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Du Bos e l’estetica inglese del Settecento

di Giuseppe Sertoli

In quella che a quasi un secolo di distanza rimane la più ampia e documentata monografia su Du Bos, Lombard dedicava due sole pa-gine alla fortuna delle Réflexions in Inghilterra, mentre ne dedicava trenta alla loro fortuna in Germania 1. La differenza è significativa; così come è significativo il fatto che i nomi citati siano tutti di autori degli anni ’40 e seguenti 2. Oltre a un paio di giudizi genericamente elogiativi di Johnson e Chesterfield, si tratta di autori interessati al pro-blema dei rapporti fra le arti (Spence, Harris, Webb), mentre su un piano più schiettamente filosofico vengono menzionati sono Burke e Hume (non invece, sorprendentemente, Gerard). Burke ripeterebbe Du Bos «quasi alla lettera» circa i «princìpi» del gusto «comuni» a tutti gli uomini, pur rifiutandosi di identificare il gusto stesso con una specifica facoltà della mente, mentre a proposito di Hume Lombard ricordava l’apprezzativa citazione di Du Bos all’inizio del saggio sulla tragedia, dimenticandosi però di aggiungere che Hume rende sì omag-gio all’«ingegnosità» di Du Bos, ma solo per prenderne le distanze. In ogni caso, ciò che premeva a Lombard era sottolineare i punti di con-tatto fra Du Bos e i suoi “ricettori” d’oltre Manica, non segnalarne gli scarti e tanto meno impostare il confronto in una chiave più generale che tenesse conto degli sviluppi della riflessione estetica britannica e “misurasse” Du Bos su di essa.

Beninteso, la lista di nomi stesa da Lombard è parziale; ricerche successive l’hanno integrata 3, anche se un inventario completo man-ca tuttora. Pur senza di esso, tuttavia, il quadro sommariamente deli-neato da Lombard appare corretto e autorizza le seguenti due conclu-sioni: primo, l’influenza di Du Bos è generalmente posteriore alla tra-duzione inglese delle Réflexions (1748) e comunque mai anteriore – fatta eccezione per Hume – agli anni ’40; secondo, essa investe tanto la discussione intorno a specifici temi (il “sistema delle arti”, la natu-ralità o storicità, del gusto, il piacere tragico, etc.) quanto, in maniera più indiretta, la “curvatura” che la riflessione estetica assume in Gran Bretagna nella seconda metà del Settecento.

Ciò premesso, devo avvertire che nelle pagine che seguono non affronterò – se non di striscio – singoli punti del sistema teorico di Du

Bos (sempre che tale termine gli sia appropriato), bensì adotterò una prospettiva più distaccata, magari un po’ obliqua, cercando di misura-re le Réflexions da un lato sugli sviluppi della teoria estetica da Add-ison in poi, dall’altro lato sulla situazione culturale che esse incontra-vano nel momento in cui varcaincontra-vano la Manica. Naturalmente, proce-derò per sommi capi, sacrificando l’analisi a una sintesi che, per quan-to schematica, ci può forse aiutare a capire i tempi e i modi della rice-zione di Du Bos in Gran Bretagna. Solo a Burke e Hume dedicherò un po’ più di spazio, giustificato dal fatto che essi sono i due autori che più direttamente si confrontano con Du Bos.

1. Parto da una prima, semplicissima constatazione. Che passino trent’anni dalla pubblicazione delle Réflexions alla sua traduzione in-glese non è un caso né un dettaglio irrilevante. Tanto meno lo è se si ricorda che solo qualche decennio prima le opere critiche francesi ve-nivano tradotte immediatamente in Inghilterra. Così era stato per Boi-leau, Bouhours, Rapin, Dacier... Così non avviene, invece, per Du Bos. Come mai? Solo per la mole delle Réflexions? Difficile crederlo. In realtà, quel ritardo è il segno che, all’altezza degli anni ’20 e ’30, le

Réflexions non erano in sintonia né col gusto artistico né con la teoria

estetica allora dominanti in Gran Bretagna – in una Gran Bretagna che a partire dall’inizio del secolo aveva cominciato a recidere il cordone ombelicale che per tutta la Restaurazione l’aveva legata alla Francia. È vero che il classicismo augusteo, che perdura fino alla metà del Sette-cento, aveva la stessa matrice di quello di Du Bos; ed è altrettanto vero che l’approccio empiristico (psicologistico) di Du Bos ai problemi del-l’arte, con la reimpostazione del discorso a partire dagli “effetti” che essa produce sullo “spettatore”, era sulla linea di Locke e di Addison (del resto, sue dichiarate fonti). Ciò non toglie, tuttavia, che fra le

Ré-flexions e lo scenario inglese contemporaneo e immediatamente

poste-riore alla loro pubblicazione sussista uno scarto. Scarto bifronte, nel senso che, rapportate a quello scenario, le Réflexions appaiono al tem-po stesso in ritardo e in anticitem-po, e come tali doppiamente distoniche. In anticipo le Réflexions lo sono per la loro concezione “sentimen-tale” dell’arte. Non era una concezione senza precedenti in Inghilterra. Chi l’aveva avanzata e fortemente sostenuta, muovendo dagli stessi autori che stavano alle spalle di Du Bos (Cartesio, Rapin, Bouhours, Pascal), era stato John Dennis (The Advancement and Reformation of

Modern Poetry, 1701; The Grounds of Criticism in Poetry, 1704).

«Nien-te se non la passione può darci piacere», «senza passione non può esi-stere poesia come non può esiesi-stere pittura», «la poesia è l’arte con la quale il poeta eccita le passioni», etc. 4. La coincidenza con Du Bos – «lo scopo principale della poesia e della pittura è quello di coinvolgerci (nous toucher)» 5 – è evidente 6, anche se non vanno sottaciute le

dif-ferenze. Mentre Du Bos privilegia il versante della fruizione artistica, Dennis privilegia – ancora – quello della produzione. Certo, anche per lui scopo della poesia è «toucher le coeur», commuovere (movere) il lettore agitandone le passioni, ma affinché tale scopo sia raggiunto è in-dispensabile che il poeta sia lui commosso, che il suo «cuore» sia per-vaso, agitato da una (grande) passione. Mentre in Du Bos, che costrui-sce la sua intera teoria avendo in mente il teatro (tragico) 7, è la

rappre-sentazione della passione che attiva la passione del lettore, per Dennis,

influenzato da Longino (da un Longino interpretato in chiave “pa-tetica”), è la passionalità del poeta che si trasmette al lettore contagian-dolo e «trasportancontagian-dolo». Ne discende un’idea “entusiastica” della poe-sia e del poeta stesso che non ha riscontro in Du Bos e nella sua con-cezione, assai meno barocca, del «genio». D’altra parte, per Dennis, che nonostante Longino rimane un classicista, il piacere conseguente all’eccitazione delle passioni è il «fine secondario» della poesia (dell’ar-te), mentre il fine primario ovvero «ultimo» è l’«ammaestramento», la «riforma» morale (e religiosa) del lettore. Il che implica che la passione non può andare mai disgiunta dalla ragione e il poeta (l’artista) non può prescindere da quelle regole «eterne e inalterabili» che con la ra-gione fanno tutt’uno. Qui la distanza da Du Bos è notevole; ma ciò non toglie che fra i due autori sussista una consonanza di fondo. Den-nis aveva imboccato una strada che era già quella di Du Bos: percor-rendola, l’Inghilterra sarebbe stata pronta ad accogliere le Réflexions fin dal momento della loro pubblicazione.

Senonché, quella strada s’interruppe, o rimase per quarant’anni tal-mente secondaria da non essere quasi più frequentata. Nel periodo che intercorre fra i Grounds of Criticism in Poetry e le Réflexions, la con-cezione dennisiana della poesia fu fatta bersaglio di un duplice attacco, da cui uscì sconfitta. Da un lato, s’impose il classicismo oraziano di Pope (l’Essay on Criticism è del 1711), ostile a ogni «entusiasmo» poe-tico e diffidente nei confronti delle passioni: un classicismo che, rico-noscendosi assai più in Boileau che in Bouhours o Rapin, non poteva che “resistere” a Du Bos. Dall’altro lato, cosa per noi più importante, nei Pleasures of the Imagination (1712) Addison impostò tutto il di-scorso sull’esperienza estetica, cioè sugli “effetti” prodotti dall’arte (e dalla natura), in chiave di immaginazione – e del piacere inerente al suo esercizio – anziché in chiave di emozione o passione. La quale entra in gioco solo nel caso cui venga direttamente espressa o messa in scena: per esempio in una tragedia ovvero (potremmo aggiungere noi) in un poemetto popiano “anomalo” come Eloisa to Abelard (1717). Ora, l’enorme influenza esercitata da Addison fece sì che, nei decen-ni seguenti, di emozione/passione non si parlasse affatto, o se ne par-lasse solo marginalmente, in sede di teoria estetica. Lo si constata nel-l’Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue (1725) di

Hutcheson e, ancora, nell’Essay on Taste (1759) di Gerard. Pur vicino per taluni aspetti a Du Bos (centralità del piacere, «senso del bello» in-dipendente dalla ragione), Hutcheson esclude dal suo discorso qualun-que riferimento a qualun-quelle passioni a cui pure, solo tre anni dopo, dedi-cherà un intero trattato di filosofia morale (An Essay on the Nature and

Conduct of the Passions and Affections, 1728). Quanto a Gerard, egli

riserva alle passioni 10 pagine su un totale di 200… Le recupera, sì, sotto la rubrica «sensibility of heart» 8, ma solo come fattore comple-mentare, benché necessario 9, di quel (buon) gusto che anche per lui, come per Addison e Hutcheson, s’identifica con l’immaginazione – con un’immaginazione, e qui Gerard si differenzia da Hutcheson, che agi-sce sempre di conserva col giudizio (ragione). All’altezza degli anni ’50, non si può dire che Gerard fosse all’avanguardia! Al contrario, era arretrato rispetto alle nuove tendenze – culturali e teoriche – che si stavano allora affermando e che favorivano, anzi promuovevano la “ri-scoperta” di Du Bos. Ma proprio perciò egli è un testimone a carico della lunga fin de non-recevoir con cui si scontrò, in Gran Bretagna, l’autore delle Réflexions. Perché le tesi sulla natura “sentimentale” del-l’arte fossero accolte ed entrassero in circolazione, dovevano prima maturare delle condizioni che nel 1719 erano ancora di là da venire. Se per un verso, dunque, Du Bos era in anticipo sui tempi inglesi, per un altro verso era in ritardo. In ritardo sia sotto il profilo del

gu-sto artistico sia sotto quello della teoria estetica. Circa il primo punto,

il gusto poetico e pittorico di Du Bos era ancora quello del classicismo

secentesco. I suoi autori restavano Corneille, Racine, Poussin (il Poussin

della Morte di Germanico, non quello paesaggistico che influenzerà il

picturesque settecentesco) 10; la sua gerarchia dei generi non si discosta-va sostanzialmente da quella tradizionale pur privilegiando la tragedia rispetto all’epica 11; e quanto all’enfasi sulla passion, essa può sì ap-parire, retrospettivamente, più “moderna” della raison di Boileau, ma in sostanza gli serviva – come la délicatesse era servita a Bouhours, come Longino era servito allo stesso Boileau – per fondare su più so-lide basi le argomentazione del partito degli Antichi. Un partito, cer-to, rappresentato anche in Inghilterra. Ma, ecco, col passaggio dall’età di Dryden a quella di Pope il classicismo aveva assunto, in Inghilter-ra, una fisionomia diversa, assai poco compatibile col gusto di Du Bos. Non è solo questione di un più di ragione vs un più di passione. Il fatto è che Pope non era né un poeta epico (anche se traduceva Ome-ro) né un poeta tragico, bensì era un poeta satirico che si misurava coi nuovi tempi nei quali viveva, i tempi della “prosa del mondo”, e im-piegava la poesia – basti pensare alla Dunciad – per rappresentare una realtà che non era più quella della Restaurazione o, tanto meno, quella della Francia di Luigi XIV. Viceversa, chi legga Du Bos con ottica an-glocentrica ha la netta sensazione di star leggendo un contemporaneo

di Dryden, non di Pope. È un ritardo, questo, che diventa ancor più vistoso se si tiene conto di ciò che all’interno della cultura augustea ten-deva a fuoriuscire dai canoni classicistici e a costituirsi come polo al-ternativo. Mi riferisco, lo si sarà intuito, a quel gusto per il sublime naturale che dopo Shaftesbury e Addison sarebbe andato crescendo per tutto il Settecento ma per il quale non c’era spazio nella prospettiva di Du Bos. Sono noti i suoi giudizi restrittivi (per non dire sprezzan-ti) sulla pittura di paesaggio, che ci lascia «indifferenti» perché indif-ferente, ai suoi occhi, è la natura stessa 12. Solo l’inserimento in essa di figure umane, cioè di un dramma umano (come nel caso, appunto, del-la Morte di Germanico di Poussin) è in grado di animardel-la, e quindi “riscattarla”, perché solo la rappresentazione di passioni umane “parla” al sentimento dell’uomo (dello spettatore). Du Bos scriveva questo nel 1719… Sette anni dopo Thomson avrebbe cominciato a pubblicare

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che attivano, così nella realtà come nell’imitazione artistica, emozioni di sgomento e piacere perfettamente integrabili nella teoria psicologica di Du Bos e nella sua stessa concezione mimetica dell’arte – ma emo-zioni dalle quali egli non potrebbe essere più lontano. Si tratta di una lontananza – di sensibilità e di gusto – che è il segno di uno scarto davvero epocale.

A questo scarto se ne aggiungono altri, pertinenti al piano della teoria estetica, che forse in questa sede ci riguardano più direttamente. Intanto, le Réflexions non sono un’opera di estetica ma un’opera di retorica e poetica (né solo descrittiva ma prescrittiva) secondo – anco-ra – il modello secentesco. Il discorso di Du Bos verte esclusivamen-te sull’aresclusivamen-te, non sul bello e men che meno sul progetto di una loro sin-tesi. Estraneo gli rimane quell’obiettivo di un «piano unitario» (come l’ha chiamato Migliorini), cioè di una saldatura fra discorso sull’arte e discorso sul bello, che già Addison aveva delineato nei Piaceri

dell’Im-maginazione e che dopo di lui sarebbe rimasto centrale in tutta la

ri-flessione settecentesca. Da qui sarebbe nata l’estetica modernamente intesa. Ma qui Du Bos non ha nulla da dire, qui è in ritardo non solo rispetto a Addison ma anche a un autore come Crousaz. Inoltre, poco da dire egli ha su quella “logica del gusto” alla cui elaborazione, da prospettive e con soluzioni diverse, contribuiscono tutti i filosofi ingle-si (e scozzeingle-si) da Addison a Alison. Il semplicismo pingle-sicologico che tante volte gli è stato – giustamente – rimproverato era di scarsa uti-lità a quanti si proponevano di analizzare i «poteri della mente» per definire i rapporti fra sensi, immaginazione e giudizio, e in tal modo costruire un “modello” dell’esperienza estetica. Il famoso «sesto sen-so» di Du Bos, sinonimo di «sentimento», non è altro che il «cuore», il «cuore» contrapposto alla «testa». E se ciò poteva bastare a letterati dissidenti nei confronti del razionalisno classicistico, di certo non

po-teva bastare a un filosofo come Hutcheson e a quanti sarebbero venuti dopo di lui (così come non sarebbe bastato a Addison se Du Bos l’avesse preceduto). È dubbio che Hutcheson abbia letto Du Bos, ma se lo aveva letto non ne trasse più che una suggestione analogica per la definizione del suo sense of beauty. Il quale discende, per linee stret-tamente britanniche, dal «senso interno» di Herbert of Cherbury e di Shaftesbury (ma anche di Locke) e si articola in un modo che nulla deve a Du Bos (se non la sua immediatezza contrapposta alla media-tezza della ragione). Che tanto meno gli deve quando, poi, Hutcheson distingue la bellezza in «assoluta» e «comparativa», e di conseguenza distingue due tipi di piacere: uno prodotto dagli oggetti, uno prodotto dalla loro imitazione. Si tratta di una distinzione, ripresa pari pari da Addison («piaceri primari»/«piaceri secondari»), che rimarrà canoni-ca nella riflessione successiva, ma che non ha riscontro in Du Bos, nel quale il problema dell’imitazione e dello specifico piacere che le per-tiene è semplicemente eluso nel momento in cui si dice che la copia produce lo stesso piacere dell’originale in quanto attiva la stessa passio-ne (solo di grado più debole). Questo rimapassio-ne uno dei maggiori limi-ti teorici di Du Bos, e qui egli è arretrato rispetto allo stesso… Aristo-tele! Nell’Essay on Taste Gerard terrà sì presente il «sesto senso» di Du Bos, ma solo, appunto, come riferimento analogico rispetto ai «sensi interni» (al plurale) di Hutcheson, che costituiscono la base su cui egli costruisce la sua teoria 13. E quando, nello stesso anno, Burke rifiuterà di postulare sensi supplementari a quelli fisici dicendo che è inutile moltiplicare le facoltà 14, liquiderà non solo i sensi interni di Hutcheson ma, insieme a essi, il tanto più modesto «sesto senso» di Du Bos.

2. Fin qui, più che di fortuna di Du Bos in Gran Bretagna si do-vrebbe parlare di sfortuna! Il discorso però cambia quando, intorno alla metà degli anni ’40, il classicismo augusteo inizia a tramontare e al-l’orizzonte sorge – incomincia a sorgere – quello che un tempo si desi-gnava col termine “preromanticismo” e che oggi si preferisce chiamare

age of sensibility. È adesso, quattro anni dopo la morte di Pope (tre

dopo quella di Swift), che le Réflexions vengono tradotte; e vengono tradotte – come dubitarne? – perché solo ora appaiono “attuali”, in sintonia con le nuove tendenze del gusto e, appunto, della sensibilità. Sono, questi, gli anni che vedono la pubblicazione (e l’enorme succes-so) dei Night Thoughts di Young; sono gli anni degli esordi poetici di Gray, Collins, Joseph e Thomas Warton; gli anni in cui Burke si ac-cinge (e forse comincia) a scrivere l’Enquiry… Nel primo volume del libro che dedica a Pope (An Essay on the Genius and Writings of Pope, 1756 15), Joseph Warton lo declassa da poeta a versificatore ritenendolo privo di quelli che sono «i due nervi principali di ogni vera poesia»,

cioè il patetico e il sublime, e accusandolo di aver sacrificato il «sen-timento» alla «ragione», il «cuore» alla «testa» 16. Analogamente, suo fratello Thomas nella History of English Poetry (1774) farà dell’emo-zione il requisito indispensabile di ogni (vera) poesia, deprecherà l’imi-tazione degli Antichi e condannerà il classicismo augusteo per aver anteposto la ragionevolezza e la correttezza all’immaginazione e al-l’invenzione (proprie, invece, del «romantico» Medioevo). Meno di trent’anni dopo, Wordsworth dirà che la poesia è «the spontaneous overflowing of powerful feelings» 17… Senza indulgere a tentazioni an-ticipatrici, che sarebbero fuori luogo, non si può non percepire la con-sonanza delle tesi di Du Bos sull’arte-come-passione con quelle degli autori appena citati. Così come non si può non rilevare la sintonia fra quanto Du Bos scrive a proposito del genio nel secondo volume delle

Réflexions e quanto ne scrivono, in questo stesso giro d’anni, Sharpe,

Young, Duff, Gerard e altri autori 18. Autori che nelle loro opere non mancano mai di citare Du Bos, non solo perché egli offre loro una miniera di spunti relativi a singole questioni (l’imitazione, i generi, il pubblico, etc.), ma soprattutto perché essi trovano in lui la giustificazio-ne teorica della loro idea di poesia 19. Il che, in un certo senso, ha del paradossale. La polemica anti-classicistica che segna la fine dell’età augustea e prepara il terreno al Romanticismo si alimenta di – si legit-tima in – un’opera, improntata al gusto di un secolo prima, che era una monumentale difesa degli Antichi contro i Moderni. Ma il paradosso è solo apparente. Come giustamente ha osservato Fubini, le Réflexions sono sì un’apologia degli Antichi, ma un’apologia fatta con strumen-ti moderni 20. Ora, sono precisamente questi strumenti che vengono ripresi e utilizzati al di fuori del quadro nel quale e per il quale Du Bos li aveva impiegati. Detto altrimenti, il metodo si svincola dal sistema (artistico e culturale) in funzione del quale era stato adottato e viene rifunzionalizzato in vista di un altro sistema. Le Réflexions diventano allora un trampolino per andare oltre Du Bos in una direzione diversa dalla sua (se non addirittura opposta). Il teorico del sentimento, si è più volte notato, non era un sentimentale. Vero. Ma egli autorizza, non importa se malgré soi, proprio quel sentimentalismo che si diffonde nella seconda metà del Settecento ed è la versione “moderna” dell’“an-tica” passione: sensibility, delicacy of heart, cult of feelings…

A partire dalla svolta degli anni ’50, la presenza di Du Bos è