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divenne famoso per il Torreão do Paço, iniziato appunto in occasione dell’arrivo del re e per la

ristrutturazione della Chiesa di S. Vicente de Fora. A Tomar progettò il chiostro grande del convento dei Cavalieri di Cristo e a Setúbal lavorò al palazzo di Filippo II. Gli sono attribuiti anche i progetti per la facciata della Chiesa di S. Roque di Lisbona, costruita però prima del suo arrivo e della Chiesa della Cartuxa di Évora; di fatto, la probabile responsabilità di Terzi nella costruzione del Torreão non è accertata.

66 Miguel Soromenho op. cit., nota 7, rimanda all’opera di Giudo Battelli e H. Trinidade Coelho, Filippo

Terzi Architetto e Ingegnere militare in Portogallo (1577-1597), Firenze, 1935, pp. 13-15, ma riferisce di due lettere del Terzi in data 20 Maggio 1581 sull’avvenuta commissione delle decorazioni dell’entrata data la sua esperienza a Pesaro e la preoccupazione di escogitare un apparato degno di un re ricevuto “in Fiandra con tanti ingegnosi ornamenti”. La lettera del 15 giugno 1581, pochi giorni prima dell’entrata, accenna ai preparativi in corso.

opportunità per riunire le forze navali contro i pirati algerini e successivamente contro la guerra di corsa di olandesi e inglesi.

Di tipo prevalentemente encomiastico, l’arco presentava ancora Diana, le cui tre teste, corrispondenti alle fasi lunari, conferivano l’impero del mare, dei cieli e della caccia, Giano con quattro volti, per ognuna delle parti del mondo sotto il controllo di Filippo II, mentre l’Abbondanza delle Spagne era raffigurata con un carro trainato da tre leoni, su cui era seduta l’allegoria della Castiglia, con una triplice corona, incoronata dall’Italia che portava le corone di Napoli, Sicilia e Milano e a cui Lusitania, a terra, offriva frutti.

Il lato dell’arco rivolto verso la città si rivolgeva all’erede D. Diogo e una allegoria della Prudenza gli dettava alcune sentenze del buon governo, ispirate al rispetto e alla difesa della fede e dei suoi ministri, della giustizia, della temperanza e del popolo: “Salus populi suprema lex” e “Civitatum coronam ne carpite”68. Generico il primo consiglio, pragmatico e senza appello il secondo di non privare le città dei loro privilegi; per la prima volta nelle entrate di Lisbona appaiono richieste formali rivolte al sovrano da parte di quei soggetti sociali, commercianti e borghesi, che altrimenti non avrebbero potuto beneficiare di alcun dialogo istituzionale con la monarchia, nemmeno nelle Cortes.

Lusitania inginocchiata offriva al Principe un anello d’oro, con cui prometteva fedeltà e pace e gli scudi di Portogallo e dell’Algarve; Mercurio indicava il cammino del buon governo ed Ercole lo esortava condurlo alla vittoria. Altre immagini si riferivano alle glorie passate di Carlo V, in particolare all’imperitura fama che gli derivò dall’aver perdonato Francesco I di Francia e i suoi alleati, quando avrebbe potuto vendicarsi: il primo era rappresentato nella proboscide di un elefante e gli altri schiacciati dalle sue zampe. La stessa equità che guidava l’Imperatore e Filippo II nel trattare i loro vassalli, raffigurati con cavalli focosi tenuti al freno e altri mansueti guidati per il capestro.

Particolarmente interessante la raffigurazione sul lato chiuso dell’arco: un pastore si trovava tra molti animali di ogni specie e sopra di lui erano visibili una parte dello zodiaco, una luna eclissata e una cometa: questa annunciò la morte di D. Sebastião e l’eclissi coincise con la morte di D. Henrique; i segni del cielo erano stati inequivocabili, una volontà divina aveva voluto la nuova generazione, come detto dai profeti: “Rex unus terris,

pastor et unus erit”69. Si tratta della profezia biblica ripresa dal vangelo di S. Giovanni a proposito dell’unico pastore, identificato prima con Carlo V e ora con i suoi eredi; formatosi all’inizio del secolo XVI; si tratta di un luogo comune che rimarrà come patrimonio simbolico della casa asburgica, come testimonia l’entrata del 1619.

L’arco dei tedeschi viene descritto minuziosamente anche nella parte interna, dove erano dipinti i maggiori eroi romani; Marco Curzio incitava il re a seguire il suo esempio e ad offrire la vita per i portoghesi, Scevola ad essere costante nelle avversità per poter essere chiamato padre della patria; a tale inatteso appello rivolto ad un re conquistatore, che invece qui sembrava doversi guadagnare il rispetto dei sudditi, veniva opposta la raffigurazione di Marco Marcello, che con umiltà aveva ottenuto la riconciliazione con Giulio Cesare: l’iscrizione latina affermava che se un grande onore si otteneva vincendo gli avversari, uno maggiore ne derivava del perdonarli, ma che la vera gloria stava nel vincere se stessi. Il riferimento, esplicitato dall’autore della relazione, andava ai portoghesi che si erano opposti alla successione di Filippo II e per i quali si intercedeva affinché il re “haja por bem restituí-los à sua graça, com perdão de suas culpas”70. Lo stesso significato aveva l’immagine di Scipione l’Africano che perdonava i ribelli i quali, pentiti, vorrebbero ora onorare le virtù del re.

Dall’arco trionfale alla porta cittadina, dove si sarebbe svolta la cerimonia della consegna delle chiavi, i mercanti tedeschi allestirono una serie di pannelli con immagini della Fama minore e Fama maggiore, riferite alla diffusione della fede nelle Indie e in ogni continente, di Giove che lanciava una folgore a quattro leoni in lotta, come Filippo II muoveva guerra nei quattro continenti e di un Marte disoccupato da quando il re aveva assoggettato il mondo al suo dominio. Era inoltre celebrata la vittoria di D. Juan de Áustria a Lepanto, con il sultano turco incatenato su un’ancora e roghi di navi, e il ritorno del regno della Giustizia, con Astrea seduta su un globo e assistita dalla Pace e dalla Verità.

La vergine Astrea, allegoria della giustizia venne raffigurata anche dagli orafi, all’entrata della loro strada, con una statua gigantesca di finto marmo le cui vesti erano ricamate d’oro; il braccio destro proteso reggeva una corona e dalle due dita mediane pendeva la bilancia: anche in questo caso il cartiglio era in italiano e richiamava il famoso verso virgiliano della quarta egloga, secondo cui Astrea sarebbe tornata sulla terra con Augusto e

69 Ibidem, p. 41 70 Ibidem, p. 47

avrebbe segnato il ritorno dei tempi di Saturno, ovvero dell’età dell’oro71: “Scacciata da mortali, in cielo ascesi;/ Hora sotto il tuo scudo/ Sicura, teco a governar discesi”72.

Indubbiamente esiste una notevole differenza tra il complesso e decoratissimo arco dei mercantes alemães e il resto delle strutture ornamentali, più semplici e meno costose, sebbene tutte fossero organizzate intorno alla raffigurazione di scene e figure allegoriche, come mai si era registrato in precedenza in Portogallo. La regia di Filippo Terzi, di cultura rinascimentale e informato delle fastose entrate fiamminghe ben si coniuga all’ipotesi sostenuta da George Kubler secondo cui il mutamento sarebbe da ascrivere appunto all’influenza delle Blijnde Inkomst, rafforzata dalla nuova condizione politica che il Portogallo della Monarchia Duale condivideva con i possedimenti fiamminghi, ovvero “the indignities of being inherited by dinastic alliances in distant countries”73.

Influenza che tuttavia riguardò più l’aspetto giuridico e politico dell’entrate reale che il versante meramente estetico, pure in trasformazione, ma dove ancora si ritrovavano elementi parzialmente già fissati nella tradizione cittadina; infatti, ciò che più stupì dell’arco dei tedeschi fu la sua mole, indipendente e voluminosa, che si ergeva al centro del Terreiro do Paço creando un elemento architettonico improvviso, ma verosimile, ovvero non addossato necessariamente a un’opera in muratura o a una parete, come avveniva per le facciate decorate dalle corporazioni, che semplicemente ingigantivano i quadri, viventi o dipinti, della tradizione portoghese delle entrate.

Sembra tuttavia opportuno osservare anche le ulteriori architetture dell’entrata del 1581, per verificare il cambiamento rispetto ai festeggiamenti reali del 1552, cercando di rilevare gli indizi che potrebbero segnalare l’intervento e l’esperienza di Terzi, così come i fattori di continuità e di originalità che permetteranno di valutare più criticamente l’entrata di Filippo III nel 1619.

Dopo il rituale della consegna delle chiavi, svolto all’altezza dell’arco prima descritto secondo la formula definita da D. Manuel, il corteo attraversò un ulteriore corridoio, affidato ai mercanti della città di Lisbona, che conduceva alla porta da Ribeira: una serie di colonne, dipinte a grottesche o a finto diaspro e dai capitelli corinzi dorati, sormontate da

71 Frances Yates, Astrea L’idea di Impero nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1978, p. 15 e Virgilio, “Egloga

IV”, in Bucoliche, 14ª, Milano, Bur, 2004, p. 94: “Iam redit et Virgo redeunt Saturnia regna”

72 Afonso Guerreiro, op. cit., p. 114 73 George Kubler, op. cit., pp. 105-127

scudi ovali coronati raffiguranti le fortezze delle province orientali, si alternava alle statue dei regni d’Oriente conquistati dai portoghesi, ognuna con una corona nella mano destra e l’attributo proprio nella sinistra: Goa teneva un fermaglio, Cananor dello zenzero, Cochim il pepe, Chaul un tessuto bianco, Diu un diamante, Ceilão la cannella, Malacca il benzoino, Ormuz le pietre preziose dei suoi commerci, Etiopia lo zucchero e l’oro di Mina e il Brasile la canna da zucchero. Tutte erano corredate da cartigli in latino, dove in prima persona descrivevano la loro collocazione geografica, i prodotti tipici che le rendevano preziose e che offrivano al re e gli sforzi che i valenti soldati e capitani portoghesi avevano sostenuto per conquistarle. Il repertorio iconologico, classico e rinascimentale, avrebbe dovuto ora accogliere queste nuove allegorie di terre prima sconosciute che entravano a far parte dell’orizzonte culturale europeo con il loro seguito di oggetti simbolici e di narrazioni epiche; il modello sembrava funzionare e il corridoio di statue e colonne era aperto significativamente da due pilastri su cui si trovavano un Miles Christi, armato di tutto punto, che indicava le conquiste effettuate sotto l’egida di D. Manuel e dell’ordine di Cristo, e un globo terrestre sul quale due figure femminili si tenevano le mani e che portavano una corona nella mano libera: erano le Indie orientali e occidentali, un tempo divise tra il bisnonno Fernando di Castiglia e il nonno D. Manuel, ora associate sotto lo scettro di Filippo II.

All’esaltazione imperiale dell’arco tedesco, nel quale la mitologia classica e la storia romana servivano da raffronto e prefigurazione del trionfo presente della monarchia asburgica, organizzato intorno ai topoi virgiliani del ritorno di Astrea e dell’assimilazione del re con l’imperatore Augusto, temi diffusi e comuni a tutte le celebrazioni reali europee74, i mercanti di Lisbona opponevano la loro storia recente, motivo d’orgoglio e di apprezzamento da parte del nuovo sovrano castigliano. Da notare, inoltre, il diverso statuto assunto dalle Indie rispetto ai festeggiamenti matrimoniali del 1552: allora dei generici re indiani portavano ricchi doni senza una specifica individuazione, mentre ora, per presentarsi al nuovo sovrano, ogni provincia assumeva una precisa identità economica e l’esotismo fiabesco delle ricchezze levantine si materializzava nei prodotti concreti del commercio indiano75.

74 Frances Yates, op. cit., in particolare “Elisabetta I come Astrea”, pp. 39-104

75 Un solo cartiglio ricorda un topos letterario: si tratta di quello della statua dell’Etiopia, che insistendo

sull’opposizione di pelle nera e cuore bianco richiama l’antico refrán spagnolo: “Aunque soy morena/ no soy de despreciar/ qué la terra negra/ pan blanco suele dar”; “Haud me despicias, quamvis sim nigra colore, […]

A partire dalla porta da Ribeira fino alla Cattedrale, le strutture allestite dalle corporazioni cittadine non furono comparabili alle precedenti; i due archi della porta vennero rivestiti di colonne decorate a grottesche e, sotto il fregio, due angeli reggevano ognuno un cartiglio di benvenuto: a sinistra si prometteva al re che mai le porte della città si sarebbero chiuse per lui, che invece avrebbe chiuso quelle di Giano garantendo la pace a tutto il mondo, e a destra lo si invitava ad entrare, augurandosi che la clemenza vincesse il re vincitore e che, grazie alla sua venuta, le difficoltà sarebbero state più lievi. L’architrave portava l’iscrizione Nil Ultra, ovvio riferimento alla divisa del padre, che in questa forma sanciva definitivamente la conquista dell’intero globo. Sul fregio appariva una nave dorata, simbolo della città, tra i santi protettori, e tra loro Lisbona in figura femminile coronata, che si scopriva il petto sinistro con una mano, mentre porgeva con la destra le chiavi della città. Il gesto, chiarito nel cartiglio, significava l’offerta del cuore puro e leale dei portoghesi76.

Ancora una volta la città faceva appello alla clemenza del re, con una formula che era già apparsa nell’arco dei tedeschi e che ritornerà nella facciata della fonte della Rua Nova, dove l’immagine della Temperanza versava acqua su un uomo ai suoi piedi che, voracemente, tentava di divorare un globo terrestre: l’iscrizione, alquanto ombrosa, recitava che “vincendo se stessi si possono vincere grandi battaglie e che solo Nemesi governa i cuori dei superbi capitani”77; è possibile che il riferimento alla giustizia della dea Nemesi si riferisse alla diffusa opinione secondo cui la perdita della dinastia d’Aviz fosse da intendere come una punizione per i peccati di cupidigia e avidità commessi dai portoghesi nelle Indie, identificabili nei superbi capitani, incapaci di resistere alle tentazioni del mondo e di vincere i loro stessi desideri. Tuttavia, il topos stoico della vittoria su se stessi apparteneva principalmente al bagaglio culturale e morale dei gesuiti78,

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