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I. La tragedia alfieriana: evoluzione dei modelli drammaturgici 5

III.9. Don Garzia

Dal Parere sulle tragedie

Alfieri apre il Parere sul Don Garzia inserendo subito la tragedia in un’atmosfera contemporanea, nella Pisa moderna, e non in un passato mitico e di più alto livello tragico come era stato per le opere precedenti: «Se il luogo della scena di questa tragedia, in vece di esser Pisa moderna, fosse Tebe, Micene, Persepoli, o Roma, il fatto sarebbe riputato tragico in primo grado». 187 Dopo aver quindi collocato il suo Don

Garzia in un’ambientazione moderna, Alfieri delinea il dramma che in questa tragedia

si compie e nel quale, nonostante egli lo ritenga sommamente tragico, non vi riscontra passioni smisurate e sublimi che ne giustifichino l’efferatezza: «Un fratello che uccide il fratello, e il padre che vendica l’ucciso figlio uccidendone un altro: certo se mai catastrofe fu feroce e terribile, e mista pure ad un tempo di pietà, questa è tale. Ma pure mancandovi la grandezza dei personaggi, e la sublimità di cagione a tali scelleratezze, viene a perdere gran parte della sua perfezione. Ho fatto tutto quanto ho saputo per nobilitar questa cagione mescolandola con l’ambizione di regno, ma per lo regno di

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Toscana non può mai innalzarsi tanto un eroe, che allorché egli pretende ingrandirsi possa sperare d’esser creduto da chi l’ascolta».188

Alfieri fa poi un accenno al malvagio personaggio di Piero, figura che è stata introdotta dall’autore per accrescere il sentimento di orrore che la sua crudeltà poteva provocare nel pubblico: «L’aggiunta mia al fatto, di quel terzo fratello, che essendo il solo scellerato davvero, cerca come il Creonte nel Polinice di seminar discordia, per raccoglierne regno, accresce al certo l’orrore di questa orditura tragica, e la viene a condurre in un modo in parte nuovo, e adattato se non altro ai tempi, e agli eroi di cui qui tratta».189 L’Astigiano informa poi il lettore del Parere che la tragedia del Don Garzia, trae ispirazione da un fatto storico al quale il poeta ha attinto arricchendo la vicenda col proprio genio e la propria originalità: «Il fatto da alcuni per stitichezza viene negato, o minorato assai. Ciò poco importa al poeta, che su una base verisimile, da molti narrata e creduta, e quindi al certo non inventata interamente, ne trae la favola, e la conduce a parer suo. certo si è, che codesti due fratelli ebbero rissa, che morirono in brevissimo tempo amendue, e la loro madre sovr’essi; e che i loro corpi furono di Pisa recati tutti e tre ad un tempo in Firenze; che se ne mormorò sommessamente e con terrore moltissimo; e che nessuno osò indagare, e molto meno narrare tal fatto».190 Alfieri introduce poi i personaggi che animano questa tragedia, non solo coloro che in essa hanno voce, ma anche quelli che, pur assenti nella scena, sono comunque fondamentali per lo sviluppo dell’azione: «Prima dei personaggi visibili di questa tragedia, voglio brevemente toccare di due personaggi invisibili, ma molto operanti, […]: e sono Salviati, che è il perno dell’odio e ferocità di Cosimo: e Giulia quella dell’amore, e contrasto terribile nel cuore di Garzia. Se fossero introdotti, allungherebbero molto l’azione, e nulla potrebbero aggiungervi, che gli altri non dicano più brevemente per loro, e con forse maggior effetto».191 Tra i personaggi del Don Garzia, quello che meno convince il poeta è la figura femminile di Eleonora: «Eleonora è madre: parziale di Garzia; ma non è abbastanza calda, e operante in questa tragedia. […]. Ne risulta forse da ciò ch’ella è per lo più trivialetta, e poco tragicamente

188 Ibidem. 189 Ibidem. 190 Ibidem. 191 Ibidem.

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maestosa».192 Alfieri conclude poi il Parere sul Don Garzia con un giudizio positivo, considerandolo superiore alla tragedia che lo precede, nonostante «che la feroce attrocità di Cosimo, nel voler che sia l’amante della figlia che ne uccida il padre, pecca nell’essere, o almeno nel parer gratuita»;193

l’Astigiano così infatti conclude: «La tragedia mi pare non male condotta, di uno sviluppo gradato assai, di uno scioglimento rapido, e terribile più che niun’altra: e giudicandola coi semplici dati dell’arte, la crederei superiore alla Congiura, per esserne il soggetto tanto più caldo, appassionato, e terribile».194

Genesi

Ideata nell’agosto del 1776 fu stesa in prosa nel 1778 e versificata nel 1779 e

nuovamente nel 1782; fu stampata nell’edizione parigina nel 1788. Alfieri ci lascia testimonianza, in un passo della Vita, di come giunse all’ideazione di

questa nuova tragedia: «Nel corrente di Agosto, trovandomi una mattina in un crocchio di letterati, udii a caso rammentare l’aneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo I. Questo fatto mi colpì; e siccome stampato non è, me lo procurai manoscritto, estratto dai pubblici archivi di Firenze, e fin d’allora ne ideai la tragedia» (IV, 2).

Trama e ambientazione

La fonte cui Alfieri attinse per il suo Don Grazia fu un racconto, tratto dalle Istorie

Fiorentine di Machiavelli, riguardante la morte di Garzia, figlio del granduca di

Toscana Cosimo I de’ Medici. Si tratta di una cupa vicenda fatta di intrighi e inganni orditi da Piero, fratello di Grazia, pronto a tutto pur di raggiungere il proprio scopo; vittima inconsapevole sarà il protagonista Garzia cui è ordinato dal padre Cosimo, se

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Parere sulle tragedie, cit., p. 302.

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Ivi, p. 303.

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vuole salvare la vita della donna amata, di assassinarne il padre Salviati, avversario politico di Cosimo ma anche caro amico di Garzia stesso. Piero però, desideroso di potere, farà in modo che nella grotta, all’interno della quale si deve compiere il delitto, venga ucciso, al posto di Salviati, Diego, anch’egli fratello di Garzia. Il giovane, ingannato, si troverà così ad essere l’omicida del suo stesso fratello e a subire la vendetta del padre Cosimo che lo ucciderà di propria mano. È questa una tragedia di odio e vedetta nella quale l’ingenuo protagonista si trova ad essere l’ignaro strumento

delle trame ordite dagli altri personaggi.

Il dramma di Don Garzia riprende i motivi che costituivano le fondamenta su cui poggiavano le precedenti tragedie: ritorna infatti l’oppressione del tiranno su una vittima fragile e ingenua, insieme al tema dell’odio del padre per il figlio che erano già alla base del Filippo; è da notare infatti come l’ideazione del Don Garzia risalga agli anni della versificazione del Filippo e di questo appunto ne riprende l’immagine dello scontro tra tirannide e libertà che si proietta nel conflitto tra padre e figlio.

Come era per l’Antigone poi, anche qui si ritrova il motivo dell’amore impossibile del giovane Garzia per la figlia del rivale del padre; ancora poi, come nell’Agamennone, a dominare la scena si staglia il delitto, che prende forma e maturazione nel corso della tragedia.195

Centrale in questa tragedia è l’azione e il suo sviluppo, e i personaggi assumono un ruolo funzionale alla narrazione, privi quindi di passioni sublimi che li muovano a grandi imprese. Il personaggio del tiranno, qui nella figura di Cosimo I de’ Medici, rinvia al Filippo dell’omonima tragedia, ma Cosimo non è l’incubo che incarnava Filippo e che dominava, con la sua opprimente crudeltà, gli altri personaggi; egli ci appare invece attorniato dai figli mostrandoci così un lato umano, che lo allontana, seppure per poco, dalla malvagità del sovrano spagnolo; inoltre a differenza del monarca, Cosimo non è il motore dell’azione tragica, le cui redini sono invece tenute dal figlio Piero. Diego e Don Grazia rappresentano invece le due figure positive di questa fosca tragedia: se Diego incarna la figura del tiranno positivo cui manca l’odio e l’oppressione ma desideroso di gloria e grandezza, Garzia è modello di umanità e virtù e la sua figura sarà centrale nel Quinto Atto, momento culminante della catastrofe nel quale avviene il delitto. Delitto atroce poiché frutto di inganni e macchinazioni che

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fanno di Garzia l’involontario carnefice e vittima al tempo stesso. Come il Carlo del

Filippo, anche Garzia sente incombere su di sé la tirannia paterna alla quale non è in

grado di ribellarsi.

L’intera tragedia è avvolta da un’atmosfera cupa e minacciosa che incombe sui personaggi e che si fa ancor più opprimente con l’avvicinarsi del momento del delitto

ordito da Piero.

A dominare l’ultimo atto e a renderlo ancor più tragico è l’incontro, a delitto compiuto, tra Cosimo e Garzia su cui incombe l’orrore per l’atroce gesto compiuto nella grotta. Ma Garzia sarà ancor più preda del terrore quando verrà tormentato dal dubbio di non aver ucciso Salviati; tutta la sua angoscia trova sfogo nel monologo che occupa l’intera Seconda Scena del Quinto Atto:

…Che ascolto? oh ciel! qui non portò suoi passi Salviati? e Piero il dice? e a Cosmo il dice?... Funesta ambage orribile! Qual dunque, qual sangue è quello, ch’io versava? Oh, come rabbrividir mi sento! Eppur, qual altra

uccision pari delitto or fora? Deh! vero fosse, che tutt’altri ucciso l’empia mano mia avesse!... E chi trafitto hai dunque tu?

[…] - O dubbio, o tu, dei mali

primo, e il peggior, più non ti albergo omai in me, non più.

(V, 57-111)

Quando poi Garzia verrà a sapere da Cosimo di non aver ucciso Salviati bensì il fratello Diego, la sua fine per mano del padre sarà allora inevitabile, ed egli, mentre esala l’ultimo respiro, trafitto dalla spada di Cosimo, proclama la propria innocenza:

Padre, se ucciso

Diego è da me,… ti giuro,… ch’io nol seppi. Dell’esecrando error… Piero… è… l’autore… Padre,… io… moro; e non… mento: il ciel ne

attesto. (V, 142-145)

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Questo delitto è dunque centrale nel Don Garzia tanto da far sembrare il dramma scritto proprio in funzione di quest’atrocità che domina tutto il Quinto Atto e che supera per efferatezza tutte le uccisioni protagoniste delle precedenti tragedie alfieriane.196