UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DELL’AQUILA Dipartimento di Medicina clinica, sanità pubblica,
scienze della vita e dell’ambiente
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia Presidente: Prof.ssa Leila Fabiani
Tesi di Laurea
Ipovitaminosi D ed ipertensione
arteriosa sistemica: revisione narrativa della letteratura
RELATORE CANDIDATO
Chiar.mo Prof. Claudio Ferri Silvia Giannattasio Matricola 207201
INDICE
Introduzione 4
1. LA VITAMINA D 5
1.1 Il sistema biologico vitamina D/VDR 5
1.2 Funzioni della vitamina D 7
1.3 Concetto di normalità e definizione di ipovitaminosi 10
2. VITAMINA D E MALATTIE CARDIOVASCOLARI 13
2.1 Il RAS come bersaglio principale della vitamina D 13
2.2 Vitamina D e metabolismo del glucosio 15
2.3 Associazione vitamina D e profilo lipidico 16
2.4 Malattia renale cronica 17
2.5 Disfunzione endoteliale 18
3. IPERTENSIONE ARTERIOSA 21
4.OBIETTIVI 25
5.METODI 26
6.RISULTATI 27
7.DISCUSSIONE 33
8.CONCLUSIONI 36
INTRODUZIONE
L’ipertensione e la carenza di vitamina D sono entrambe un problema di salute globale con un forte impatto negativo sulla popolazione. L’ipertensione è il più importante fattore di rischio delle malattie cardiovascolari, rappresentando una causa significativa di mortalità in tutto il mondo.
Le prime speculazione su una loro possibile associazione, tra vitamina D e ipertensione, sono state fatte negli anni ottanta, in cui si è evidenziata una variazione, sia stagionale che geografica, della mortalità cardiovascolare ed è stato possibile sospettare per la prima volta un effetto protettivo della vitamina D. Nel corso degli anni si è potuto meglio chiarire il ruolo assunto dalla
vitamina D a livello sistemico e, a seguito di numerosi studi osservazionali, oggi possiamo affermare l’esistenza di una relazione inversa tra l’ipovitaminosi D e l’ipertensione. Tuttavia, studi interventistici non hanno mostrato risultati ottimali a favore della supplementazione della vitamina D per la prevenzione delle malattie cardiovascolari nella popolazione generale.
1.LA VITAMINA D
1.1. Il sistema biologico vitamina D/VDR.
Per vitamina D si intende un gruppo di pro-ormoni liposolubili costituito da 5 diverse vitamine: D1, D2, D3, D4, D5. Le due isoforme presenti in natura sono il colecalciferolo (vitamina D3) sintetizzata dagli organismi animali e
l’ergocalciferolo (vitamina D2) di origine vegetale.
Nell’uomo la vitamina D3 viene sintetizzata nella cute sfruttando la luce solare (raggi UVB), attraverso la conversione del 7-deidrocolecalciferolo in
colecalciferolo.
Questo pro-ormone, sintetizzato nella cute o assorbito dall’intestino (20%), è presente in circolo legato alla proteina legante la vitamina D, un’ a-globulina sintetizzata nel fegato. La vitamina D subisce due idrossilazioni: la prima nel fegato, dove viene convertita in calcifediolo [25(OH)D] ad opera dell’enzima 25-idrossilasi; la seconda nel rene, a livello del tubulo convoluto prossimale, dove la [25(OH)D] viene trasformata nel metabolita attivo calcitriolo
[1,25(OH)2D] per azione dell’enzima 1a-idrossilasi mitocondriale, la cui azione è sottoposta al controllo del paratormone che ne stimola l’attività a seguito dell’ipocalcemia.
La [1,25(OH)2D] esercita i suoi effetti biologici legandosi al recettore della vitamina D (VDR), che appartiene alla superfamiglia dei recettori nucleari. Il VDR fa parte della sottofamiglia dei recettori che include quelli degli ormoni tiroidei, dei retinoidi e i recettori attivati dai proliferatori dei perossisomi (PPAR) [1]. Il VDR funge da fattore trascrizionale. Si lega a specifiche sequenze sul DNA, i cosiddetti VDRE (Vitamin D Response Element) di tipo DR3. In assenza di un ligando, il VDR è legato ai VDRE di tipo non DR3 ed è associato alle proteine corepressori.
Quando [1,25(OH)2D] si lega al VDR, questo induce un cambiamento conformazionale che porta alla formazione di due siti di interazione proteica.
Uno facilita l’interazione con un partner eterodimero, come il recettore X dei retinoidi, necessario per il legame con le sequenze specifiche del DNA, l’altro è essenziale per il reclutamento di complessi co-attivatori che modificano la cromatina permettendo la prosecuzione della trascrizione genica [2].
L’affinità del VDR per la [1,25(OH)2D] è superiore a quella per altri metaboliti della vitamina D, per cui, in condizioni fisiologiche, questi non sono in grado di stimolare tale recettore.
1.2 Funzioni della vitamina D.
La vitamina D è nota per la sua funzione primaria nel mantenimento
dell’omeostasi calcio-fosforo, resa possibile dalla presenza del VDR nei tessuti implicati nella regolazione dell’omeostasi del calcio: intestino, osso e rene. La possibilità dei suoi effetti extra-scheletrici è stata suggerita dalla scoperta, negli anni ’80, della presenza del VDR in tessuti e cellule che non erano coinvolti nel mantenimento dell’omeostasi del calcio, compresi pancreas, cute, placenta, cervello e cellule T attivate.
Figura1. Tessuti che esprimono il recettore della vitamina D.
A. Effetti su intestino, tessuto osseo e muscolo.
La vitamina D è un potente induttore della calbindina 9K, una proteina legante il calcio espressa nell’intestino, che insieme ad altri due trasportatori del calcio sensibili alla vitamina D, TRPV5 e TRPV6 (transient receptor potential vanilloid), svolgono un ruolo importante nel trasporto attivo del calcio attraverso l’enterocita, aumentandone l’assorbimento.
La [1,25(OH)2D] a livello osseo ne induce il riassorbimento. Il VDR è espresso dagli osteoblasti e regola l’espressione di numerosi geni su queste cellule. I geni bersaglio comprendono quelli per le proteine della matrice ossea, osteocalcina e osteopontina. La [1,25(OH)2D], come il PTH, induce l’espressione del RANKL, che stimola la differenziazione e l’attività degli osteoclasti legandosi a RANK sui progenitori degli osteoclasti e su quelli maturi. Un deficit marcato della vitamina D può portare a patologie ossee caratterizzate da un difetto di mineralizzazione, come il rachitismo nel
osteopenia, osteoporosi e di fratture vertebrali e del femore soprattutto nei soggetti anziani. [3]
Altro ruolo della [1,25(OH)2D] è quello di stimolare la produzione di proteine muscolari e di attivare alcuni meccanismi di trasporto del calcio a livello del reticolo sarcoplasmatico, che risultano essenziali per la contrazione muscolare.
Il VDR si trova principalmente sulle fibre muscolari a contrazione rapida, che rispondono prima in azioni rapide, quindi non sorprende che un apporto
sufficiente di vitamina D permetta l’aumento della forza e il coordinamento dei muscoli, consentendo la prevenzione delle cadute, mentre un suo deficit possa condurre a quadri di miopatia prossimale, disarcopenia e di riduzione della forza muscolare, con disturbi dell’equilibrio e con conseguente aumento del rischio di cadute [4], [5].
B. Effetti extrascheletrici.
La presenza del recettore per la vitamina D è stata già osservata in vari tipi cellulari ed è stata documentata l’espressione della 1-aidrossilasi nei macrofagi attivati, negli osteoblasti, nei cheratinociti e nella prostata, colon e mammella.
La produzione locale della [1,25(OH)2D] sembra implicata nei meccanismi di regolazione paracrina della crescita cellulare, compresa quella tumorale.
È stato dimostrato che [1,25(OH)2D] e i suoi analoghi rallentano la crescita delle cellule tumorali arrestando le cellule nella fase G0/G1 del ciclo cellulare, inducendone la differenziazione o inducendo morte cellulare apoptotica.
Inoltre, [1,25(OH)2D] influenza l'angiogenesi, altera l'adesione e la migrazione delle cellule e riduce l'invasività delle cellule tumorali [6].
Il ruolo della vitamina D nella modulazione del sistema immunitario è supportato dalla presenza del VDR sulle cellule del sistema immunitario sia innato che acquisito, compresi macrofagi, cellule dendritiche, cellule B, cellule T. Numerosi studi condotti confermano il suo ruolo nella stimolazione della risposta immunitaria innata e acquisita. Nelle malattie infettive, la vitamina D sembra migliorare la chemiotassi, la fagocitosi e la produzione di proteine antimicrobiche [7]. Nel contesto dell’autoimmunità, molti studi sostengono l’esistenza di un suo possibile ruolo immunomodulante, con un effetto inibitorio su cellule Th1, cellule associate a processi autoimmuni, a favore di una risposta Th2, più tollerogenica [8].
Altro effetto della vitamina D lo riscontriamo a livello del tessuto adiposo dove alcuni studi su modelli animali suggeriscono un’attività antiadipogenica nei preadipociti 3T3-L1. La carenza o l’insufficienza di vitamina D è coinvolta nella regolazione della secrezione di insulina, dei livelli di glucosio e
dell'infiammazione che causano malattie metaboliche adipose, come obesità, sclerosi multipla, diabete e steatosi epatica [9].
Il ruolo della vitamina D nella regolazione della pressione arteriosa è stato suggerito dall’identificazione del VDR nel tessuto renale, dove la vitamina D esplica il suo effetto diminuendo l’espressione del gene che codifica per la renina.
1.3 Concetto di normalità e definizione di ipovitaminosi.
I livelli di vitamina D variano attraverso le diverse fasi di vita, in base alle stagioni, alla latitudine, al grado di esposizione solare, al fenotipo e al BMI
[10]. Attualmente una significativa difficoltà sia nel campo della ricerca che nella pratica clinica è la variabilità analitica del dosaggio dei livelli di vitamina D [11]. Viene considerato come miglior biomarcatore dello stato vitaminico D la [25(OH)D] sierica totale (D2+D3). Essa infatti è relativamente stabile nel siero, viene prodotta dall’idrossilazione epatica senza controllo ormonale e presenta un’emivita abbastanza lunga (2-3 settimane). A differenza della sua forma attiva, [1,25(OH)2D], che ha un’emivita di 15 ore circa ed è influenzata in modo piuttosto rapido dai livelli di PTH e calcio.
La definizione dei livelli di normalità e di carenza di vitamina D è un tema molto discusso. Mentre vi è unanime accordo che valori della [25(OH)D]
<10ng costituiscono una condizione di severa deficienza, la definizione di
“normalità” è ancora dibattuta [12]. Di solito i valori di riferimento vengono costruiti su un campione di popolazione che si assume normale, calcolandone media, mediana e deviazione standard e costruendo quindi un range di
riferimento.
Distinto dal valore di “normalità” è il livello “ottimale” o “desiderabile”, definito come quel valore che si è dimostrato efficace per ottenere la
prevenzione della malattia e/o degli eventi avversi a essa correlati sulla base di evidenze fornite da studi osservazionali. Secondo le indicazioni dell’Institute of Medicine (IOM), i livelli ottimali della [25(OH)D] sierica dovrebbero essere superiori a ³ 20 ng/ml; per l’Endocrine Society (ES) superiori a 30 ng/ml.
Inoltre alcuni autori propongono livelli superiori a 40 ng/ml, come adeguati ad ottenere positivi effetti extra-scheletrici.
La mancanza di un accordo sui valori soglia nasce dall’assenza di un metodo di dosaggio unico e standardizzato per la [25(OH)D] e per i suoi metaboliti, da alcuni proposti come parte integrante del pannello di valutazione dello stato vitaminico D (“vitamin D panel”).
Ad oggi la spettrometria di massa è stata proposta come gold standard per l’elevata sensibilità, specificità ed accuratezza e la possibilità di analizzare simultaneamente più metaboliti del vitamin D panel. Grazie a questo metodo altamente affidabile, è nato nel 2010 il Vitamin D Standardization Program (VDSP) con lo scopo di creare un sistema di riferimento internazionale, migliorando l’individuazione, la valutazione e il trattamento della carenza e dell’insufficienza della vitamina D [13], [14].
Tabella- Interpretazione dei livelli ematici della [25(OH)D].
In conformità con le Linee guida SIOMMMS in Italia viene accettata la definizione dell’ipovitaminosi D con una soglia diagnostica della concentrazione della vitamina D inferiore a 30 ng/ml (condizione che include gli stati di insufficienza e carenza della vitamina D).
Definizione nmol/l ng/ml
Carenza <50 <20
Insufficienza 50-75 20-30
Eccesso >250 >100
Intossicazione >350 >250
2. VITAMINA D E MALATTIE CARDIOVASCOLARI:
PLAUSIBILITA’ BIOLOGICA.
La carenza di vitamina D è un problema di salute globale con conseguenze negative [15]. Esiste un numero crescente di prove epidemiologiche e cliniche nella letteratura che collega la carenza di vitamina D a malattie cardiovascolari.
I fattori di rischio cardiovascolare, come l’ipertensione arteriosa, obesità dislipidemia o diabete mellito, nonché le malattie cardiovascolari, tra cui l’infarto del miocardio, malattia coronarica o ictus, sono le malattie più diffuse e rappresentano le principali cause di morte in tutto il mondo, in particolare nei Paesi occidentali [16]. Ciò sottolinea l’importanza di chiarire il ruolo della vitamina D nel contesto delle malattie cardiovascolari.
Già negli ’80 , si riferiva di una variazione stagionale della mortalità
cardiovascolare e si sospettava un effetto protettivo delle radiazioni UVB sul rischio cardiovascolare [17]. Un’associazione di vitamina D e diversi fattori di rischio cardiovascolare e malattie è stata ampiamente valutata. Numerosi studi osservazionali, meta-analisi prospettiche e studi interventistici hanno affrontato il possibile collegamento della carenza di vitamina D e lo sviluppo di malattie cardiovascolari e i suoi fattori di rischio [18].
2.1 Il sistema renina-angiotensina come bersaglio principale della vitamina D.
il sistema renina-angiotensina (RAS) è una cascata endocrina regolatoria con un forte impatto sulla pressione sanguigna, sulla perfusione dei tessuti, sull’omeostasi del volume extracellulare e sull’equilibrio elettrolitico.
La renina viene rilasciata nella circolazione in risposta a diversi fattori scatenanti fisiologici. Attraverso scissione, la renina converte
l’angiotensinogeno in angiotensina I (ATI) che viene successivamente idrolizzato dall’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) per formare l’angiotensina II (ATII), il principale prodotto attivo del RAS. La maggior parte dei ruoli fisiologici e fisiopatologici di ATII sono mediati dal legame con il recettore dell’angiotensina II (ATIIR1), causando vasocostrizione, aumento della pressione sanguigna e contrattilità cardiaca, ipertrofia cardiaca,
amplificazione del sistema nervoso simpatico, aumento della ritenzione di sodio e angiogenesi.
Il RAS è il principale bersaglio della vitamina D, giustificando il legame tra carenza di vitamina D e malattie cardiovascolari. Diversi studi hanno evidenziato una relazione inversa tra i livelli circolanti di [1,25(OH)2D] e l’attività della renina plasmatica in soggetti ipertesi, riconoscendo il [1,25(OH)2D] come regolatore endocrino negativo della renina.
Nei topi knock out del recettore della vitamina D si è osservato lo sviluppo di iperreninemia a causa della sovraregolazione dell’espressione della renina nel rene [19]. Un altro studio che conferma il ruolo critico della vitamina D nella regolazione del RAS è stato condotto nei topi Cyp27b1-null. Questi topi mancano del gene 1 α-idrossilasi (che converte [25(OH)D] in [1,25(OH)2D]).
Analogamente ai topi knock out VDR, quelli knock out Cyp27b1 sviluppano iperreninemia, ipertensione e ipertofia cardiaca a seguito dell’iper-regolazione della renina. Nei topi transgenici che sovraesprimono il VDR umano nelle cellule juxtaglomerulari, si è dimostrato che il livello di mRNA della renina
renale e l’attività della renina plasmatica sono significativamente soppressi mentre i livelli sierici di calcio e del PTH sono normali [19].
I dati umani supportano questi risultati. Gli individui con bassi livelli di [25(OH)D] hanno un aumento dell'attivazione del sistema renina-angiotensina sistemica e specifica del rene, mentre gli individui ipertesi con polimorfismi nel recettore della vitamina D hanno anche un aumento dell'attivazione del RAS [20], [21]. Nello studio di Ludwigshafen Risk and Cardiovascular Health (LURIC), condotto su una vasta coorte di pazienti, è emerso che entrambi i livelli sierici della [25(OH)D] e della [1,25(OH)2D] sono indipendenti e inversamente associati alla concentrazione plasmatica di renina e ai livelli di angiotensina II [22].
2.2 Vitamina d e metabolismo glucidico.
Il diabete di tipo 2 (DM2) è sempre più comune e allarmante sia a livello nazionale che mondiale [23]. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riferito che circa il 90% di tutti i casi di diabete costituisce il DM2 e circa 15 milioni di persone nel mondo soffrono di DM2. Disturbi come l’infiammazione sistemica, difetti nella via di segnalazione dell’insulina e disfunzione delle cellule beta pancreatiche, sono coinvolte sia nello sviluppo dell’insulino- resistenza che nello sviluppo del DM2.
La carenza di vitamina D può essere associata alla patogenesi di numerose patologie, tra cui anomalie metaboliche.
Negli studi osservazionali e prospettici, bassi livelli di vitamina D sono stati associati a disturbi del metabolismo del glucosio, nonché a un rischio maggiore di sviluppare diabete in futuro.
Esistono diversi possibili meccanismi che potrebbero spiegare l’associazione della carenza di vitamina D con i disturbi dell’omeostasi del glucosio e del diabete mellito. Il VDR e l’enzima 1a-idrossilasi sono stati rilevati in vari tipi di cellule, tra cui le cellule beta pancreatiche e le cellule insulino-sensibili come gli adipociti. Il tessuto adiposo è un sito importante di conservazione della vitamina D e un’importante fonte di adipokine e citochine che
partecipano alla formazione dell’infiammazione sistemica. È noto che l’obesità, soprattutto viscerale, è uno dei principali fattori di rischio per il DM2. È stato suggerito che il potenziale legame tra diabete e obesità sia la carenza di vitamina D che coesiste con l’obesità [24].
È stato anche ipotizzato che il calcio, cruciale per la sintesi e la secrezione di insulina, potrebbe svolgere un ruolo, poiché è principalmente regolato dalla vitamina D [25]. Un’altra possibile via potrebbe essere la stimolazione dell’osteocalcina indotta dalla vitamina D, che può migliorare la sensibilità all’insulina.
2.3 Associazione vitamina D e profilo lipidico.
Considerando l’ubiquità del VDR e della 1-aidrossilasi, vari studi hanno ipotizzato un ruolo chiave della vitamina D sulla salute metabolica, in particolare sui lipidi sierici. Bassi livelli sierici della [25(OH)D] sono stati associati a mortalità, malattie cardiovascolare, DM2, ipertensione e obesità. La
carenza di vitamina D è stata correlata ad un profilo lipidico sfavorevole, in particolare si è evidenziata un’associazione con l’ipercolesterolemia, che potrebbe spiegare la relazione con le malattie cardiovascolari e la mortalità.
La relazione tra vitamina D e lipidi sierici ha finora ricevuto poca attenzione, con risultati incoerenti. Perciò attualmente dobbiamo attendere ulteriori studi per ben definire tale relazione [26], [27].
2.4 Malattia renale cronica.
I livelli di Vitamina D nei pazienti con malattia renale cronica (CKD) sono significativamente più bassi rispetto alla popolazione generale. Nei pazienti in dialisi è stata osservata un’alta prevalenza di carenza della vitamina D con valori inferiori a 20 ng/ml in oltre il 70%. Tali dati posso essere giustificati considerando che questi pazienti sono soggetti ad una minor esposizione solare, a causa di una maggior prevalenza di comorbilità, di conseguenza la ridotta capacità della pelle di sintetizzare la vitamina D nonché la perdita di proteine che legano la vitamina D nelle urine sono principalmente responsabili dell'alta prevalenza di livelli depressi di [25(OH)D] , che vengono utilizzati per valutare lo stato vitaminico [28].
Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato che livelli più bassi di [25(OH)D] sono associati ad albuminuria e/o alla progressione
dell’insufficienza renale. Inoltre, la carenza di vitamina D è stata identificata come fattore di rischio indipendente per una maggiore mortalità nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica, che può essere attribuita a decessi cardiovascolari. Studi osservazionali condotti su pazienti con insufficienza
renale cronica hanno associato la riduzione contemporanea dei livelli delle [25(OH)D] e [1,25(OH)2D] a tassi di mortalità più elevati [29], [30].
Bisogna considerare che nella storia naturale della CKD la diminuzione del numero di nefroni funzionanti porta ad un accumulo di fosfato;
l’iperfosfatemia induce l’espressione del fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23) responsabile a livello renale dell’alterata sintesi di [1,25(OH)2D] e dell’inibita attività della 1a-idrossilasi. Questo si traduce in una carenza di [25(OH)D]. Sia il carico di fosfato che il deficit di [1,25(OH)2D] causano ipocalcemia e l’insieme di questi rappresentano il principale stimolo della secrezione di PTH dalla ghiandola paratiroidea che sfocia nel conseguente iperparatiroidismo secondario [31].
Ciò giustifica come nel campo della nefrologia si è posta particolare attenzione sul ruolo della vitamina D, poiché la sua supplementazione induce la riduzione dei livelli di PTH, che rappresenta di per sé un fattore di rischio
cardiovascolare indipendente [32].
2.5 Disfunzione endoteliale.
L'endotelio è stato sempre più riconosciuto come una barriera intelligente e un regolatore chiave del flusso sanguigno nella circolazione micro e
macrovascolare. La vitamina D è nota per il suo effetto vasoprotettivo, mentre una sua carenza rappresenta un fattore di rischio per la disfunzione endoteliale (ED). La ED è un mediatore chiave nello sviluppo dell'aterosclerosi ed è presente molto prima delle placche aterosclerotiche o persino degli eventi cardiovascolari. In questo contesto può essere considerata come il "rischio dei
fattori di rischio", diventando un marcatore prognostico importante per le CVD [33]. La ED è caratterizzata da una ridotta biodisponibilità di vasodilatatori, in particolare l’ossido nitrico (NO). Un endotelio disfunzionale è fortemente correlato alla patogenesi di varie CVD tra cui il diabete, l’ipertensione, l’aterosclerosi e malattie dell’arteria periferica.
In presenza di stimoli umorali, neurali e meccanici, l’endotelio rilascia varie sostanze vasodilatatorie tra cui NO, prostaciclina, peptide natriuretico di tipo C, fattori iperpolarizzanti derivati dall’endotelio (EDHF), e vasocostrittori, come le specie reattive dell’ossigeno (ROS), angiotensina II ed endotelina-1.
Risulta fondamentale il mantenimento di un fine equilibrio tra vasodilatatori e costrittori per la regolazione del tono vasale. Qualsiasi interruzione di questo equilibrio potrebbe compromettere la funzione endoteliale, promuovendo un fenotipo vascolare malsano che potrebbe predisporre ad un’aumentata vasocostrizione, formazione di una placca, infiammazione vascolare ed aterosclerosi. Tra queste sostanze, il NO è una sostanza vasoattiva primaria, sintetizzata dalla L-arginina per opera della NO sintasi endoteliale (eNOS) nell’endotelio. Oltre al suo effetto vasodilatatore, il NO svolge altre funzioni vasoprotettive, protegge dallo sviluppo dell’aterosclerosi inibendo l’adesione e l’aggregazione piastrinica e l’attivazione dei leucociti. La ridotta
biodisponibilità e attività del NO sono caratteristiche primarie della ED. Fattori come la riduzione dell’attività del eNOS, che determina una ridotta sintesi del NO, e lo stress ossidativo causato dall’eccessiva produzione di radicali liberi contribuiscono alla disfunzione endoteliale.
La vitamina D svolge un ruolo chiave nella regolazione della sintesi del NO attraverso la biodisponibilità di eNOS [34]. La presenza del VDR rende possibile la produzione del NO e la bioattività del eNOS. Mentre la mancanza del gene VDR ha dimostrato ridurre la disponibilità della L-arginina.
Inoltre, la vitamina D è in grado di indurre la migrazione e la proliferazione endoteliale, promuovendo in tal modo l’angiogenesi: la produzione del NO, indotta dalla vitamina D e, in parte, responsabile di questo processo fisiologico [35].
Perciò l’attività trascrizionale della vitamina D, mediata dal VDR, è efficace per l’espressione del gene eNOS, che aumenta la produzione del NO,
migliorando così non solo la funzione endoteliale, ma anche l’attività angiogeniche delle cellule endoteliali.
3. IPERTENSIOEN ARTERIOSA
Secondo le linee guida delle Società Europee di Cardiologia (ESC) e dell’Ipertensione Arteriosa (ESH), una diagnosi di ipertensione arteriosa è possibile in presenza di valori sistolici superiori a 140 mmHg e/o diastolici superiori a 90 mmHg [37].
Definizioni di ipertensione basate sulle linee guida ESH / ESC del 2013:
Per la diagnosi di ipertensione, la pressione arteriosa sistolica, diastolica o entrambe devono superare i valori riportati. (NA, non applicabile.) [38].
In Italia si stima che almeno 15 milioni di persone abbiano un valore di pressione arteriosa ³ 160 mmHg o siano in trattamento antipertensivo. La Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (SIIA) afferma che l’ipertensione arteriosa è un problema che colpisce in media il 33% degli uomini e il 31% delle donne [39].
Danno d’organo.
La morbilità e la mortalità legate all’ipertensione sono sostanzialmente determinate dallo sviluppo del danno d’organo, cioè una serie di alterazioni
strutturali e funzionali a carico di cuore, vasi, sistema nervoso centrale e rene che condizionano in maniera determinante la prognosi del paziente iperteso.
A livello cardiaco, l’ipertensione provoca uno stress meccanico sul miocita ed un’attivazione neuro-ormonale, a cui consegue un aumento della biosintesi e del rilascio di catecolamine, angiotensina-II, peptidi natriuretici e citochine
infiammatorie. L’interazione tra questi fattori meccanici e bioumorali induce nel miocita alterazioni epigenetiche il cui risultato finale è un miocita ipertrofico ed iperplastico. Nei pazienti ipertesi non è perciò di raro riscontro la disfunzione cardiaca e l’ipertrofia. L'ipertrofia ventricolare sinistra dovuta all'ipertensione rappresenta un importante fattore di rischio per eventi cardiovascolari avversi e morte. Negli ultimi anni, la prevalenza dell'ipertrofia cardiaca è aumentata a causa dell'obesità e dell'invecchiamento della popolazione.
In particolare, un numero significativo di individui soffre di ipertrofia cardiaca persistente di fronte alla pressione sanguigna normalizzata dal trattamento
farmacologico [50], [51]. L’identificazione dei fattori che favoriscono lo sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra in pazienti ipertesi e ne influenzano l’evoluzione verso lo scompenso cardiaco ha un estremo interesse anche sul piano terapeutico.
E a tal proposito, è stato proposto dalle linee guida ESC/ESH un approccio terapeutico mirato alla riduzione del rischio cardiovascolare globale del singolo paziente iperteso attraverso l’identificazione del danno d’organo, preferibilmente quando ancora non clinicamente evidente.
A livello renale l’ipertensione provoca danni funzionali e strutturali con conseguente disfunzione dell’organo. La progressiva compromissione della funzionalità renale è caratterizzata dalla sostituzione dei nefroni funzionali con
tessuto cicatriziale fibrotico, le cui immediate conseguenze includono
l’ipoperfusione dei nefroni danneggiati, l’aumento della ritenzione di sodio, la stimolazione del RAAS che conducono a loro volta ad un esacerbato fenotipo ipertensivo [52].
Per quanto concerne il danno endoteliale ipertensivo, ricordiamo che il tono vascolare dipende dall’equilibrio dell’azione dei sistemi vasocostrittore e
vasodilatatore e dalla capacità di risposta della muscolatura liscia vascolare. Nei soggetti normotesi predomina il sistema vasodilatatore, mentre nei soggetti ipertesi predomina il vasocostrittore. Livelli di pressione sanguigna elevati e prolungati provocano attivazione, disfunzione e danni endoteliali.
Nell'ipertensione è stato osservato un aumento delle specie reattive dell'ossigeno (ROS) dovuto a una diminuzione della biodisponibilità dell'ossido nitrico
endoteliale sintasi con successivo disaccoppiamento nella produzione di ossido nitrico (NO), nonché la sua interazione con altre molecole che generano
perossinitrito radicale , implicato nel danno endoteliale [53], [54].
Il cervello è uno degli organi bersaglio colpiti dall’ipertensione. Gli aumenti sostenuti della pressione sanguigna hanno effetti profondi sulla struttura dei vasi sanguigni cerebrali poiché inducono cambiamenti adattivi volti a ridurre lo stress meccanico sulla parete arteriosa e a proteggere i microvasi dallo stress pulsatile.
Nel rimodellamento ipertrofico, la dimensione delle cellule muscolari lisce vascolari aumenta e si verifica un accumulo di proteine della matrice extracellulare, come il collagene e la fibronectina, nella parete del vaso.
Le cellule muscolare lisce subiscono così un riarrangiamento che porta ad una riduzione del lume dei vasi e ad una aumentata resistenza vascolare.
Il rimodellamento indotto dall’ipertensione risulta essere dannoso poiché rappresenta un potenziale fattore di rischio per eventi cardiovascolari e malattie cerebrovascolari. Inoltre, l’ipertensione è stata associata a deficit cognitivi, probabilmente perché causa della malattia dei piccoli vasi [55], [56].
4.OBIETTIVI
Lo scopo di questa revisione letteraria narrativa è di descrivere le evidenze disponibili sulla associazione tra la carenza di vitamina D e rischio di ipertensione arteriosa e di chiarire il ruolo della supplementazione del colecalciferolo nel controllo della pressione arteriosa sistemica.
5.METODI
La ricerca della letteratura è stata svolta nella banca dati PubMed.
La ricerca si è basata su studi di associazione e di intervento che esaminavano, rispettivamente, la relazione tra ipertensione arteriosa e livelli sierici di
vitamina D e l’effetto della supplementazione di quest’ultima sui valori pressori.
Nella ricerca dono state utilizzare le seguenti parole chiave: Vitamin D, VDR, Blood Pressure, Hypertension, Cardiovascular Disease.
6.RISULTATI
Ipertensione e vitamina D.
Considerando che l'esposizione alla luce solare della pelle è necessaria per la sintesi endogena di vitamina D, le prime speculazioni su una possibile relazione tra vitamina D e ipertensione arteriosa, fatte negli anni 90, erano basate
sull'osservazione che la prevalenza dell'ipertensione arteriosa è bassa nelle regioni soleggiate, ma diminuisce con l'aumentare della distanza dall'equatore [40].
In linea con ciò, sono numerosi gli studi che hanno riportato un’associazione inversa tra i livelli di [25(OH)D] ed entrambi i livelli di pressione sanguigna, nonché la prevalenza dell’ipertensione arteriosa [41], [42], [43], [44].
Sono stati proposti diversi possibili meccanismi su come la vitamina D potrebbe essere coinvolta nella regolazione della pressione sanguigna e nella fisiopatologia dell’ipertensione arteriosa.
Il principale meccanismo alla base della correlazione tra vitamina D e ipertensione è il RAS, oggetto di numerosi studi sperimentali che ne hanno confermato i meccanismi molecolari.
Precedentemente abbiamo visto l’effetto della vitamina D sul sistema renina- angiotensina e di come una sua carenza comporti all’interno di questo sistema un’aumentata espressione di renina, con conseguente ipertensione arteriosa e ipertrofia miocardica [19], [20], [21], [22].
Sempre in precedenza, si è accennato all’influenza della vitamina D sui livelli del PTH [31], [32]. I recettori PTH sono espressi in tutto il sistema cardiovascolare e le infusioni di PTH in volontari sani aumentano la pressione sanguigna. Studi epidemiologici, però, hanno principalmente, ma non sempre confermato una correlazione positiva di livelli di PTH e la pressione sanguigna [45].
Esistono, inoltre, evidenze che suggeriscono che l’omeostasi del calcio disturbato nel contesto di carenza di vitamina D, può indipendentemente dal PTH contribuire alla regolazione della pressione sanguigna. Il calcio è coinvolto nella regolazione della resistenza vascolare periferica modulando la contrattilità delle cellule muscolari lisce vascolari. Inoltre, è stato anche dimostrato che il calcio extracellulare ionizzato inibisce la secrezione di renina nelle cellule
iuxtaglomerulari dei reni [46]. Per quanto riguarda l’ipertensione e il calcio, un elevato apporto di sodio aumenta la perdita di calcio urinario e può parallelamente influire sul metabolismo della vitamina D; alcuni dati sperimentali suggeriscono che una dieta ricca di sale può avere effetti avversi sullo stato della vitamina D e sul suo metabolismo mediante una maggiore perdita urinaria dei suoi metaboliti [47].
Altri meccanismi che collegano la vitamina D e la pressione sanguigna possono essere correlati agli effetti diretti della vitamina D sul sistema vascolare. È stato dimostrato sperimentalmente che l’attivazione del VDR esercita vari effetti anti-
aterosclerotici. Questi, tra l’altro, comportano la diminuzione indotta dalla vitamina D delle molecole di adesione endoteliale, l’aumento della produzione di ossido nitrico (NO) e l’inibizione dei macrofagi alla formazione di cellule
schiumose [48], [49], [33], [34], [35].
I primi studi clinici a suggerire una relazione inversa tra i livelli di calcitriolo [1,25(OH)2D] e renina risalgono agli anni ottanta. Studi successivi hanno
esaminato la relazione tra la [25(OH)D] plasmatica e gli elementi del RAS in 184 individui normotesi con elevato equilibrio di sodio; questi includevano i livelli circolanti di attività reninica plasmatica e angiotensina II, e la risposta del flusso plasmatico renale ad angiotensina II infusa, che è una misura indiretta dell’attività intrinseca del RAS renale. Rispetto agli individui con livelli sufficienti di
[25(OH)D] (³30 ng/ml), quelli con insufficienza (15-29,9 ng/ml) e deficit (<15 ng/ml) avevano livelli circolanti di angiotensina II più elevati. Inoltre quelli con carenza di vitamina D avevano risposte del flusso plasmatico renale
significativamente ridotte all’angiotensina II infusa. Questi dati suggeriscono che bassi livelli plasmatici di [25(OH)D] possono provocare una sovraregolazione del RAS in esseri umani altrimenti sani [59], [60].
Diversi studi meccanicistici che confermano la regolazione negativa del gene della renina da parte della [1,25(OH)2D] hanno dimostrato che l’espressione della renina e la produzione plasmatica dell’angiotensina II erano aumentate
considerevolmente nei topi con recettori della vitamina D nulli (VDR-null), portando a ipertensione, ipertrofia cardiaca e aumento dell’assunzione di acqua.
Nei topi wild-type, l’inibizione della sintesi della [1,25(OH)2D] ha portato anche
ad un aumento dell’espressione della renina., mentre l’iniezione della [1,25(OH)2D] ha portato alla soppressione della renina.
Altri studi hanno dimostrato che la soppressione dell’espressione della renina da parte della [1,25(OH)2D] in vivo è indipendente dal PTH e dal calcio. I dati ottenuti indicano che la [1,25(OH)2D] si lega al VDR e successivamente blocca la formazione dei complessi della proteina legante l’elemento di risposta al cAMP (CRECREB-CBP) nella regione del promotore del gene della renina, riducendone il livello di espressione [61].
Un recente studio di associazione condotto dal nostro gruppo di ricerca si è posto come obiettivo quello di testare l’associazione tra livelli sierici di vitamina D (in termini di [25(OH)D]) ed ipertensione arteriosa non controllata come definito dalle linee guida ESC/ESH 2018, impiegando dati epidemiologici del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) relativi al periodo 2001- 2014 [41]. Tale indagine rispondeva alla necessità di identificare meglio coloro che sono maggiormente a rischio di ipertensione arteriosa incontrollata,
considerata la particolare importanza di controllare questo fattore di rischio ai fini della prevenzione cardiovascolare. Infatti, in base ai dati europei e statunitensi, il raggiungimento del target pressorio ha successo solo in circa la metà dei pazienti trattati [65], [66], ancor più a seguito del rilascio delle nuove linee guida
sull’ipertensione arteriosa, che hanno ridefinito al ribasso i target pressori nel paziente trattato [67], [68]. I risultati dello studio indicavano che, rispetto ad avere livelli sierici di vitamina D di almeno 75 nmol/l, la carenza di vitamina D si associava ad un profilo pressorio meno favorevole per una magnitudine di 2,4/3,5 mmHg e ad una maggiore probabilità (+25-29%) di scarso controllo della
pressione arteriosa durante terapia antipertensiva. Il rischio predittivo di
trattamento antipertensivo fallimentare si riduceva del 7% per ogni aumento di 20 nmol/l dei livelli sierici di vitamina D.
Le evidenze osservazionali descritte hanno portato a supporre che risolvere l’ipovitaminosi D potesse giovare ai valori pressori e al rischio cardiovascolare.
Tuttavia, importanti sudi interventistici e meta-analisi hanno fallito nel dimostrare un effetto benefico della supplementazione di vitamina D nelle malattie
cardiovascolari e nel controllo e nell’incidenza dell’ipertensione arteriosa [62], [69], [70]. Allo stesso modo, un’assunzione più elevata di vitamina D non si associava ad una riduzione del rischio di incidenza di ipertensione arteriosa in tre vasti studi prospettici (Nurses Health Study I e II; Health Professionals’ Follow- up Study) dopo un follow-up minimo di 8 anni.
Vi sono poi evidenze per cui i diabetici e gli individui di colore mostrano miglioramenti del controllo pressorio a seguito della supplementazione di vitamina D. È stato infatti osservato la somministrazione orale di vitamina D per tre mesi riduceva la pressione sistolica in 283 Afro-americani con età media di 51 anni [75], [76]. Una meta-analisi su sette studi per un totale di 542 pazienti diabetici che ricevevano supplementazione di vitamina D ha mostrato una riduzione significativa nei valori sia della pressione sistolica che della diastolica [76].
Malattie cardiovascolari e vitamina D.
È noto che il deficit di vitamina D rappresenta un predittore del rischio di
sviluppare un primo evento cardiovascolare (infarto del miocardio, insufficienza
coronarica, angina, stroke, attacco ischemico transitorio, scompenso cardiaco o claudicatio) nei pazienti ipertesi. In particolare, un ampio studio prospettico caso controllato su 18.000 uomini ha mostrato una correlazione significativa tra bassi livelli di [25(OH)D] e un aumento del rischio di infarto miocardico dopo
l'aggiustamento per i fattori di rischio tradizionali [57].
Il maggior rischio di eventi cardiovascolari legato al deficit di vitamina D non si evidenzia però tra i soggetti normotesi [57], [58]: perciò sembra possibile che il deficit di vitamina D e l’aumento della pressione sito-diastolica esercitino un effetto sinergico nel causare il danno d’organo a livello cardiaco e quindi nel determinare il rischio cardiovascolare nel paziente iperteso.
7.DISCUSSIONE
Evidenze osservazionali e sperimentali supportano l’associazione tra ipovitaminosi D e fattori di rischio/malattie cardiovascolari.
La discrepanza tra i dati ottenuti dagli studi osservazionali ed interventistici potrebbe essere spiegata da meccanismi molecolari che condividono condizioni di esposizione simili con i pathways implicati nel metabolismo della vitamina D. In particolare, derma ed epidermide rappresentano un rilevante deposito per le forme di accumulo dell’ossido nitrico (NO), che può essere mobilizzato nel torrente ematico a seguito dell’irradiazione di raggi UVA della pelle, con conseguente vasodilatazione arteriosa e riduzione secondaria della pressione arteriosa [71]. Al contrario, non si osservano cambiamenti nei valori di pressione arteriosa a seguito dell’irradiazione con raggi UVB, che sono quelli coinvolti nella sintesi cutanea della vitamina D [72]. In accordo con questo, cambiamenti nell’irradiazione solare spiegherebbero le variazioni stagionali opposte di valori pressori e livelli di
vitamina D descritte a latitudini temperate come effetto non della aumentata sintesi di vitamina D ad opera degli UVB, bensì come effetto dell’aumentato rilascio di NO come effetto degli UVA.
Bassi livelli sierici di vitamina D potrebbero anche riflettere cambiamenti nella composizione microbiotica e nella suscettibilità dell’ospite agli effetti sistemici della disbiosi, ivi inclusa l’ipertensione arteriosa [73], [74]. In questa prospettiva, più che contribuire a ridurre essa stessa la pressione arteriosa, la vitamina D appare come un silenzioso, ma non inutile, spettatore di tale evento, indicando possibilmente una condizione ospite-specifica con impatto sulla pressione
arteriosa, piuttosto che essere l’espressione di un bisogno terapeutico volto a benefici cardiovascolari apparentemente non sostanziati.
È anche possibile che la sintesi endogena della vitamina D abbia un impatto emodinamico differente se confrontata con la relativa integrazione alimentare, come osservato per altre molecole con effetto sulla biologia vascolare.
In accordo con questo, non si osserverebbero ulteriori effetti emodinamici, oltre a quelli indotti dall’irradiazione di raggi UVA, in presenza, rispetto all’assenza, di fonti alimentari di NO.
Parallelamente, alcuni individui sembrano essere più inclini a rispondere più efficacemente alla supplementazione di vitamina D. In aggiunta a quanto descritto in pazienti diabetici e di colore, la somministrazione di vitamina D in pazienti critici è stata associata ad una riduzione significativa della mortalità [77], e nei trial della vitamina D e OmegA-3 (VITAL), dove 25871 partecipanti di diversa etnia (età media 67,1 anni, 51% donne) sono stati randomizzati a ricevere vitamina D (2000 UI/die) o placebo, è stata riportata una tendenza verso un rischio ridotto di cancro incidente nei 5,3 anni di follow-up medio [69]. Sebbene sia possibile che queste osservazioni siano dovute a fattori di confondimento, non si può escludere che alcuni dei meccanismi specifici alla base delle azioni non calcemiche della vitamina D si traducano in effetti clinici più misurabili in base alle caratteristiche specifiche della popolazione. È anche probabile che livelli più elevati di vitamina D riflettano uno stato nutrizionale migliore e/o un ambiente più sano, quindi una risposta migliore al trattamento antipertensivo e/o un profilo pressorio migliore, simile a quanto descritto per altre caratteristiche cliniche con impatto sulla pressione [78], [79].
Alla luce di quanto descritto, le evidenze disponibili a sostegno di una associazione inversa tra vitamina D e pressione arteriosa non devono essere interpretate come un suggerimento ad utilizzare i livelli sierici di vitamina D per scopi diversi da quelli raccomandati dalle attuali linee guida. L'effetto potenziale dei fattori di confondimento non misurati in tali studi, ad esempio il tempo trascorso in attività all'aperto e l'intensità relativa dell'esercizio fisico svolto, potrebbero infatti contribuire a spiegare la causalità inversa di questa
associazione.
CONCLUSIONI
Al momento possiamo concludere che l’ipertensione arteriosa possa essere associata alla carenza di vitamina D, ma non vi sono evidenze a sostegno dell’efficacia della supplementazione di vitamina D nel ridurre l’incidenza e migliorare il controllo dell’ipertensione arteriosa. I livelli sierici di [25(OH)D]
potrebbero riflettere caratteristiche specifiche dell'ospite che, a loro volta, contribuirebbero ad un cattivo controllo della pressione arteriosa, piuttosto che indicare un requisito terapeutico per la protezione cardiovascolare.
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