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2. VITAMINA D E MALATTIE CARDIOVASCOLARI

2.5 Disfunzione endoteliale

L'endotelio è stato sempre più riconosciuto come una barriera intelligente e un regolatore chiave del flusso sanguigno nella circolazione micro e

macrovascolare. La vitamina D è nota per il suo effetto vasoprotettivo, mentre una sua carenza rappresenta un fattore di rischio per la disfunzione endoteliale (ED). La ED è un mediatore chiave nello sviluppo dell'aterosclerosi ed è presente molto prima delle placche aterosclerotiche o persino degli eventi cardiovascolari. In questo contesto può essere considerata come il "rischio dei

fattori di rischio", diventando un marcatore prognostico importante per le CVD [33]. La ED è caratterizzata da una ridotta biodisponibilità di vasodilatatori, in particolare l’ossido nitrico (NO). Un endotelio disfunzionale è fortemente correlato alla patogenesi di varie CVD tra cui il diabete, l’ipertensione, l’aterosclerosi e malattie dell’arteria periferica.

In presenza di stimoli umorali, neurali e meccanici, l’endotelio rilascia varie sostanze vasodilatatorie tra cui NO, prostaciclina, peptide natriuretico di tipo C, fattori iperpolarizzanti derivati dall’endotelio (EDHF), e vasocostrittori, come le specie reattive dell’ossigeno (ROS), angiotensina II ed endotelina-1.

Risulta fondamentale il mantenimento di un fine equilibrio tra vasodilatatori e costrittori per la regolazione del tono vasale. Qualsiasi interruzione di questo equilibrio potrebbe compromettere la funzione endoteliale, promuovendo un fenotipo vascolare malsano che potrebbe predisporre ad un’aumentata vasocostrizione, formazione di una placca, infiammazione vascolare ed aterosclerosi. Tra queste sostanze, il NO è una sostanza vasoattiva primaria, sintetizzata dalla L-arginina per opera della NO sintasi endoteliale (eNOS) nell’endotelio. Oltre al suo effetto vasodilatatore, il NO svolge altre funzioni vasoprotettive, protegge dallo sviluppo dell’aterosclerosi inibendo l’adesione e l’aggregazione piastrinica e l’attivazione dei leucociti. La ridotta

biodisponibilità e attività del NO sono caratteristiche primarie della ED. Fattori come la riduzione dell’attività del eNOS, che determina una ridotta sintesi del NO, e lo stress ossidativo causato dall’eccessiva produzione di radicali liberi contribuiscono alla disfunzione endoteliale.

La vitamina D svolge un ruolo chiave nella regolazione della sintesi del NO attraverso la biodisponibilità di eNOS [34]. La presenza del VDR rende possibile la produzione del NO e la bioattività del eNOS. Mentre la mancanza del gene VDR ha dimostrato ridurre la disponibilità della L-arginina.

Inoltre, la vitamina D è in grado di indurre la migrazione e la proliferazione endoteliale, promuovendo in tal modo l’angiogenesi: la produzione del NO, indotta dalla vitamina D e, in parte, responsabile di questo processo fisiologico [35].

Perciò l’attività trascrizionale della vitamina D, mediata dal VDR, è efficace per l’espressione del gene eNOS, che aumenta la produzione del NO,

migliorando così non solo la funzione endoteliale, ma anche l’attività angiogeniche delle cellule endoteliali.

3. IPERTENSIOEN ARTERIOSA

Secondo le linee guida delle Società Europee di Cardiologia (ESC) e dell’Ipertensione Arteriosa (ESH), una diagnosi di ipertensione arteriosa è possibile in presenza di valori sistolici superiori a 140 mmHg e/o diastolici superiori a 90 mmHg [37].

Definizioni di ipertensione basate sulle linee guida ESH / ESC del 2013:

Per la diagnosi di ipertensione, la pressione arteriosa sistolica, diastolica o entrambe devono superare i valori riportati. (NA, non applicabile.) [38].

In Italia si stima che almeno 15 milioni di persone abbiano un valore di pressione arteriosa ³ 160 mmHg o siano in trattamento antipertensivo. La Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (SIIA) afferma che l’ipertensione arteriosa è un problema che colpisce in media il 33% degli uomini e il 31% delle donne [39].

Danno d’organo.

La morbilità e la mortalità legate all’ipertensione sono sostanzialmente determinate dallo sviluppo del danno d’organo, cioè una serie di alterazioni

strutturali e funzionali a carico di cuore, vasi, sistema nervoso centrale e rene che condizionano in maniera determinante la prognosi del paziente iperteso.

A livello cardiaco, l’ipertensione provoca uno stress meccanico sul miocita ed un’attivazione neuro-ormonale, a cui consegue un aumento della biosintesi e del rilascio di catecolamine, angiotensina-II, peptidi natriuretici e citochine

infiammatorie. L’interazione tra questi fattori meccanici e bioumorali induce nel miocita alterazioni epigenetiche il cui risultato finale è un miocita ipertrofico ed iperplastico. Nei pazienti ipertesi non è perciò di raro riscontro la disfunzione cardiaca e l’ipertrofia. L'ipertrofia ventricolare sinistra dovuta all'ipertensione rappresenta un importante fattore di rischio per eventi cardiovascolari avversi e morte. Negli ultimi anni, la prevalenza dell'ipertrofia cardiaca è aumentata a causa dell'obesità e dell'invecchiamento della popolazione.

In particolare, un numero significativo di individui soffre di ipertrofia cardiaca persistente di fronte alla pressione sanguigna normalizzata dal trattamento

farmacologico [50], [51]. L’identificazione dei fattori che favoriscono lo sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra in pazienti ipertesi e ne influenzano l’evoluzione verso lo scompenso cardiaco ha un estremo interesse anche sul piano terapeutico.

E a tal proposito, è stato proposto dalle linee guida ESC/ESH un approccio terapeutico mirato alla riduzione del rischio cardiovascolare globale del singolo paziente iperteso attraverso l’identificazione del danno d’organo, preferibilmente quando ancora non clinicamente evidente.

A livello renale l’ipertensione provoca danni funzionali e strutturali con conseguente disfunzione dell’organo. La progressiva compromissione della funzionalità renale è caratterizzata dalla sostituzione dei nefroni funzionali con

tessuto cicatriziale fibrotico, le cui immediate conseguenze includono

l’ipoperfusione dei nefroni danneggiati, l’aumento della ritenzione di sodio, la stimolazione del RAAS che conducono a loro volta ad un esacerbato fenotipo ipertensivo [52].

Per quanto concerne il danno endoteliale ipertensivo, ricordiamo che il tono vascolare dipende dall’equilibrio dell’azione dei sistemi vasocostrittore e

vasodilatatore e dalla capacità di risposta della muscolatura liscia vascolare. Nei soggetti normotesi predomina il sistema vasodilatatore, mentre nei soggetti ipertesi predomina il vasocostrittore. Livelli di pressione sanguigna elevati e prolungati provocano attivazione, disfunzione e danni endoteliali.

Nell'ipertensione è stato osservato un aumento delle specie reattive dell'ossigeno (ROS) dovuto a una diminuzione della biodisponibilità dell'ossido nitrico

endoteliale sintasi con successivo disaccoppiamento nella produzione di ossido nitrico (NO), nonché la sua interazione con altre molecole che generano

perossinitrito radicale , implicato nel danno endoteliale [53], [54].

Il cervello è uno degli organi bersaglio colpiti dall’ipertensione. Gli aumenti sostenuti della pressione sanguigna hanno effetti profondi sulla struttura dei vasi sanguigni cerebrali poiché inducono cambiamenti adattivi volti a ridurre lo stress meccanico sulla parete arteriosa e a proteggere i microvasi dallo stress pulsatile.

Nel rimodellamento ipertrofico, la dimensione delle cellule muscolari lisce vascolari aumenta e si verifica un accumulo di proteine della matrice extracellulare, come il collagene e la fibronectina, nella parete del vaso.

Le cellule muscolare lisce subiscono così un riarrangiamento che porta ad una riduzione del lume dei vasi e ad una aumentata resistenza vascolare.

Il rimodellamento indotto dall’ipertensione risulta essere dannoso poiché rappresenta un potenziale fattore di rischio per eventi cardiovascolari e malattie cerebrovascolari. Inoltre, l’ipertensione è stata associata a deficit cognitivi, probabilmente perché causa della malattia dei piccoli vasi [55], [56].

4.OBIETTIVI

Lo scopo di questa revisione letteraria narrativa è di descrivere le evidenze disponibili sulla associazione tra la carenza di vitamina D e rischio di ipertensione arteriosa e di chiarire il ruolo della supplementazione del colecalciferolo nel controllo della pressione arteriosa sistemica.

5.METODI

La ricerca della letteratura è stata svolta nella banca dati PubMed.

La ricerca si è basata su studi di associazione e di intervento che esaminavano, rispettivamente, la relazione tra ipertensione arteriosa e livelli sierici di

vitamina D e l’effetto della supplementazione di quest’ultima sui valori pressori.

Nella ricerca dono state utilizzare le seguenti parole chiave: Vitamin D, VDR, Blood Pressure, Hypertension, Cardiovascular Disease.

6.RISULTATI

Ipertensione e vitamina D.

Considerando che l'esposizione alla luce solare della pelle è necessaria per la sintesi endogena di vitamina D, le prime speculazioni su una possibile relazione tra vitamina D e ipertensione arteriosa, fatte negli anni 90, erano basate

sull'osservazione che la prevalenza dell'ipertensione arteriosa è bassa nelle regioni soleggiate, ma diminuisce con l'aumentare della distanza dall'equatore [40].

In linea con ciò, sono numerosi gli studi che hanno riportato un’associazione inversa tra i livelli di [25(OH)D] ed entrambi i livelli di pressione sanguigna, nonché la prevalenza dell’ipertensione arteriosa [41], [42], [43], [44].

Sono stati proposti diversi possibili meccanismi su come la vitamina D potrebbe essere coinvolta nella regolazione della pressione sanguigna e nella fisiopatologia dell’ipertensione arteriosa.

Il principale meccanismo alla base della correlazione tra vitamina D e ipertensione è il RAS, oggetto di numerosi studi sperimentali che ne hanno confermato i meccanismi molecolari.

Precedentemente abbiamo visto l’effetto della vitamina D sul sistema renina-angiotensina e di come una sua carenza comporti all’interno di questo sistema un’aumentata espressione di renina, con conseguente ipertensione arteriosa e ipertrofia miocardica [19], [20], [21], [22].

Sempre in precedenza, si è accennato all’influenza della vitamina D sui livelli del PTH [31], [32]. I recettori PTH sono espressi in tutto il sistema cardiovascolare e le infusioni di PTH in volontari sani aumentano la pressione sanguigna. Studi epidemiologici, però, hanno principalmente, ma non sempre confermato una correlazione positiva di livelli di PTH e la pressione sanguigna [45].

Esistono, inoltre, evidenze che suggeriscono che l’omeostasi del calcio disturbato nel contesto di carenza di vitamina D, può indipendentemente dal PTH contribuire alla regolazione della pressione sanguigna. Il calcio è coinvolto nella regolazione della resistenza vascolare periferica modulando la contrattilità delle cellule muscolari lisce vascolari. Inoltre, è stato anche dimostrato che il calcio extracellulare ionizzato inibisce la secrezione di renina nelle cellule

iuxtaglomerulari dei reni [46]. Per quanto riguarda l’ipertensione e il calcio, un elevato apporto di sodio aumenta la perdita di calcio urinario e può parallelamente influire sul metabolismo della vitamina D; alcuni dati sperimentali suggeriscono che una dieta ricca di sale può avere effetti avversi sullo stato della vitamina D e sul suo metabolismo mediante una maggiore perdita urinaria dei suoi metaboliti [47].

Altri meccanismi che collegano la vitamina D e la pressione sanguigna possono essere correlati agli effetti diretti della vitamina D sul sistema vascolare. È stato dimostrato sperimentalmente che l’attivazione del VDR esercita vari effetti

anti-aterosclerotici. Questi, tra l’altro, comportano la diminuzione indotta dalla vitamina D delle molecole di adesione endoteliale, l’aumento della produzione di ossido nitrico (NO) e l’inibizione dei macrofagi alla formazione di cellule

schiumose [48], [49], [33], [34], [35].

I primi studi clinici a suggerire una relazione inversa tra i livelli di calcitriolo [1,25(OH)2D] e renina risalgono agli anni ottanta. Studi successivi hanno

esaminato la relazione tra la [25(OH)D] plasmatica e gli elementi del RAS in 184 individui normotesi con elevato equilibrio di sodio; questi includevano i livelli circolanti di attività reninica plasmatica e angiotensina II, e la risposta del flusso plasmatico renale ad angiotensina II infusa, che è una misura indiretta dell’attività intrinseca del RAS renale. Rispetto agli individui con livelli sufficienti di

[25(OH)D] (³30 ng/ml), quelli con insufficienza (15-29,9 ng/ml) e deficit (<15 ng/ml) avevano livelli circolanti di angiotensina II più elevati. Inoltre quelli con carenza di vitamina D avevano risposte del flusso plasmatico renale

significativamente ridotte all’angiotensina II infusa. Questi dati suggeriscono che bassi livelli plasmatici di [25(OH)D] possono provocare una sovraregolazione del RAS in esseri umani altrimenti sani [59], [60].

Diversi studi meccanicistici che confermano la regolazione negativa del gene della renina da parte della [1,25(OH)2D] hanno dimostrato che l’espressione della renina e la produzione plasmatica dell’angiotensina II erano aumentate

considerevolmente nei topi con recettori della vitamina D nulli (VDR-null), portando a ipertensione, ipertrofia cardiaca e aumento dell’assunzione di acqua.

Nei topi wild-type, l’inibizione della sintesi della [1,25(OH)2D] ha portato anche

ad un aumento dell’espressione della renina., mentre l’iniezione della [1,25(OH)2D] ha portato alla soppressione della renina.

Altri studi hanno dimostrato che la soppressione dell’espressione della renina da parte della [1,25(OH)2D] in vivo è indipendente dal PTH e dal calcio. I dati ottenuti indicano che la [1,25(OH)2D] si lega al VDR e successivamente blocca la formazione dei complessi della proteina legante l’elemento di risposta al cAMP (CRECREB-CBP) nella regione del promotore del gene della renina, riducendone il livello di espressione [61].

Un recente studio di associazione condotto dal nostro gruppo di ricerca si è posto come obiettivo quello di testare l’associazione tra livelli sierici di vitamina D (in termini di [25(OH)D]) ed ipertensione arteriosa non controllata come definito dalle linee guida ESC/ESH 2018, impiegando dati epidemiologici del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) relativi al periodo 2001-2014 [41]. Tale indagine rispondeva alla necessità di identificare meglio coloro che sono maggiormente a rischio di ipertensione arteriosa incontrollata,

considerata la particolare importanza di controllare questo fattore di rischio ai fini della prevenzione cardiovascolare. Infatti, in base ai dati europei e statunitensi, il raggiungimento del target pressorio ha successo solo in circa la metà dei pazienti trattati [65], [66], ancor più a seguito del rilascio delle nuove linee guida

sull’ipertensione arteriosa, che hanno ridefinito al ribasso i target pressori nel paziente trattato [67], [68]. I risultati dello studio indicavano che, rispetto ad avere livelli sierici di vitamina D di almeno 75 nmol/l, la carenza di vitamina D si associava ad un profilo pressorio meno favorevole per una magnitudine di 2,4/3,5 mmHg e ad una maggiore probabilità (+25-29%) di scarso controllo della

pressione arteriosa durante terapia antipertensiva. Il rischio predittivo di

trattamento antipertensivo fallimentare si riduceva del 7% per ogni aumento di 20 nmol/l dei livelli sierici di vitamina D.

Le evidenze osservazionali descritte hanno portato a supporre che risolvere l’ipovitaminosi D potesse giovare ai valori pressori e al rischio cardiovascolare.

Tuttavia, importanti sudi interventistici e meta-analisi hanno fallito nel dimostrare un effetto benefico della supplementazione di vitamina D nelle malattie

cardiovascolari e nel controllo e nell’incidenza dell’ipertensione arteriosa [62], [69], [70]. Allo stesso modo, un’assunzione più elevata di vitamina D non si associava ad una riduzione del rischio di incidenza di ipertensione arteriosa in tre vasti studi prospettici (Nurses Health Study I e II; Health Professionals’ Follow-up Study) dopo un follow-Follow-up minimo di 8 anni.

Vi sono poi evidenze per cui i diabetici e gli individui di colore mostrano miglioramenti del controllo pressorio a seguito della supplementazione di vitamina D. È stato infatti osservato la somministrazione orale di vitamina D per tre mesi riduceva la pressione sistolica in 283 Afro-americani con età media di 51 anni [75], [76]. Una meta-analisi su sette studi per un totale di 542 pazienti diabetici che ricevevano supplementazione di vitamina D ha mostrato una riduzione significativa nei valori sia della pressione sistolica che della diastolica [76].

Malattie cardiovascolari e vitamina D.

È noto che il deficit di vitamina D rappresenta un predittore del rischio di

sviluppare un primo evento cardiovascolare (infarto del miocardio, insufficienza

coronarica, angina, stroke, attacco ischemico transitorio, scompenso cardiaco o claudicatio) nei pazienti ipertesi. In particolare, un ampio studio prospettico caso controllato su 18.000 uomini ha mostrato una correlazione significativa tra bassi livelli di [25(OH)D] e un aumento del rischio di infarto miocardico dopo

l'aggiustamento per i fattori di rischio tradizionali [57].

Il maggior rischio di eventi cardiovascolari legato al deficit di vitamina D non si evidenzia però tra i soggetti normotesi [57], [58]: perciò sembra possibile che il deficit di vitamina D e l’aumento della pressione sito-diastolica esercitino un effetto sinergico nel causare il danno d’organo a livello cardiaco e quindi nel determinare il rischio cardiovascolare nel paziente iperteso.

7.DISCUSSIONE

Evidenze osservazionali e sperimentali supportano l’associazione tra ipovitaminosi D e fattori di rischio/malattie cardiovascolari.

La discrepanza tra i dati ottenuti dagli studi osservazionali ed interventistici potrebbe essere spiegata da meccanismi molecolari che condividono condizioni di esposizione simili con i pathways implicati nel metabolismo della vitamina D. In particolare, derma ed epidermide rappresentano un rilevante deposito per le forme di accumulo dell’ossido nitrico (NO), che può essere mobilizzato nel torrente ematico a seguito dell’irradiazione di raggi UVA della pelle, con conseguente vasodilatazione arteriosa e riduzione secondaria della pressione arteriosa [71]. Al contrario, non si osservano cambiamenti nei valori di pressione arteriosa a seguito dell’irradiazione con raggi UVB, che sono quelli coinvolti nella sintesi cutanea della vitamina D [72]. In accordo con questo, cambiamenti nell’irradiazione solare spiegherebbero le variazioni stagionali opposte di valori pressori e livelli di

vitamina D descritte a latitudini temperate come effetto non della aumentata sintesi di vitamina D ad opera degli UVB, bensì come effetto dell’aumentato rilascio di NO come effetto degli UVA.

Bassi livelli sierici di vitamina D potrebbero anche riflettere cambiamenti nella composizione microbiotica e nella suscettibilità dell’ospite agli effetti sistemici della disbiosi, ivi inclusa l’ipertensione arteriosa [73], [74]. In questa prospettiva, più che contribuire a ridurre essa stessa la pressione arteriosa, la vitamina D appare come un silenzioso, ma non inutile, spettatore di tale evento, indicando possibilmente una condizione ospite-specifica con impatto sulla pressione

arteriosa, piuttosto che essere l’espressione di un bisogno terapeutico volto a benefici cardiovascolari apparentemente non sostanziati.

È anche possibile che la sintesi endogena della vitamina D abbia un impatto emodinamico differente se confrontata con la relativa integrazione alimentare, come osservato per altre molecole con effetto sulla biologia vascolare.

In accordo con questo, non si osserverebbero ulteriori effetti emodinamici, oltre a quelli indotti dall’irradiazione di raggi UVA, in presenza, rispetto all’assenza, di fonti alimentari di NO.

Parallelamente, alcuni individui sembrano essere più inclini a rispondere più efficacemente alla supplementazione di vitamina D. In aggiunta a quanto descritto in pazienti diabetici e di colore, la somministrazione di vitamina D in pazienti critici è stata associata ad una riduzione significativa della mortalità [77], e nei trial della vitamina D e OmegA-3 (VITAL), dove 25871 partecipanti di diversa etnia (età media 67,1 anni, 51% donne) sono stati randomizzati a ricevere vitamina D (2000 UI/die) o placebo, è stata riportata una tendenza verso un rischio ridotto di cancro incidente nei 5,3 anni di follow-up medio [69]. Sebbene sia possibile che queste osservazioni siano dovute a fattori di confondimento, non si può escludere che alcuni dei meccanismi specifici alla base delle azioni non calcemiche della vitamina D si traducano in effetti clinici più misurabili in base alle caratteristiche specifiche della popolazione. È anche probabile che livelli più elevati di vitamina D riflettano uno stato nutrizionale migliore e/o un ambiente più sano, quindi una risposta migliore al trattamento antipertensivo e/o un profilo pressorio migliore, simile a quanto descritto per altre caratteristiche cliniche con impatto sulla pressione [78], [79].

Alla luce di quanto descritto, le evidenze disponibili a sostegno di una associazione inversa tra vitamina D e pressione arteriosa non devono essere interpretate come un suggerimento ad utilizzare i livelli sierici di vitamina D per scopi diversi da quelli raccomandati dalle attuali linee guida. L'effetto potenziale dei fattori di confondimento non misurati in tali studi, ad esempio il tempo trascorso in attività all'aperto e l'intensità relativa dell'esercizio fisico svolto, potrebbero infatti contribuire a spiegare la causalità inversa di questa

associazione.

CONCLUSIONI

Al momento possiamo concludere che l’ipertensione arteriosa possa essere associata alla carenza di vitamina D, ma non vi sono evidenze a sostegno dell’efficacia della supplementazione di vitamina D nel ridurre l’incidenza e migliorare il controllo dell’ipertensione arteriosa. I livelli sierici di [25(OH)D]

potrebbero riflettere caratteristiche specifiche dell'ospite che, a loro volta, contribuirebbero ad un cattivo controllo della pressione arteriosa, piuttosto che indicare un requisito terapeutico per la protezione cardiovascolare.

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