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Distinctio, emendatio, interpretatio (Appunti su sacre rappresentazioni)

Compito dell’editore, soprattutto di testi antichi – come è noto – è quello di cercare di decifrare le opere oggetto di studio; questo lavoro, detto interpretatio, si concretizza in modi diversi. A note esegetiche vere e proprie, che chiariscano aspetti culturali sottrattici dal tempo, riportandoci perciò al contesto in cui l’opera è nata o è stata ambientata e alla ricezione che i ‘fruitori’ hanno voluto vedere e leggere nel corso dei secoli, si aggiungono altre note di carattere linguistico, grammaticale, sintattico, poiché anche qui il tempo ha giocato un ruolo, mutando, in modo più o meno avvertito dal lettore, le ‘regole’. Ma un’altra intepretatio è data dall’editore, quando decide di operare la divisione delle parole, che nei mss. spesso sono unite, senza quella logica che noi siamo abituati a vedere nei nostri libri; anzi, oltre alla ‘divisione delle parole’, bisogna tante volte fare la ‘giuntura’ fra voci che i testi, mss. o a stampa (parlo degli incunaboli e delle Cinquecentine, dato che poi il fenomeno a poco a poco evolverà verso la situazione per noi oggi abituale), ci danno separate, seguendo più di una volta la logica del risparmio del mezzo scrittorio: finito il rigo, si va a capo senza alcuna regola, separando anche vocali da consonanti che per noi dovrebbero stare loro attaccate. E poi c’è l’interpretazione data dalla punteggiatura, che assegna pause e toni e può stravolgere completamente un testo. La nostra abitudine a vedere nelle stampe i segni che indirizzano il lettore è tale che si fatica persino a immaginare un testo che ne sia privo, se non in tutto, almeno in parte. Eppure i mss., come è noto, non ne facevano grande uso; e, quando ci sono dei segni, diversi da quelli oggi standardizzati, non sempre si possono mantenere tali e quali, non solo per la funzione mutata nel tempo, ma perché – non so se dire ‘più volte’ – i copisti li segnavano a caso, come fanno tanti studenti, attingendo al serbatoio su cui sta il cartello: «Usare la punteggiatura», sotto il quale appare nella memoria la firma con il nome della maestra, che a forza di ripetere ha inchiodato questa necessità scrittoria.

Quando in tipografia si incominciarono a usare tali segni, a più d’uno non piacevano, tanto che il Corbinelli, uomo di talento e di studio, ne provava fastidio, fino a lamentare,

nella prefazione alla Bellamano di Giusto dei Conti (Parigi 1589), che «le stampe da circa ottanta anni in qua sono in modo incaccate & daccenti, & dapostrofi, e imbratti simili»: accenti e apostrofi, per noi meramente strumentali, sono bollati imbratti, come ogni altro segno; il participio incaccate non necessita commento. Per lui, infatti, era ‘più gratificante’ – diremmo oggi – leggere ad esempio i sonetti dell’aura come li aveva scritti Petrarca; e, mentre noi vediamo: «L’aura gentil, che rasserena i poggi» (CXCIV), «L’aura serena, che fra verdi fronde» (CXCVI), «L’aura celeste, che ’n quel verde lauro» (CXCVII), «L’aura soave al sole spiega et vibra» (CXCVIII), «L’aura et l’odore e ’l refrigerio et l’ombra» (CCCXXVII), «L’aura mia sacra al mio stanco riposo» (CCCLVI), egli preferiva partecipare attivamente, scoprendo di volta in volta e decidendo se Laura fosse L’aura, operando così una distinctio mentale, mentre le due voci restavano per la grafia perfettamente sovrapponibili e ambigue, talora anche ambivalenti, con sfumature e scissione del significato; si rilegga, notando la circolarità e il chiasmo, il verso: «Laura celeste, che ’n quel verde lauro». A noi queste finezze sfuggono. Ma sfuggono anche i giochi di parola, spesso dovuti a errata (e tante volte voluta) segmentazione, come quella tragica del Novellino LXXXIV in cui Ezzelino da Romano fa morire impiccato uno perché era «un olaro», ‘un pentolaio’: Ezzelino, da buon settentrionale, avendo sentito «uno laro», interpreta ‘un ladro’. Si può vantare il valore ludico di questi giochetti verbali: di Niccolò Franco, allievo dell’Aretino, riporto la quartina in cui dice del maestro:

Prencipi, egli si sa che già non piove la vostra grazia sopra l’Aretino, o perch’egli sia d’acqua, o sia di-vino, o perch’egli sia d-otto, o sia di nove.533

Né manca l’ironia per l’ignoranza: il Marchesino Eufemio del Belli dava «nel castello avito il suo gran saggio | di toscan, di francese e di latino», e tradusse con «exercitus

lardi» quello che era un «esercito distrutto»! Tale scherzosa segmentazione non è

sconosciuta alla cultura popolare, che si regge soprattutto sull’oralità; recita un proverbio toscano: «Fattore, fatto re», perché tradizionalmente il fattore è uno che vive spellando il

proprio padrone.534

Certo, l’esempio di Petrarca appartiene alla letteratura, mentre i casi di cui mi occuperò sono terra terra, poiché la qualità artistica – al giudizio critico – se si stilasse una scala di valori sarebbe molto distante. Ma il problema è sostanzialmente lo stesso, proprio perché tocca la scrittura, ogni scrittura che deve essere interpretata.

Parlo di sacre rappresentazioni e laude drammatiche, che maestri insigni hanno pubblicato nell’Otto e nel Novecento. I loro lavori sono di grande utilità, se non altro perché hanno portato sul tavolo degli studiosi e degli appassionati opere che i secoli celavano. La quantità del lavoro è tanta che… aliquando dormitat Homerus!

Poiché si passeranno in rassegna lavori di importanti studiosi e maestri, come ad esempio il D’Ancona,535 che si sono sobbarcati a faticose edizioni (le sudate carte!)

specie di testi inediti o seppelliti in stampe antiche, sembra irriguardoso segnalarne piccoli errori e sviste. Credo invece che ciò debba essere di stimolo, proprio perché, approfittando del loro lavoro e basandoci sulle loro fatiche, possiamo continuarne lo studio: Bernardo di Chartres aveva ragione quando diceva: «Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes»! E se a volte è più facile preparare una edizione di sana pianta, senza condizionamenti di altri editori, in una specie di ‘lettura ingenua’ del testo, a volte diventa più semplice commentare ciò che altri hanno fatto.

Il puntuale ‘repertorio’ di Brugnolo per il XIV secolo e di Berisso per il XV536 fa

notare come gli studi sulle sacre rappresentazioni siano fermi alle grandi raccolte antologiche: queste, muovendo da Alessandro D’Ancona,537 con metodi filologici

differenti secondo tempi e scuole sono arrivate a Newbigin, editrice di un Nuovo corpus

534 Proverbio citato da Boggione, Massobrio, Dizionario dei proverbi cit., p. 93.

535 Segnalo solo il D’Ancona, perché è il primo dei tempi moderni che si è dedicato a tali studi, anche con

le Origini del teatro italiano, Torino 1891.

536 E. Malato (dir.), Storia della letteratura italiana, vol. X. La tradizione dei testi cit., rispettivamente p.

270 e pp. 537-539.

537 Trascrivendo i testi non sempre rispetto le maiuscole degli editori e ho messo accenti gravi e acuti

secondo l’uso odierno. Non indico quelli che mi sembrano banali errori di stampa, anche se talvolta le conseguenze sono proprio negative (né so giudicare sempre se si tratti veramente di questione tipografica): si veda la risposta di Giovanni a Cristo: «Io penso te, vero figliuol di Dio, | essere in carne per salvare il mondo: | che questo rilevasti al padre mio», Rappresentazione di san Giovanni nel deserto, in Banfi (cur.),

Sacre rappresentazioni del Quattrocento cit., p. 102: evidentemente rivelasti, come si legge in D’Ancona, Sacre rappresentazioni cit., vol. I, p. 248 ed anche in Feo Belcari, Sacre rappresentazioni e laude,

e una aggiunta recenziore;538 numerosi sono, invece, su piani diversi, resoconti e

interpretazioni nelle storie letterarie della seconda metà del Novecento e in singoli saggi specifici su genesi e struttura e diffusione di questo genere teatrale, nato con intenti devozionali e religiosi.539 Per l’eccezionalità della sede e per l’argomento, merita accenno

esplicito il saggio di Spanò Martinelli, che guarda alle sacre rappresentazioni come fonte per l’agiografia,540 vestendo il punto di vista dello storico; bisogna aggiungere che anche

le laude, sebbene ancora non studiate sotto questo aspetto, talora sono portatrici di

legendae altrimenti ignote.541

Rileggendo dunque i testi nell’antologia del D’Ancona, che è stata «fonte di tutte le edizioni più recenti»,542 in quella del De Bartholomaeis,543 in quella del Lommatzsch,544 e

538 Newbigin, Nuovo corpus di Sacre rappresentazioni cit.; Ead., Dieci sacre rappresentazioni inedite fra Quattro e Cinquecento cit., pp. 21-397.

539 Ad esempio, si vedano: Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento. Convegno di studi, Roma 17-20 giugno, Anagni 21 giugno 1992, Centro di studi sul teatro medioevale e

rinascimentale, a cura di M. Chiabò e F. Doglio, Roma 1993; Teatro e culture della rappresentazione. Lo

spettacolo in Italia nel Quattrocento, a cura di R. Guarino, Bologna 1988; e i capitoli delle storie del

teatro, come F. Doglio, Il teatro in Italia. I. Medio Evo e Umanesimo, Roma 1995; L. Allegri, Teatro e

spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari 1998. Si veda infine il saggio di P. Ventrone, La sacra rappresentazione fiorentina, ovvero la predicazione in forma di teatro, in Letteratura in forma di teatro. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI, a cura di G. Auzzas, G. Baffetti, C. Delcorno,

Firenze 2003, pp. 255-280. Un caso a sé, per singolarità e struttura e tempo, resta il siciliano Marcu di Grandi, La Resurressioni cit.

540 Italia fra il 1450 e il 1550, in Hagiographies, Corpus Christianorum, Brepols-Turnhout 1996, vol. II,

pp. 61-82 (ma in particolare pp. 72-73).

541 Mi riferisco ad esempio alla questione della datazione del martirio di Pancrazio, come si desume dal

Mgl2, diversa da quella degli Acta Sanctorum e della B.SS. (cfr. Mgl2, pp. 405-407), oppure alla Lauda di sam Piero Pettinagnolo, che, pur se generica, diventa altra fonte per la conoscenza di questo santo,

ricordato da san Bernardino nelle prediche sul Campo di Siena nel 1427 (cfr. l’ed. curata da C. Delcorno, Milano 1989, pp. 484-495, 671), dato che le sue notizie biografiche sono veramente scarse. I testi dello stesso laudario e di tutti quelli nei quali si trovano laude santorali sono spesso ‘riduzione in versi’ della

Legenda aurea. Si veda ancora per Ugolino da Cortona alle pp. 000-000lle pp. SACCHETTI.

542 Come scrive Berisso, in Malato (dir.), Storia della letteratura italiana, X. La tradizione dei testi cit., p.

538, n. 133. Fra tutte le antologie sopra ricordate, lavoro prettamente filologico in accezione moderna è solamente quello della Newbigin, Nuovo corpus di Sacre rappresentazioni cit.

543 De Bartholomaeis, Laude drammatiche cit. Questa però non dipende in tutto dal D’Ancona (e, come

dichiara il titolo, riporta pure laude drammatiche, per la predilezione critica dell’autore e dell’epoca; in questi miei appunti, ad onta del titolo, se ne esamineranno alcune). Si veda anche Bonfantini (cur.), Sacre

rappresentazioni italiane cit.; Ponte, Sacre rappresentazioni cit. Eleganti, ma senza edizione, i fascicoli di

Toschi (ed.), Sacre rappresentazioni toscane dei secoli XV e XVI cit.; per il fascicolo con La

rapresentatione di Abel e di Caino si veda il mio articolo citato. Brevi annotazioni (non sempre puntuali)

nella raccolta Faccioli (cur.), Il teatro italiano. I. Dalle origini al Quattrocento cit.

544 E. Lommatzsch, Beiträge zur älteren italienischen Volksdicthung Untersuchungen und Texte, Band IV, Ein vierter Wolfenbütteler Sammelband. 2. Sacre rappresentazioni mit 25 Abbildungen und einem Generalregister zu Band I-IV 1, 2, Berlin 1963.

in altre ancora, non si può fare a meno di pensare che bisognerebbe procurare nuove edizioni, soprattutto per completarle di commento che spesso manca,545 ma anche per

proporre soluzioni per lezioni poco soddisfacenti, veri errori di copisti, cioè della tradizione.546 Per copista qui intendo anche i moderni editori, ognuno sicuramente

‘ultimo copista’ oltre che interprete.547 I loro testi sono diventati quasi una vulgata, e

talora la lectio recepta risulta infida, se non si bada al particulare. L’edizione dovrebbe avvicinarsi quanto più possibile all’originale, ma nello stesso tempo deve fornire al lettore un testo comprensibile. A volte però la mole di lavoro lascia sfuggire delle minuzie, e rimane spazio per ulteriore riflessione e congetture; in ciò si ha conferma, se ce ne fosse bisogno, che tutte le edizioni (comprese quelle critiche, stricte lateque), sono sempre ‘ipotesi di lavoro’ e perciò stesso suscettibili di revisione.

Nei testi che qui si esaminano in linea di massima si possono trovare due categorie di errori: quelli di tradizione, manoscritta o a stampa, e quelli di interpretazione.548 Qualche

545 Il D’Ancona, Sacre rappresentazioni cit., ha solo qualche nota per spiegare lemmi difficili e brevi

introduzioni ai singoli testi, nelle quali accenna alle copie a stampa e indica la fonte dell’argomento; il De Bartholomaeis, Laude drammatiche cit., non ha note, indica fonti, e ha un glossario, così come la Newbigin, Nuovo corpus di Sacre rappresentazioni cit. Commentano Banfi (cur.), Sacre rappresentazioni

del Quattrocento cit., e Ponte, Sacre rappresentazioni cit.; anche in queste sarebbe necessario evidenziare

brani biblici o liturgici e fonti; o dati più interessanti, come quando Giovanni dice a Cristo: «O sommo Dio, come assetato cervo | di mia salute sei disceso in terra» (p. 105): lampante la specularità di: «Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus» (Ps 41, 2), dimostrandosi così la raffinatezza del poeta; oppure, perché vi si legge memoria dantesca: «che sempre mai a lacrimar m’invita» (p. 98), a fronte di Inf. VI, 59; e: «ancor di carità gran fiume spandi» (p. 100), con Inf. I, 80. Nella Rappresentazione della natività di Cristo, presente in Banfi e Ponte, annoterei alla str. 8, mentre parla Maria rivolta al Figlio: «… qual è il palazzo, e’ servi, e’ panni, e ’l letto? | La capannella, el

bue, l’asino, e ’l fieno, | Signor del tutto, e ciascun de’ seguirti, | e non hai panni sol da ricoprirti»: non è

mai messa in evidenza, pur con lo sfasamento di panni, la tecnica dei versus rapportati, elegantissima nonostante si tratti di testi popolari. Proprio quest’ultimo aspetto dovrebbe fare riflettere su che cosa si intenda per popolarità (da parte dell’autore o della diffusione fra il pubblico?), se vi sia una gradualità di toni in essa, etc.

546 Pur con tutte le differenze, i nostri testi si possono avvicinare alla ‘teatralità’ dei cantari, per cui si

consulta con profitto, per questioni varie: Problemi di metodo dell’edizione dei cantari di D. De Robertis,

Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano 1978, pp. 91-109; Premessa ai “Cantari antichi”, ib., pp. 110-114; anzi, questo discorso viene avvalorato dalla convincente ipotesi

sostenuta da P. Ventrone, Morfologia della sacrarappresentazione fiorentina, in Guarino, Teatro e culture

della rappresentazione cit., pp. 195-225.

547 Rispetto ai copisti del passato, però, il ‘copista-editore’ ha lo ‘svantaggio-vantaggio’ di un controllo

maggiore da parte di tanti lettori, ai quali si affida anche per un giudizio sul lavoro svolto.

548 Questa distinzione potrebbe sembrare superflua, poiché l’interpretatio, bene o male, è stata attuata

anche dai copisti del passato, essendo un’azione quasi insita all’atto del copiare; ma l’ultimo copista, cioè l’editore moderno (il discorso è chiaramente generale), oltre a diffondere più copie tutte ‘originali’, l’ha segnata con maggiore evidenza, almeno per noi lettori moderni abituati alla punteggiatura, creando così i presupposti per una vulgata ricca di imprecisioni e fraintendimenti: la Vulgata di Girolamo ne è esempio.

esempio potrà subito chiarire. Lectio recepta è la seguente, in una ottava della Sacra

rappresentazione sulla creazione del mondo,549 in cui, dopo il peccato, Dio maledice il

serpente:

Perché hai tu commessa questa guerra, animal reo, e tu sia maladetto

fra tutti li animali e bestie in terra, e andrai sempre mai sopra ’l tuo petto, terra mangiando sempre in ogni serra.

Tra la femmina a te odio e sospetto sia tra ’l tuo sempre e suo, e col tuo lagno

attriterà il tuo capo al suo calcagno (vv. 369-376).550

I tre versi finali non hanno senso. Leggiamo la fonte, i noti versetti di Gn 3, 14-15:

Quia fecisti hoc, maledictus es inter omnia animantia, et bestias terrae: super pectus tuum gradieris, et terram comedes cunctis diebus vitae tuae. Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen

illius: ipsa conteret caput tuum, et tu insidiaberis calcaneo eius.551

È chiaro che al v. 374 bisogna intervenire correggendo: «tra la femmina e te odio e sospetto | sia», recuperando il secondo termine necessario nel primo membro; al v. 375, al posto di: «tra ’l tuo sempre e suo», forse per errato scioglimento di abbreviazione552 ma

anche per ripercussione fonica recente nella memoria (già ai vv. 4-5 dell’ottava si trova

sempre), si dovrà leggere il semen biblico: «Tra la femmina e te odio e sospetto | sia, tra

’l tuo seme e ’ suo…»: i quattro punti, poggianti a due a due su tra, ora sono ben saldi. Poiché le sacre rappresentazioni sono testi popolari, è necessaria qualche premessa,553

549 Per l’analisi della Creazione, cfr. Newbigin, Nuovo corpus di Sacre rappresentazioni cit., pp. XXXIII-

XXXV e il mio: Una sacra rappresentazione: dalla creazione all’uccisione di Caino cit., in cui discuto diffusamente anche questa lezione.

550 Con il corsivo segnalo qui e in tutti gli esempi i casi che discuto.

551 Nell’apparato della Vulgata: «es] eris; cunctis] omnibus; 15 ipse» (Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem, […] recensuit […] R. Weber OSB […], Stuttgart 19833); queste varianti non riguardano il

nostro discorso.

552 Non importa stabilire a chi risalga l’errore, essendo chiaro il motivo paleografico.

553 Fra le premesse andrebbero ricordati i criteri del D’Ancona (che, dopo avere accennato alla non

letterarietà dei testi, denunciandone di tono basso grammatica e sintassi e stile, aggiunge che la versificazione e le rime non sempre sono a posto, e non ha «voluto arbitrariamente modificarli o correggerli», dichiarando sufficiente avere «avvertito il lettore, perch’egli non accagioni noi [scilicet l’editore] di un difetto, del quale sono colpevoli o l’autore o lo stampatore primitivo», D’Ancona, Sacre

rappresentazioni cit., vol. I, p. IV) e del De Bartholomaeis (dopo avere detto che non uniforma la grafia,

parla di problemi di verso «ipermetrico o ipometrico», affermando di essersi astenuto dalle correzioni perché la misura «veniva ristabilita dal dicitore […] Sviste de’ copisti o addirittura errori […] là dove era possibile, corressi», De Bartholomaeis, Laude drammatiche cit., vol. I, pp. XIX-XX). Enunciazioni di principi e di criteri del tutto diversi (con settant’anni di distanza, però), ai quali non sempre i due studiosi si sono attenuti.

almeno per accennare alle possibilità di individuare l’errore attraverso il non-significato, la fonte, la rima non rispettata e tenendo presente che le singole rappresentazioni, essendo opere concluse e complete, possono essere esaminate singolarmente e non secondo i corpora delle nostre pubblicazioni, che, essendo antologie, rispondono di più alle esigenze e direi ai gusti dell’antologizzatore, mescolando luoghi e tempi diversi.554

È opinione comune che ogni lezione, se si presta ad offrire almeno un senso, specialmente se il testimone è unico, deve essere conservata come ci giunge dalla tradizione.555 Se però la fonte o la rima indicano corruzione o ne fanno baluginare il

sospetto, bisogna tenerne conto.556 Il significato, come spesso accade, è il campanello

d’allarme, primo elemento per indicare la corruzione di un testo; se poi accanto al significato si aggiungono altre spie, viene facilitato il lavoro, che acquisisce una maggiore obiettività, superandosi così la soggettività che scaturisce dal solo significato, poiché questo potrebbe essere non capito dal critico, se non altro per la distanza culturale che ci separa dai testi antichi e medievali, ma talora anche da quelli a noi più vicini.

Nel caso delle fonti, il rapporto del testo rispetto a esse sarà o di dipendenza diretta, come nei volgarizzamenti,557 o di ‘citazione’ vera e propria.558 Non mi occupo qui di

volgarizzamenti, ma guardo alla citazione; e, quando non c’è concordanza tra il nostro testo e la citazione stessa, poiché non si ha certezza che la lezione risalga all’autore

554 Tutt’al più si dovrebbe potrebbe studiare il corpus dei singoli autori, facilitando così l’analisi dell’usus scribendi.

555 Ricordo che Avalle a lezione ripeteva, quasi come un martellamento: «È più facile correggere che

conservare», insistendo provocatoriamente e dicendo che il dato tràdito si deve conservare «al limite del banale e dell’assurdo»; e non parlava di testi popolari, dato che si trattava del Vat. lat. 3793 e degli altri canzonieri. Se però il testo è refrattario ad ogni interpretazione, resta l’ipotesi e la necessità (rimarco le parole) della correzione oppure la crux.

556 Lo stesso Avalle diceva che l’errore certo deve essere corretto; e ciò si legge anche nel suo manuale:

«Una volta accertati l’errore o anomalia, è dovere dell’editore intervenire soprattutto quando l’errore o anomalia sono facilmente emendabili» (d’A. S. Avalle, Principî di critica testuale, Padova 1972, p. 26; mio il corsivo). Compiti del filologo, secondo Segre, sono almeno: «1. individuare in ogni trascrizione i guasti intervenuti; 2. rimediare nei limiti del possibile ai guasti, in base a una comparazione dei testimoni e perciò a un’utilizzazione alternativa di quelli ogni volta più attendibili; 3. emendare i guasti non correggibili in base alla comparazione» (C. Segre, Ermeneutica e critica testuale, in Ritorno alla critica, Torino 2001, p. 104).

557 «La fonte latina sarà d’immenso aiuto per vagliare la testimonianza e per correggere congetturalmente»

scrive, a proposito di un volgarizzamento valdese, C. Segre, Per il testo e le fonti del «Vergier de

cunsollacion», in Ecdotica e comparatistica romanze, Milano-Napoli 1998, p. 284.

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