. Donne implicate in relazioni violente da molto tempo, tendono a rappresentarsi la situazione familiare in una luce positiva, focalizzandosi sulla loro identità di mogli, casalinghe e madri, guardando al di fuori della relazione per il supporto emotivo. In modo simile anche le giovani donne utilizzano complesse manovre cognitive che modificano il significato delle situazioni stressanti, al fine di percepire gli aspetti più positivi della relazione, riportando che la relazione non è poi così negativa. Le donne che adottano varie strategie di coping per evitare, prevenire o minimizzare il verificarsi della violenza, cercano di ridurre gli effetti psicologicamente dannosi della violenza già commessa. Le strategie di evitamento delle donne vittime di IPV sono state associate ai sintomi del PTSD e ai sintomi depressivi. In alternativa, il perdono, che è una forma di coping attivo, è stato collegato al crescente disagio delle donne sopravvissute all’IPV (Foster et al, 2015). La letteratura suggerisce che le donne vittime di IPV non negano né accettano la violenza, ma vivono nella speranza che qualcosa cambierà; negoziati costanti, piccoli passi e compromessi per ridurre al

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minimo il danno di situazioni specifiche, proteggendo al contempo cose troppo costose da richiare (Goodman et al, 2009).

Gli effetti dello stress possono contribuire ad aumentare la responsabilità verso la malattia in generale e nel tempo possono produrre costellazioni quasi stabili di tratti e comportamenti disadattivi e disfunzioni pervasive che sono tipiche dei disturbi di personalità.

Craparo e collaboratori (2014) hanno osservato che alessitimia, sintomi depressivi e attaccamento insicuro sono negativamente correlati con la capacità di gestire/affrontare la situazione di stress, in situazioni di IPV. In particolare questo campione ha mostrato problematiche riferibili al problem solving. Gli autori suppongono che strategie di coping inadeguate potrebbero essere correlate con una più alta prevalenza di vittimizzazione nelle relazioni intime. Sfortunatamente, pochi studi di ricerca hanno indagato se strategie di coping inadeguate aumentano il rischio di vittimizzazione dell'IPV. Altri autori come Allen e Fonagy ci suggeriscono d’altra parte che la mentalizzazione può promuovere la resilienza al trauma e ridurre la vulnerabilità alla depressione e al PTSD, attaverso lo sviluppo di un sistema di filtraggio intrapsichico. Questo sistema si sviluppa attraverso relazioni precoci e sicure e consente ai bambini di sopportare ed elaborare le emozioni negative. Le emozioni negative possono inizialmente restringere la variabilità delle risposte di pensiero-azione, mentre le emozioni positive facilitano la resilienza promuovendo il recupero. Poiché la mentalizzazione implica la comprensione emotiva. Una persona con una buona capacità di mentalizzare avrà la capacità di regolare internamente le emozioni attraverso il pensiero, tollerare i sentimenti negativi, sviluppare un senso di sé e godere di relazioni interpersonali e di supporto sane, elementi che possono proteggerla da traumi e migliorare la resilienza (Allen et al, 2008)

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